venerdì 23 dicembre 2016

La vita dopo Chernobyl: "L'ultimo amore di Baba Dunja"


di Gabriele Santoro

«Credi che nascerà un nuovo pesco?»
«No. Le pesche si riproducono più che altro per talea».
«Intendevo dire, prima o poi questo posto dimenticherà ciò che gli è stato fatto? Tra cento, duecento anni? Ci vivranno delle persone che saranno felici e spensierate? Come prima?»


Baba Dunja sa amare così tanto la vita da potersi prendere gioco della morte. Le brucia dentro la lettera che le ha scritto la nipote, Laura, mai conosciuta. Poche parole rivolte a un futuro complesso, espresse in una lingua a lei non comprensibile, che però sa sentire.

Il talento di Alina Bronsky, classe 1978, che scrive in tedesco con lo sguardo rivolto alla Russia natia lasciata dopo l’infanzia, riesce a impastare le mani dentro alla malinconia senza smarrirsi. A trent’anni dal disastro nucleare di Chernobyl, Keller ha portato in Italia un romanzo, L’ultimo amore di Baba Dunja (traduzione dal tedesco di Scilla Forti, 165 pagine, 14.50 euro), che commuove per il dialogo letterario così finitamente umano tra una donna e la natura circostante. L’amore appare un’entità separata dall’esistenza disincantata di Baba, ma si annida in ogni pagina.

A Černovo, piccolo villaggio non distante da Chernobyl e contaminato dalle radiazioni nucleari incontrollate, il tempo non esiste, è sospeso come nella dimensione del gioco. Baba Dunja non è l’unica a rianimare il luogo che il mondo vorrebbe dimenticare in fretta, cancellare dalle mappe. Insieme a Petrov, Marja, ai coniugi Gavrilov, Sidorov e agli animali, perlopiù insetti, ci spiega che cosa voglia dire avere cura della propria casa, della terra e dei suoi frutti.

«Mi sembra una barbarie ferire sempre lo stesso albero ed estrarne troppa linfa in una volta sola, come fanno certe persone in zone che godono di una fama migliore della nostra. La linfa di betulla viene venduta a caro prezzo e a nessuno importa degli alberi prosciugati e pieni di cicatrici. Io invece perforo la corteccia con cautela, inserisco un tubicino, ci metto sotto il vasetto e lo lego stringendo forte. L’elisir defluisce goccia a goccia e dopo alcuni giorni, quando vado a recuperarlo, richiudo l’area ferita con la stessa cura che riservavo ai pazienti». Da giovane Baba Dunja si portava dietro anche i figli, Irina e Alexej, ricordando loro: «Non distruggete niente, se non è necessario. È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre».

A Černovo i pochi abitanti rientrati conducono una vita completamente autosufficiente: nei giardini coltivano le verdure, prendono l’acqua dal pozzo, preparano il brodo di pollo e rielaborano i termini della questione dello stare insieme in una comunità. I personaggi tutti nell’età della vecchiaia si interrogano sul senso del loro esserci e quell’ambiente contaminato sembra paradossalmente amplificare le necessità vitali, senza tuttavia l’ansia di rincorrerle. La vecchiaia è tutela dell’avvenire, la missione che tiene insieme quella comunità. Chiedono agli altri quanta vita ci sia nei rispettivi altrove: «Siamo sinistri agli occhi della gente. Sembrano convinti che la zona della morte corrisponda davvero ai confini tracciati dagli uomini sulle cartine».

Bronsky non lascia sottotraccia il tema della frontiera. Con una scrittura asciutta e incisiva ricompone due mondi, quelli divisi dal Muro, e l’urgenza di una nuova identità. Colpiscono la capacità descrittiva e la forte caratterizzazione della protagonista, che mischia misticismo e materialismo, mantenendo sempre la giusta distanza.

L’autrice, cresciuta a Yekaterinburg, ai piedi dei Monti Urali, all’epoca piombò nel silenzio fatto
calare sull’incidente. Le implicazioni della vicenda le si presentarono solo una volta approdata in Germania. Il 26 aprile 1986 il quarto reattore riversò radiazioni per dieci giorni in un’area poi contaminata pari a duecentomila metri quadrati, il 71% tra Bielorussia, Russia e Ucraina. All’inizio del romanzo l’assenza di notizie certe è ben illustrata, tanto quanto il panico e la fuga: oltre 250mila persone lasciarono i propri paesi.

I due figli di Baba Dunja, che nel 1986 aveva cinquanta anni, vivevano già al sicuro, lontano da lei. Irina studiava a Mosca e successivamente si è sistemata in Germania con la figlia Laura. Solo le lettere e i pacchetti varcano la frontiera. Baba non accetterà mai l’ovest, è una donna libera, indipendente, radicale che torna a Černovo e si riprende la propria vecchia casa.

