venerdì 8 luglio 2016

Storia di Nino e Ida, vittime di mafia in attesa di giustizia dallo Stato


di Gabriele Santoro

La storia di Augusta Schiera e Vincenzo Agostino è iniziata a bordo di un autobus, il numero tre. Palermo stava affacciata alla finestra del boom economico italiano. Lei giovane sarta, lui muratore, è stata una questione di sguardi lungo il comune tragitto quotidiano. Correva l’anno 1956, entrambi orfani di padre, un giorno hanno fatto finta di perdere quell’autobus, il tempo piccolo di una passeggiata e quello lungo di un amore che continua a sfidare uno degli inestricabili misteri italiani.

Ida Castelluccio e Antonino Agostino
Vincenzo racconta come i suoi occhi azzurri lucidi, mentre nella stanza attigua della casa palermitana il quindicenne Nino gioca. Augusta sostiene che le coincidenze abbiano un’anima. Il nipote sarebbe dovuto nascere nel settembre del 2001. È venuto al mondo il 5 agosto, a dodici anni esatti dall’assassinio del figlio, il poliziotto Antonino Agostino, assegnato al Commissariato San Lorenzo, e della nuora Giovanna Ida Castelluccio. Nino, nato prematuro di un mese e mezzo, è un ragazzino vivace, che vive nel nome dello zio ucciso. Ida, un’altra nipote, ai nonni dice: «Non siate tristi perché sarò, saremo i vostri testimoni».

A ventisette anni di distanza dal duplice delitto, per Antonino e Ida non c’è ancora una verità processuale, che ricostruisca gli eventi. Non c’è pace per una famiglia, che attende di sapere quale intreccio di interessi abbia prodotto un crimine così efferato. Per riannodare i fili contorti di questa vicenda si può cominciare da una dichiarazione rilasciata da Mimmo La Monica, collega di Agostino fino all’ultimo turno di pattuglia svolto insieme, dopo poche ore dalle esecuzioni attentamente pianificate: «Non si capisce più che sta succedendo in città. Siamo bersagli mobili e non sappiamo chi ci ammazza». Sullo stesso tono il magistrato Giusto Sciacchitano, che da subito coordinò l’inchiesta, in un virgolettato riportato da La Stampa: «A Palermo viviamo male come giudici e come cittadini, mi auguro che questo delitto così grave raffreddi l’atmosfera e ci faccia ritrovare serenità per ottenere di nuovo buoni risultati».

Al Palazzo di giustizia era la stagione del discredito delle istituzioni, dell’indebolimento del pool antimafia, delle guerre intestine fra magistrati. Era l’estate del fallito attentato all’Addaura, che avrebbe dovuto anticipare la strage di Capaci, e quella caldissima della delegittimazione delle lettere del Corvo che allarmò anche gli americani, così attenti e interessati al lavoro di Giovanni Falcone. È significativo che tra la documentazione declassificata dal Dipartimento di Stato statunitense non compaia la specifica informativa sull’attentato dell’Addaura. Quei 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa presa in affitto da Falcone e il mare. Quel giorno all’Addaura c’era anche il magistrato svizzero Carla Del Ponte, che stava indagando sul riciclaggio di denaro sporco.

I diplomatici statunitensi non si capacitavano di come il sistema Italia ostacolasse, denigrasse all’apice della lotta la sua migliore risorsa contro la piaga del crimine organizzato. «I giudici antimafia hanno speso più tempo attardandosi nel combattere fra loro che nel contrastare la mafia. Accuse senza fine e controaccuse hanno così intorbidito le acque che ogni significativa misura contro sospettati di mafia ha dovuto essere pretermessa», recita il cablo E65 – Confidential del 13 ottobre 1989. Il cablogramma E54 – Confidential, intercorso tra l’Ambasciata statunitense e il Dipartimento di Stato, cita anche l’oscuro duplice omicidio commesso a Villagrazia di Carini.