Le pareti sono tappezzate di foto dell’adolescente Laura, che ha tagliato i capelli a zero, ha lasciato la scuola e chiuso lo zaino: dice di odiare tutti, tranne Baba Dunja. In fondo Laura cerca lo stesso amore della nonna in grado di accogliere quel che il mondo ha ferito e poi ripudiato.

domenica 11 dicembre 2016

Quando la matita di Igor Tuveri incontra Murakami

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 24
11 dicembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Scrivere un romanzo rappresenta una sfida, mentre un racconto breve è una gioia, sostiene Haruki Murakami: «Se scrivere romanzi assomiglia al piantare una foresta, le short stories creano un giardino. I due processi sono complementari, disegnando un paesaggio che amo».

Dal 2014 la casa editrice Einaudi ha pubblicato alcuni racconti dello scrittore giapponese con il contributo artistico di illustratori che accompagnano i testi. È da poco in libreria Gli assalti alle panetterie (72 pagine, 15 euro, traduzione a cura di Antonietta Pastore), che contiene due racconti e le tavole di Igort, nome d'arte di Igor Tuveri, artista così legato al Sol Levante (Quaderni giapponesi – Un viaggio nell'impero dei segni, Coconino Press - Fandango, 2015, che è anche un saggio sulla cultura grafica e letteraria locale ne è una testimonianza). Igort, uno dei principali fumettisti italiani, è stato tra i primi occidentali a collaborare con riviste giapponesi.

Sempre nel 2014 per la nuova edizione anglosassone di The Strange Library, una rivisitazione della shot story del 1982 Toshokan kita, è stata compiuta la scelta di arricchire i racconti di Murakami con le illustrazioni. Tradotto da Ted Goossen, in quell'occasione i disegni vennero affidati alla nota matita statunitense di Charles Kidd, in arte Chip Kidd. Per lo stesso titolo, La strana biblioteca in Italia, Einaudi aveva individuato il romano Lorenzo Ceccotti (LRNZ). E così è avvenuto in ogni paese di pubblicazione.

«In ogni caso, avevamo fame. Anzi, per l'esattezza, ci sembrava di aver inghiottito il vuoto cosmico, quella era la sensazione», recita l'incipit di L'assalto a una panetteria, inedito in Italia. Un gruppo di ragazzi privi di denaro e affamati vogliono compiere un reato: rapinare una panetteria. Varchiamo poi la soglia del surrealismo. Gli adolescenti di Murakami hanno coscienza piena di quel che non c'è e li rende famelici, manca la fantasia. Dio era morto, al pari di Marx e John Lennon. È curiosa la contropartita che offre il panettiere per cedere il cibo. Lui, membro del Partito comunista, ascoltava Wagner: «Ho trovato! - fece il padrone. - A voi piace Wagner?». «No – risposi io». «Ecco, se ve lo fate piacere, vi lascio mangiare tutto il pane che volete».

Il secondo assalto a una panetteria invece era stato già tradotto per la raccolta L'elefante scomparso. Nel 1985, quando uscì la prima edizione, questo racconto ruppe la tradizione del realismo giapponese, ottenendo il consenso di lettori e critici. Anche qui il cibo sostanzia il peso dell'assenza e l'urgenza dell'essere liberi. La scelta del tipo di pasto non è casuale. In uno scenario notturno Murakami ci porta dentro a un McDonald's. Lui, impegnato nella routine di uno studio legale, e lei, segretaria in una scuola di design, davanti a giornate, mai diverse una dell'altra, hanno «una fame impellente, quasi selvaggia». Il frigo è vuoto e il disegno di Igort, una barca adagiata sul mare calmo, ma sotto la trasparenza si scorge un vulcano, restituisce l'essenza della scrittura di Murakami, ne valorizza la metafora vivida.

Loro si sporgono sul ciglio dell'abisso e lui ricorda quando da ragazzo per procurarsi cibo, compì una rapina così simile a un fiasco. Ieri era disoccupato, oggi è sistemato, ma il matrimonio quanto il lavoro non curano il vuoto. Torna l'esigenza di assaltare. Le panetterie sono tutte chiuse, McDonald's no, e loro due vogliono trenta hamburger. Davanti alla minaccia di un'arma, i giovani impiegati del fast food mostrano una sola inquietudine: il venir meno della contabilità della carne che irriterebbe il datore di lavoro. La narrazione in prima persona ci presenta personaggi che non si conformano alla cultura imperante, della quale il cibo costituisce un'espressione ed è un fattore fondamentale, rivelatore.

venerdì 9 dicembre 2016

Paul Beatty e Lo schiavista, una conversazione

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 29
9 dicembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro


Paul Beatty, classe 1962, radici losangeline, con Lo schiavista (Fazi Editore, 369 pagine, 18.50 euro, traduzione ottima di Silvia Castoldi) è da poco il primo scrittore nordamericano insignito del prestigioso riconoscimento letterario Man Booker Prize. The Sellout, il titolo originale dell'opera, è un romanzo satirico, coraggioso che, sottraendosi al canone della classica denuncia sociale grazie alla fantasia e al talento dell'autore, guarda al proprio paese, lo interroga e dissacra, mettendolo allo specchio.


Potremmo cominciare a leggere il libro da questo dialogo: «È illegale gridare “al fuoco” in un cinema pieno di gente, giusto?». «Sì». «Be’, io ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale». Il narratore, il venduto, nell'incipit potente si fa carico del pregiudizio storicizzato: «So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente». Me, soprannominato Bonbon, ci porta davanti alla Corte Suprema col caso 09-2606: lui contro gli Stati Uniti d'America. Il giudice nero è costernato: perché ai giorni nostri un afroamericano viola i principi, possedendo uno schiavo, e sostiene che la segregazione riunisca le persone di una comunità in crisi di identità?

C'è la violenza della polizia, che uccide il padre di Me. Ci sono i non luoghi di Los Angeles, ibrida e sconfinata. L'imputato è originario di Dickens, un ghetto nella periferia sud di Los Angeles a immagine e somiglianza della reale Compton, scomparso dalle mappe. Il vecchio Hominy Jenkins, l'abitante più famoso di Dickens, l'ultimo sopravvissuto delle Simpatiche Canaglie, necessita di trovare un appiglio nel naufragio dell'identità e si offre come schiavo. Beatty ci costringe a fare i conti col fallimento dell'utopia, con la contraddizione insita nell'integrazione.

Beatty, Lo schiavista è classificato come un'opera satirica. Proviamo a risolvere l'equivoco sulla satira. Trova riduttiva l'accezione diffusa, che è anche una maschera per non parlare di come il suo testo scavi in profondità il senso della perdita, della morte e gli aspetti più violenti del paese?
«Qualora qualcuno lo categorizzasse come un libro comico, penso che non avrei la stessa reazione. A proposito dell'evidenza della parola satira c'è qualcosa che suona come vacuo, falso e accomodante. L'aggettivo satirico è una maniera per dire: “Questo è un libro divertente che tratta una materia seria, ma non dobbiamo misurarci con la tristezza e il dolore”. Esiste un'antinomia per la satira? In che modo definiremmo un libro posato che si occupa di argomenti umoristici? Sono forse uno scrittore post satirico? No, post satirico è satirico. Sono intrappolato, non fa niente».

In un passaggio intenso e spassoso del prologo, lei fa dire a Martin Luther King Jr. che «se solo avesse assaggiato quell'intruglio non dolcificato, disgustoso, fatto passare per tè freddo ai banconi delle tavole calde negli Stati segregazionisti del Sud, avrebbe sciolto l'intero movimento per i diritti civili prima dei boicottaggi, dei pestaggi e degli omicidi». Intendeva discostarsi dalla narrazione acritica sugli esiti del Movimento?
«Il romanzo non ha la pretesa di emettere alcuna verità a proposito; piuttosto usa il vantaggio del senno di poi per presentare un'alternativa obliqua e leggermente riluttante nella reinterpretazione della lotta. Qualora si chiedesse agli americani se ritengono che il Movimento per i diritti civili sia stato proficuo, ci sarebbe un consenso generale: “Sì lo è stato”. Ma non c'è nulla di scontato come il pieno consenso. C'è sempre almeno una persona che esprime una forma di dissenso. Questo libro è l'incarnazione della persona non del tutto d'accordo. La persona che concorda ma alza la mano soltanto a metà».

Quanto è stato errato e fuorviante immaginare un cordone ombelicale tra Barack Obama e la comunità afroamericana, e soprattutto ritenere la sua elezione un'eredità postuma del Movimento per i diritti civili?
«È stato miope presumere che, in quanto nero, avesse una responsabilità inerente per affrontare l'ingiustizia sociale, quando invece dovremmo pretendere da qualunque presidente di essere cosciente e avversare le diseguaglianze. C'è un video interessante del Presidente Obama, un politico nero potente, intervistato da una giornalista nera in una delle sale del nuovo Smithson Museum of African American History. Lei gli domanda di una recente sparatoria della polizia a Tulsa, Oklahoma, dove il videotape mostra la vittima, Terence Crutcher, chiaramente con le mani alzate. Obama, che aveva alle sue spalle una gigantografia di Martin Luther King Jr, afferma: “È mia abitudine non commentare i fatti specifici...”. Se il presidente non può dichiarare nulla su un omicidio ripreso e catturato dentro a una pellicola, è almeno molto inquietante. Poi ci sorprendiamo perché una larga parte della cittadinanza statunitense si chieda perché importarsene. Grazie a Dio persone come MLK Jr., Angela Davis, Eugene Debs, Moms Mabley, Cesar Chavez, Bernie Sanders, Ta-Nehisi Coates e Richard Pryor l'hanno fatto, hanno parlato nello specifico».