In quelle settimane il ministro dell’Interno Gava ammette che la mafia finanzia il debito pubblico italiano, che aveva già esondato gli argini in una crescita incontrollata, mentre il ministro del Lavoro Donat Cattin esterna che il problema del contrasto alla mafia dipende dall’anagrafe: servono magistrati non siciliani. Sette mesi dopo l’insediamento di Meli, nel ruolo ricoperto da Antonino Caponnetto al vertice del pool, Paolo Borsellino tuonò con due interviste: in buona sostanza «dalle uccisioni di Cassarà e Montana non esisteva una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome».

Nel cuore dell’agosto 1989 i principali quotidiani nazionali associarono per giorni i veleni a quelle due morti apparentemente prive di movente. Il clima è riassumibile nel titolo: «Palermo litiga, la mafia uccide». Ma che cos’è la mafia? Dopo il funerale, celebrato nella Chiesa di Sant’Eugenio, Vincenzo Agostino affidò le proprie sensazioni lucide al Corriere della sera. Parole che oggi leggiamo nell’analisi (Storia dell’Italia mafiosa/2015) di Isaia Sales: «Una criminalità di tipo mafioso è tale se coloro che sono preposti alla repressione e al governo della cosa pubblica sono con essa in rapporti. Un mafioso è, dunque, tale se intreccia relazioni di ogni tipo con parte di coloro che dovrebbero reprimerlo, allontanarlo, giudicarlo».

Vincenzo ripete l’espressione “mele marce”, che avrebbero ostacolato la ricerca della verità fin dalla  notte fra il 5 e il 6 agosto 1989. La definisce una storia di depistaggi, di documenti mancanti, sottratti come in molti misteri collegati alla mafia. «Ho paura che la cronaca, la gente, lo Stato inghiotta anche questi due cadaveri innocenti senza che cambi nulla», disse al Corriere della sera.

Attualmente a Palermo, dopo il respingimento della precedente richiesta di archiviazione da parte dei pm, il Gip Maria Pino ha accolto la richiesta della Procura di Palermo di prorogare le indagini sul caso per sei mesi. Si sono tenuti importanti incidenti probatori come l’esame dei pentiti Vito Lo Forte e Vito Galatolo, e il confronto all’americana tra Agostino e l’ex poliziotto Giovanni Aiello riconosciuto, che nella ricostruzione qualche giorno prima dell’omicidio sarebbe andato a cercare Nino a casa, trovando Vincenzo. Quest’ultimo colloca l’incontro nel luglio 1989, circa venti giorni dopo i fatti dell’Addaura e ricorda:

«Stavo facendo qualche riparazione nella casetta al mare, vicino a Punta Raisi, quando si introdusse senza bussare un maleducato. Mi guardò e domandò: “C’è suo figlio, il poliziotto?”. Risposi di no e se ne andò senza salutare. Era Nino Madonia. Lo rincorsi chiedendo chi fosse: “Digli che siamo colleghi”. C’era un altro personaggio biondastro, bassino, con il volto deformato come se avesse il vaiolo, ad aspettarlo sulla moto. Questa scena e le parole mi restarono impresse. Mi preoccupai molto, ma a Nino non raccontai l’episodio. Successivamente l’ho fatto con i magistrati».

Aiello è fra gli indagati con i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Secondo la versione di Lo Forte i tre avrebbero preso parte all’omicidio e le ragioni andrebbero cercate fuori da Cosa nostra e dentro alle forze di polizia.

La voce di Vincenzo si incrina ancora, quando sussurra con rabbia e dolore di essere l’unico padre vivente ad avere visto cadere il figlio sotto i colpi dei killer. Antonino amava il mare. Augusta lo ripete, come se fosse un’emozione particolare: «Lui trascorreva al mare tutti i suoi momenti liberi. Rappresentava un elemento indispensabile alla sua vita. Era la sua passione. Pescava ed era un sub esperto».