Potremmo dire che, giorno dopo giorno, il concetto del post razziale sia sempre più confuso e fragile?
«Ritengo che la definizione potrebbe rimanere la stessa, ma la voce sul vocabolario andrebbe scritta e letta così: post racial – aggettivo [arcaico]».

Dopo le elezioni Toni Morrison ha invitato a rileggere William Faulkner. Perché il senso dell'essere americano è tuttora profondamente connesso alla bianchezza, al colore della pelle?
«Sostituisca americanità con italianità e potrebbe trovare lo stesso tipo di risposta scomoda».

Quali sono i bisogni degli elettori di Donald Trump?
«Molte persone convergono sull'opinione e sentimento, originariamente fatto risalire al filosofo francese Joseph de Maistre, secondo il quale i paesi hanno i leader che meritano. Non concordo. Malgrado il processo democratico, nessuno merita una leadership pregiudiziale e vendicativa. Trump incontra i bisogni della popolazione che non realizza che il sentirsi dire cosa pensare è equivalente al sentirsi dire di non ragionare, al mettere da parte la razionalità. A volte le persone necessitano di una figura paterna, nonostante sia ingiuriosa, illusoria».

Nutre qualche timore in particolare per l'agenda Trump?
«Il crescente restringimento del raggio d'azione dei media. Quanto sapremo rispetto alla sua attività? Ha incontrato da poco il primo ministro giapponese Shinzō Abe, ma non ne sappiamo nulla».

venerdì 2 dicembre 2016

Matthews, Fidel Castro e il New York Times


di Gabriele Santoro

«Fidel Castro, il ribelle, leader della gioventù di Cuba, è vivo e sta lottando duramente e con successo nell’aspra, quasi impenetrabile roccaforte della Sierra Maestra, nell’estremità meridionale dell’isola», recita l’incipit dell’articolo di Herbert Matthews, pubblicato dal New York Times il 24 febbraio 1957, che smentiva in modo clamoroso la morte di Castro e ne delineava la lotta.


Nel dicembre 1956, al contrario, si supponeva che Castro fosse stato ucciso insieme al fratello Raúl, colpiti subito allo sbarco sulla costa, e che i militari avessero i loro corpi. Almeno così riportava un dispaccio di United Press sul quale la corrispondente Phillips tentennò molto, e si spese invano per non farlo finire in pagina sul New York Times.

La passione di Herbert Lionel Matthews, uno dei corrispondenti esteri più influenti e controversi del XX secolo con alle spalle i campi di battaglia in Africa ed Europa, si era riaccesa per quello che stava avvenendo nell’isola caraibica. Aveva l’urgenza di andare a vedere con i propri occhi laggiù, oltre i 144 chilometri che separano Cuba dagli Usa, muovendosi dall’ufficio spazioso al decimo piano del Times Building a New York. Molto vicino e coccolato dall’editore Arthur Hays Sulzberger, dopo una vita al fronte, dal 1950 ricopriva il ruolo di editorialista, e ne approfittava per viaggiare e scrivere senza fretta. Nei diciassette anni successivi si occupò soltanto del Centro e dell’America Latina.
Lo disturbava la censura ferrea imposta dal regime del dittatore Fulgencio Batista, incontrando l’esigenza parallela degli aspiranti rivoluzionari di rivolgersi direttamente alla gente per generare il consenso e dunque moltiplicare la propria forza militare. Per usare le parole del generale Máximo Gómez: «Senza la stampa non arriveremo da nessuna parte».

Ruby Phillips, che aveva ereditato dal marito il ruolo di corrispondente per il New York Times all’Avana, fece pervenire un telegramma a Emanuel Freedman, il redattore degli esteri. Tra le righe, sottraendosi alle maglie della censura che non risparmiava neanche l’ufficio di corrispondenza, convocò Matthews. Castro aveva fatto riferire di essere intenzionato a parlare con un giornalista statunitense nella Sierra Maestra, qualcuno avrebbe dovuto raggiungerlo. Lei, oltre al timore di essere espulsa, era dubbiosa sugli esiti di quella ribellione. Matthews, dopo il via libera del giornale, che coprì le spese del viaggio anche alla moglie, rivelatasi fondamentale per la tutela degli spostamenti isolani, approdò all’Avana sabato 9 febbraio. Per superare le linee militari governative, i due posarono da turisti. Dopodiché il cinquantasettenne Matthews da solo, a piedi, completò la spedizione complicata nel fango della Sierra Maestra.

Il trasferimento dall’Avana durò sedici ore con numerose fermate. Condotto in un luogo impervio in montagna, attese a lungo, al buio, l’arrivo di Castro. Condivisero una colazione e nello spazio di tre ore Matthews aveva in tasca la notizia di portata mondiale, contenuta in sette pagine di appunti manoscritti. Per autenticare la testimonianza chiese a Castro una firma autografa, poi pubblicata all’interno del servizio.


Matthews, come ricostruisce Anthony DePalma nel libro L’uomo che inventò Fidel, pubblicato dieci anni fa negli Stati Uniti e contestualmente in Italia da Nuovi Mondi Media, era affascinato dai ribelli. Nel 1995, durante un viaggio a New York, Castro fece visita al Times. Scorrendo le pareti con le fotografie e le figure luminose della storia del quotidiano, il Líder Máximo chiese: «Dov’è Matthews?». Lui nell’ultimo giorno in redazione rifiutò qualsiasi forma di commiato. Ai colleghi disse che festeggiare il pensionamento sarebbe stato come andare al suo funerale. Non dimenticò fino alla morte le critiche durissime dentro e fuori dal Times, dopo una carriera gloriosa oscurata dal mito.

La memoria di un osservatore acuto, particolarmente ammirato da Ernest Hemingway già nella Guerra civile spagnola, massima espressione dell’essenza giornalistica e della sua caducità, è scivolata nell’oblio, accusato di antiamericanismo, di aver sbagliato il ritratto del futuro dittatore che per dirla con Galeano era più abituato agli echi che alle voci. L’intervista costituì una svolta, in qualche modo fu la genesi mediatica dell’ascesa castrista. Nelle montagne remote della Sierra Maestra su un monumento marmoreo è inciso: «In questo luogo il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz incontrò il giornalista nordamericano Herbert Matthews, il 17 febbraio 1957». Alla morte nel 1977, Matthews risultava disconosciuto nel proprio paese, mentre a Cuba era un’icona della libera stampa.

In realtà dopo lo scoop, in un’epoca radio e televisione iniziavano a contaminare l’influenza dei giornali, Matthews per un periodo breve conobbe l’adulazione, destinata ai futuri volti giornalistici televisivi, raramente riservata in precedenza a una penna della carta stampata.

Quali elementi emergono dalla corrispondenza esclusiva del 24 febbraio 1957, che scrisse la Storia? Lui è l’unico a sapere fino alla pubblicazione sul Nyt: «Questa è la prima notizia sicura, verificata, che Fidel Castro è ancora vivo ed è ancora a Cuba». Innanzitutto Matthews qualifica Castro come il «nemico più pericoloso del Generale Batista»; «centinaia di cittadini altamente rispettati stanno sostenendo il Señor Castro»; «si sta sviluppando in tutta Cuba un formidabile movimento di opposizione al Generale Batista»; «Fidel Castro e il suo Movimento del 26 luglio sono il simbolo ardente di questa opposizione al regime»; «da una valutazione dei fatti, il Generale Batista non ha la possibilità di soffocare la rivolta di Castro». Dopo i numerosi editoriali nei quali aveva stigmatizzato la censura di Batista, coglie l’occasione per ribadire che la stampa non si silenzia: «Questo resoconto, insieme agli altri che verranno, romperanno la censura più dura nella storia di Cuba».


Matthews tratteggia poi le difficoltà socioeconomiche dell’isola in cui «la disoccupazione è pesante» e «la corruzione è dilagante». Esprime alcune valutazioni sul movimento rivoluzionario, che si definisce socialista con una forte impronta nazionalistica: «Il programma è vago e redatto solo nelle linee generali, ma giunge a un New Deal per Cuba, radicale, democratico e anticomunista». Questo è il passaggio incriminato dall’America maccartista e non solo. Ancora: «La sua è una mente politica prima che militare. Ha una salda idea della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, del bisogno di restaurare la Costituzione e indire le elezioni». Il corrispondente rassicura anche sul versante dei rapporti futuri con gli Stati Uniti, virgolettando: «Può esserne certo che non nutriamo alcuna animosità nei confronti degli Usa e del popolo nordamericano. Stiamo lottando soprattutto per una Cuba democratica e per la fine della dittatura».

Secondo l’accusa Matthews, che protesse la segretezza delle proprie fonti e dei luoghi attraversati per giungere al nascondiglio di Castro, l’avrebbe presentato con una partecipazione emotiva distante dal presunto concetto di oggettività e soprattutto avrebbe sottovalutato il pericolo rosso. In una corrispondenza successiva si legge: «Il comunismo ha poco a che vedere con l’opposizione al regime».