Augusta Schiera e Vincenzo Agostino
La sera del 4 agosto 1989 Agostino, già sposato con Ida, prese la barca e la rete con un altro giovane amico e il padre, con i quali era solito andare a pescare in mare aperto. Alle due di notte, rientrato nella casa in affitto sul litorale a Villagrazia di Carini, comunicò a Vincenzo il cambio di turno al commissariato. Flora, la sorella minore, la sera del 5 avrebbe voluto iniziare a festeggiare in discoteca il proprio diciottesimo compleanno, che ricorre il 6. «Lo svegliai la mattina presto. Facemmo colazione guardando il mare. Poi Antonino mi mise una mano sulla spalla, aggiungendo: “Si chiamerà come te, Vicè”. E se ne andò a lavoro con un sorriso». Ida aveva appena saputo di essere all’inizio della gravidanza. Augusta lo chiama un semino piantato, al quale non è stato concesso di crescere.

Alle 14 del 5 agosto Nino concluse il turno di servizio con una gioia. Con Ida dovevano recarsi dal fotografo a ritirare l’album del matrimonio e avrebbero dato la buona notizia della dolce attesa a tutti i familiari. Da Altofonte, dove gli sposi vivevano in affitto, raggiunsero la casa al mare degli Agostino a Villagrazia di Carini. Vincenzo ha nel cuore il silenzio assordante, la calma relativa prima della guerra: «Nino era uscito per mostrare alla vicina di casa le fotografie. Ero davanti al televisore e ricordo il silenzio assoluto della strada. Quella sera non c’era traffico. All’improvviso sento un botto, pensavo si trattasse di un petardo, poi un altro e un altro ancora». Una voce non smette di rimbombargli nella testa. È quella di Ida che emise un urlo buio, straziante: «Stanno ammazzando mio marito».

Vincenzo scattò dalla poltrona per raggiungere l’uscio di casa. Nino cercava di schivare i colpi, entrando nel cancello: «Riuscì a spalancarlo. Veniva verso di me. Ho visto come lo penetravano quei proiettili, che mi fischiavano nelle orecchie». Nino buttò a terra Ida nel tentativo estremo di salvarla. Nella dinamica impressa nella memoria di Vincenzo, lei si rialzò gridando: «Io so chi siete». Poi le hanno sparato un colpo al cuore: «Avevo adagiato Nino, mentre lei cercava di raggiungerlo a carponi».

Ida, appena ventenne, occhi azzurri e capelli neri, aveva da poco ottenuto la maturità classica. Si sarebbe voluta iscrivere all’università e diventare un’insegnante. Era un’amica di Flora. Aveva conosciuto Nino nel 1986 in occasione del quindicesimo compleanno di Flora. Il loro matrimonio è durato un mese e quattro giorni. Al civico 699 di via Cristoforo Colombo è finito tutto.
Per Ida ci fu una corsa disperata in ospedale. Augusta e un vicino la caricarono in macchina, illudendosi che ci fosse una qualche speranza di sopravvivenza. Le immagini televisive di archivio dell’epoca mostrano il cancello azzurro con tre segni di gessetto a rilevare i fori dei proiettili e si scorge una coperta appena varcato l’ingresso. Augusta di ritorno dall’ospedale, calatasi fra le gambe di poliziotti e carabinieri, alla vista del corpo inanimato senza uno straccio addosso, entrò in casa a prendere quella coperta. Sul posto giunse anche Paolo Borsellino, che era in villeggiatura a poca distanza.