Abbiamo parlato con i mormorii più lievi, riporta Matthews evidentemente affascinato: «Castro è un grande oratore. I suoi occhi marroni brillano; il suo sguardo intenso penetra chi lo ascolta e la sua voce restituisce il vivido senso scenico del dramma». Castro si rivolge all’interlocutore, dicendogli che sarà il primo a informare il popolo cubano della loro esistenza: «Lottiamo da 79 giorni e siamo più forti che mai. Il morale dei soldati è basso, ne stiamo uccidendo molti, ma non ci sono esecuzioni sommarie dei prigionieri».

Matthews considerava un dovere professionale l’accesso non mediato ai protagonisti della Storia e ai documenti sensibili, senza spaventarsi dall’assumere posizione nei confronti dell’editore o competitori, riuscendo così a influenzare il discorso pubblico statunitense.

La vicenda, come evidenzia DePalma, corrispondente da oltre trent’anni del Nyt e penna del coccodrillo di Castro, ricorda la mutevolezza della verità, piegata poi al clima della Guerra Fredda, e la natura imperfetta del mestiere che Matthews esercitò sempre con lo spirito e la convinzione di assicurare la veridicità relativa della notizia. Si domandò e domandò poi: «Le metamorfosi di Fidel possono essere mia responsabilità?». Lui a differenza degli altri era stato nella Sierra Maestra, ottenendo l’informazione seppure controversa che nessuno aveva. Castro accreditò l’idea che questi articoli lo avessero avvicinato a prendere il potere, danneggiando ulteriormente la posizione dell’articolista. Per lo stesso Che Guevara il lavoro di Matthews fu più rilevante per i ribelli di una vittoria sul campo di battaglia.


Nel corso di una visita negli Stati Uniti il Líder Máximo, umiliando Matthews, sostenne che al momento dell’incontro con l’inviato nordamericano il movimento fosse composto da appena una ventina di soldati che lo circondavano e gli giravano intorno. DePalma lo ritiene un eccesso dialettico castrista, Matthews non era così facilmente impressionabile, e a dispetto del titolo del libro Castro avrebbe comunque trionfato.

«Lottò contro l’etichetta pubblica di inventore di Castro. Insistette che nei suoi articoli non aveva fatto altro che dare a Fidel l’opportunità di essere sé stesso, rigettando l’idea che le pubblicazioni avessero garantito un aiuto sovrastimato all’insurrezione cubana», asserisce DePalma.
I principi liberali e democratici di Matthews erano fuori discussione. La sua figura non era associabile a quella di Walter Duranty, corrispondente del Times che nel 1932 vinse il Pulitzer con un servizio su Stalin destituito di ogni veridicità, tuttavia il rapporto con la fonte così primaria, per altri irraggiungibile e ricca di suggestione lo aveva spinto dentro a un cespuglio di spine.

Matthews, classe 1900, genitori di origine ebraica provenienti dall’Europa orientale, crebbe a New York, Manhattan. Dopo essersi arruolato nel 1918, al ritorno in patria si laureò alla Columbia University. Segnava come fondamentale per la sua formazione e visione della vita un libro: Real Soldiers of Fortune di Richard Harding Davis, famoso corrispondente estero del New York Journal e del New York Herald poi, considerato il primo corrispondente di guerra dell’età moderna. La madre gli aveva regalato il libro per un compleanno. Amava studiare Dante.

Nel 1922 c’era un posto vacante di segretario stenografo al New York Times, ma dopo il colloquio Herbert scoprì che l’impiego reale consisteva in quello di segretario del vicedirettore commerciale. All’inizio sognava una carriera da accademico, voleva occuparsi di libri. Nel 1931 il cambio di passo si concretizzò con l’opportunità di trasferirsi in Francia nella sede parigina del New York Times per seguire le notizie economiche finanziarie.

Il percorso umano e giornalistico è stato segnato dall’esperienza nella Guerra civile spagnola. Anche lì nel marzo 1937 realizzò uno scoop, individuando e testimoniando la presenza di soldati italiani combattenti; fu la prima evidenza del sostegno mussoliniano a Franco. In Spagna l’obiettività giornalistica cominciò a mischiarsi con le necessità della lotta, con l’attenzione all’ingiustizia sociale e al contributo che il suo scrivere poteva dare alla causa in cui finì per riconoscersi.

Nel 1961 Matthews entrò nella parabola discendente della propria carriera. La dichiarazione di Castro di essere un marxista leninista fino alla fine della propria esistenza, lo compromise ulteriormente. A causa della paranoia da Guerra Fredda ricevette numerose minacce di morte con un progressivo deterioramento dei rapporti col Nyt, che gli chiese e proibì di coprire l’attualità cubana, ma lui disobbedì. E a proposito di Fidel aveva ormai esplicitato la convinzione che fino a quando sarebbe rimasto al potere Cuba non avrebbe conosciuto democrazia e libertà, stretta anche dal giogo nordamericano. Nel 1967 si congedò dagli uffici di Times Square, ritirandosi sulla riviera francese a scavare tra le proprie memorie.

Nel ritratto, pubblicato a pagina 36 (Herbert L. Matthews dead at 77; Times Correspondent for Decades) del New York Times il 31 luglio 1977, Wolfgang Saxon ci dice che Matthews è morto in Australia ad Adelaide dopo una breve malattia e che pochi giornalisti hanno avuto una carriera del genere. Gli dà atto di aver scritto la verità osservabile nelle circostanze date, tanto in Spagna quanto a Cuba, mettendo a repentaglio la propria incolumità:

«(…) In both cases, as on others occasions, he wrote the truth as he saw it with an observant eye and a keen sense of language».

Hanif Kureishi: «La creatività si nasconde nelle periferie».

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-25 
2 dicembre 2016

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Esiste una chiave per entrare nell'originale mondo di parole costruito da Hanif Kureishi, inserito dal Times nella lista dei cinquanta scrittori britannici più rilevanti nel secondo dopoguerra mondiale. È qualcosa di donato, Something given, il titolo dell'opera, che fornisce gli elementi necessari a comprendere la capacità di inventare una cifra stilistica, un mondo che prima non c'era, e l'essenza della scrittura di un autore così poliedrico. Se la Gran Bretagna è una forza culturale in Europa lo deve al multiculturalismo e alla diversità, sostiene Kureishi che apre al Palazzo dei Congressi la quindicesima edizione della Fiera Più libri più liberi con la lectio Scrivere per essere indipendenti.

Classe 1954, nato a Bromley, da padre pachistano e madre inglese, dove imperversavano gli skinhead. Il razzismo si respirava nell'aria e l'adolescenza consisteva nella ricomposizione creativa in un'identità di due universi, occidente e oriente. Dopo la divisione dell'India nel 1947, la famiglia Kureishi, appartenente alla media alta borghesia, vicini ai Bhutto, si era unita alle aspirazioni del Pakistan.

Il figlio di Rafiushan e Audrey, più o meno inglese con una marcata sensibilità tanto artistica quanto politica, nel cuore degli anni Ottanta, poco più che trentenne, si impose con la sceneggiatura di My Beautiful Laundrette scritta per l'amico Stephen Frears. Nell'era Thatcher, Kureishi portava in scena, rompendo gli schemi rappresentativi della relazione tra bianchi e asiatici, la complessa costruzione del cosmopolitismo che è conversazione tra diversi. Poi, cinque anni più tardi, la consacrazione col romanzo d'esordio Il Budda delle periferie, il bestseller che ha portato a compimento l'urgenza autoriale di rifuggire l'appartenenza forzata.

Kureishi, lei si è misurato con la scrittura per il cinema, il teatro, il racconto e il romanzo. E sostiene che quest'ultimo sia destinato a essere sempre meno rilevante nel discorso pubblico.
«Non intendo niente di apocalittico. Si continua a leggere e scrivere buoni romanzi, non c'è ragione di perdere le speranze e l'interesse nella letteratura. Non credo però sia incidentale l'assegnazione del Premio Nobel a Bob Dylan, l'espressione massima della cultura pop e figura fondamentale nella nostra vita culturale più di molti romanzieri. Lo suppongo anche per una ragione personale: essendo cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, ritengo che la musica abbia rappresentato la novità più dirompente per la società. I musicisti apparivano decisamente i più rivoluzionari».

Nella raccolta di riflessioni sulla scrittura, Da dove vengono le storie, lei afferma che già tredicenne aveva la convinzione di diventare uno scrittore, concretizzando poi il sogno di suo padre. Perché la figura paterna è così presente nei suoi libri?
«È stato uno scrittore fallito, che ha speso la propria vita per un'ossessione per lui irrealizzabile. Scrivere era una direzione, che lo orientava verso l'India lasciata appena ventenne. Ogni mattina presto, prima del lavoro, martellava i tasti della sua ingombrante macchina da scrivere. Era tenace e mostrava questo unico interesse, mai tradito. Seminava taccuini ovunque in casa, mi è sembrato naturale avvicinarmi al mestiere che è tenacia e solitudine. Era sempre alla ricerca di storie, lavoravamo insieme agli intrecci, in famiglia si parlava di letteratura. Inventare e raccontare storie ci teneva uniti a doppio filo. Čechov ci ha insegnato che nell'irrilevante accadono gli eventi più profondi da saper cogliere. E ora ho trasmesso la passione ai miei figli, giovani sceneggiatori».