A caldo il fratello maggiore di Nino lo girò sottosopra per cercare la pistola di ordinanza. Era disarmato. I due killer scapparono a bordo di una motocicletta, una Honda di grossa cilindrata, poi ritrovata bruciata, che risultò essere stata rubata due mesi prima a un pregiudicato. «In quegli anni, in quel punto non era mai, mai, passata una macchina della polizia. Pochi istanti dopo l’esecuzione vidi arrivare in senso di marcia inverso una volante. Stranamente c’era un solo uomo. Voleva sapere che cosa fosse successo. Mi pose domande strane, stupide. Mi arrabbiai e presi il baracchino per le comunicazioni all’interno dell’auto. Quest’ultima si allontanò e in breve tempo dalla centrale molte volanti raggiunsero via Cristoforo Colombo 699». Il primo lancio dell’Ansa, che diede la notizia, è delle 20.26.

In quella notte di tempesta Vincenzo fissa un punto che ritiene decisivo. Dalla scena del delitto, dal portafogli di Nino caddero vari biglietti. In uno dei quali ci sarebbe stato scritto: «Qualora mi succedesse qualcosa andate a guardare nel mio armadio». La stessa notte Flora venne portata a casa del fratello, che fu perquisita. «Le mele marce non hanno avuto nessun rispetto, neanche per mia figlia», dice Vincenzo. Anche Flora sognava di entrare in Polizia. A settembre sarebbe partita per il concorso. Era spesso al Commissariato San Lorenzo, era curiosa, incalzava il fratello: «Lui però non raccontava nulla. Quella sera i colleghi mi hanno portata a casa sua. Essendo molto legata a Nino avrei dovuto sapere qualcosa. Mi interrogarono per molte ore. Mio padre venne a riprendermi tra le tre e le quattro. Completarono la perquisizione dicendo: “Abbiamo trovato, possiamo andarcene”».
Gli appunti di Nino sono spariti. Del suo memoriale sono rimaste poche tracce scritte, ora di pubblico dominio, in una delle quali leggiamo:

«La mafia è un fenomeno in evoluzione. Da rozzo venditore il mafioso manda adesso i figli a scuola. Si istruiscono a spese di questo Stato in cui loro stessi sono parassiti. La mafia è come un cancro inestricabile che sta lentamente infettando la società. Adesso capisco il disprezzo dei settentrionali verso i meridionali. Provo disprezzo contro quella parte di siciliani, di cui purtroppo ero parte anch’io, che si estranea da questa realtà come se a loro non interessasse niente. Un giorno la mafia arriverà ad avere un peso maggiore nella politica».

La famiglia Agostino ha sempre creduto e ripete che in quelle pagine sottratte potrebbero esserci le risposte, gli atti mancanti.

Anche Vincenzo fu interrogato dall’allora Capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera. Uno scambio acceso: «Voleva sapere quello che sapevo. Ripeto, siccome mio figlio a proposito del lavoro era riservatissimo, non avevamo alcuna informazione. La Barbera ha insistito con arroganza, minacciando l’arresto. A questa parola me ne sono andato via. Dovevo vegliare la salma di mio figlio. Sono corso al cimitero di Carini, dove avevano portato i due cadaveri. Quella notte ci siamo sentiti soli, abbandonati dallo Stato». Alle prime luci dell’alba la famiglia Agostino venne raggiunta dal Capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi e dal ministro dell’Interno Gava. Vincenzo accenna alle pacche sulle spalle, ma ha sempre la stessa domanda: «Che cosa c’era scritto dentro agli appunti, ritrovati a casa, che lasciò mio figlio?»

Parisi, visibilmente scosso, si concesse ai microfoni Rai: «La mafia vuole fermare lo Stato. Colpisce con la sua mano vile affinché lo Stato si fermi». Il primo elemento dirimente della vicenda è che nessuno dentro alla Polizia fa luce su quale fosse il ruolo dell’agente Antonino Agostino. Sulla stampa filtrano ipotesi del tutto discordanti. Nei primi due giorni successivi al delitto il cognome diventa Agostini ed è rappresentato come un agente senza alcun incarico di rilievo, mai occupatosi di indagini di mafia. Nelle parole dell’allora questore Fernando Masone: «Non è possibile dare un giudizio, perché non mi risulta che la vittima avesse partecipato a indagini su attività mafiose».

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