Lei ha frequentato la stessa scuola di David Bowie nella periferia meridionale di Londra. Come era possibile emergere dalla marginalità?
«Mio padre capiva che in periferia, dove nascondersi è spesso la sola arte ma dove fervono aspirazioni, delusioni e sogni, c'è abbondanza di materiale per uno scrittore. I sobborghi che abbiamo vissuto dopo la guerra erano molto grigi, ma anche luoghi interessanti. Pativamo la pioggia, il freddo ma il cuore di Londra era il centro del nostro universo, c'era una vita culturale pulsante dalla musica al teatro, nuove forme di sessualità e devianza. La periferia era al contempo terribile e creativa, da lì rimbalzavamo con le passioni per la musica, la fotografia, i club e il fashion. Billy Idol veniva a scuola con me, sono sbocciate molte vite creative. Scrivevo per lasciare la periferia, ma le storie erano custodite lì».

Le chiedo un ricordo personale di Bowie.
«Intanto ci ha accomunato la scuola, seppure lui fosse più grande di età. Anonimo David Jones se ne stava in una fotografia di classe appesa accanto alla presidenza. Nel romanzo Il Budda delle periferie c'è un personaggio che lo richiama. Lui concepì la colonna sonora per la serie televisiva tratta dal libro ed è un album meraviglioso, spesso sottovalutato, che lui considerava tra i propri migliori. Questa è un'eredità preziosa. Era educato, ricco di immaginazione, condusse molti di noi tra gli spazi interstellari».

The Nothing è il titolo del nuovo romanzo appena ultimato. Torna su un soggetto cruciale delle sue opere, Londra che accoglie e uccide. In che modo sta cambiando la città?
«Il periodo è molto interessante. Londra spicca tra le città globalizzate. È un esperimento multiculturale grandioso, ma ora dopo Brexit vive una transizione, cerca di capire quello che accadrà, quale città diventerà. Resta uno spazio attrattivo, dove essere quello che si vuole, nel quale sono contento di stare. Temo che la concentrazione della ricchezza, la renda un posto accessibile per pochi».

Karim Amir nell'incipit de Il Budda delle periferie esplicita la complessità della propria identità: «Sono un vero inglese, più o meno. La gente mi considera uno strano tipo di inglese, come se appartenessi a una nuova razza». A quasi trent'anni di distanza dalla pubblicazione, che cosa significa oggi essere inglesi?
«L'englishness, l'identità culturale inglese se n'è andata. Affacciandomi alla finestra vedo una città, un paese cosmopolita. Englishness come idea è quasi del tutto scomparsa. Non era un'idea interessante, fertile e ricca, non diceva nulla a troppe persone. Abbiamo un'identità cosmopolita che è fondamentale».

Ci dice qualcosa a proposito di Sadiq Khan, il nuovo sindaco di Londra?
«È prematuro formulare un giudizio politico. Per ora si può dire che incarna lo spirito multiculturale della città, la rappresenta. Estremamente intelligente e molto rispettato, cosa rara per i politici del nostro tempo. Le sfide sono molteplici, a cominciare dalla povertà, dalle crescenti diseguaglianze e dunque dal come si tiene insieme una città, l'educazione, la sanità e soprattutto l'urbanistica, il diritto all'abitare per tutti. Lo vedremo all'opera».

Nel cuore degli anni Novanta con The Black album il protagonista Shahid Hassan è intrappolato tra il liberalismo di stampo occidentale e il fondamentalismo religioso, lei esplora il percorso che ha avvicinato giovani anglo pakistani all'islamismo. È cambiato qualcosa?
«Sarà interessante osservare l'evoluzione della nuova generazione di musulmani. Black album è stato scritto dopo la fatwa che colpì Rushdie, in largo anticipo sull'Undici Settembre statunitense. Ora non ci si muove più tra due culture, ma si è sottoposti a miriadi di influenze. Il mio auspicio è che la gioventù post 11/9 riesca a prendere le distanze da una religiosità che conduce in nessun dove. Sulle due sponde dell'Atlantico stiamo assistendo a un vento di destra molto forte e preoccupante, da Brexit a Trump».

Lei appartiene a una generazione di scrittori che ha guardato all'America con molteplici riferimenti letterari e musicali. Con un tweet ha espresso la propria inquietudine per un ritorno della Supremazia bianca, l'ha definita White Isis.
«È una questione interessante. Il populismo differisce dai totalitarismi novecenteschi, ma continua ad alimentare il razzismo mai eradicato. Ho paura per le minoranze vittime dell'ascesa di nuove espressioni della white supremacy».