venerdì 2 dicembre 2016

Matthews, Fidel Castro e il New York Times


di Gabriele Santoro

«Fidel Castro, il ribelle, leader della gioventù di Cuba, è vivo e sta lottando duramente e con successo nell’aspra, quasi impenetrabile roccaforte della Sierra Maestra, nell’estremità meridionale dell’isola», recita l’incipit dell’articolo di Herbert Matthews, pubblicato dal New York Times il 24 febbraio 1957, che smentiva in modo clamoroso la morte di Castro e ne delineava la lotta.


Nel dicembre 1956, al contrario, si supponeva che Castro fosse stato ucciso insieme al fratello Raúl, colpiti subito allo sbarco sulla costa, e che i militari avessero i loro corpi. Almeno così riportava un dispaccio di United Press sul quale la corrispondente Phillips tentennò molto, e si spese invano per non farlo finire in pagina sul New York Times.

La passione di Herbert Lionel Matthews, uno dei corrispondenti esteri più influenti e controversi del XX secolo con alle spalle i campi di battaglia in Africa ed Europa, si era riaccesa per quello che stava avvenendo nell’isola caraibica. Aveva l’urgenza di andare a vedere con i propri occhi laggiù, oltre i 144 chilometri che separano Cuba dagli Usa, muovendosi dall’ufficio spazioso al decimo piano del Times Building a New York. Molto vicino e coccolato dall’editore Arthur Hays Sulzberger, dopo una vita al fronte, dal 1950 ricopriva il ruolo di editorialista, e ne approfittava per viaggiare e scrivere senza fretta. Nei diciassette anni successivi si occupò soltanto del Centro e dell’America Latina.
Lo disturbava la censura ferrea imposta dal regime del dittatore Fulgencio Batista, incontrando l’esigenza parallela degli aspiranti rivoluzionari di rivolgersi direttamente alla gente per generare il consenso e dunque moltiplicare la propria forza militare. Per usare le parole del generale Máximo Gómez: «Senza la stampa non arriveremo da nessuna parte».

Ruby Phillips, che aveva ereditato dal marito il ruolo di corrispondente per il New York Times all’Avana, fece pervenire un telegramma a Emanuel Freedman, il redattore degli esteri. Tra le righe, sottraendosi alle maglie della censura che non risparmiava neanche l’ufficio di corrispondenza, convocò Matthews. Castro aveva fatto riferire di essere intenzionato a parlare con un giornalista statunitense nella Sierra Maestra, qualcuno avrebbe dovuto raggiungerlo. Lei, oltre al timore di essere espulsa, era dubbiosa sugli esiti di quella ribellione. Matthews, dopo il via libera del giornale, che coprì le spese del viaggio anche alla moglie, rivelatasi fondamentale per la tutela degli spostamenti isolani, approdò all’Avana sabato 9 febbraio. Per superare le linee militari governative, i due posarono da turisti. Dopodiché il cinquantasettenne Matthews da solo, a piedi, completò la spedizione complicata nel fango della Sierra Maestra.

Il trasferimento dall’Avana durò sedici ore con numerose fermate. Condotto in un luogo impervio in montagna, attese a lungo, al buio, l’arrivo di Castro. Condivisero una colazione e nello spazio di tre ore Matthews aveva in tasca la notizia di portata mondiale, contenuta in sette pagine di appunti manoscritti. Per autenticare la testimonianza chiese a Castro una firma autografa, poi pubblicata all’interno del servizio.


Matthews, come ricostruisce Anthony DePalma nel libro L’uomo che inventò Fidel, pubblicato dieci anni fa negli Stati Uniti e contestualmente in Italia da Nuovi Mondi Media, era affascinato dai ribelli. Nel 1995, durante un viaggio a New York, Castro fece visita al Times. Scorrendo le pareti con le fotografie e le figure luminose della storia del quotidiano, il Líder Máximo chiese: «Dov’è Matthews?». Lui nell’ultimo giorno in redazione rifiutò qualsiasi forma di commiato. Ai colleghi disse che festeggiare il pensionamento sarebbe stato come andare al suo funerale. Non dimenticò fino alla morte le critiche durissime dentro e fuori dal Times, dopo una carriera gloriosa oscurata dal mito.

La memoria di un osservatore acuto, particolarmente ammirato da Ernest Hemingway già nella Guerra civile spagnola, massima espressione dell’essenza giornalistica e della sua caducità, è scivolata nell’oblio, accusato di antiamericanismo, di aver sbagliato il ritratto del futuro dittatore che per dirla con Galeano era più abituato agli echi che alle voci. L’intervista costituì una svolta, in qualche modo fu la genesi mediatica dell’ascesa castrista. Nelle montagne remote della Sierra Maestra su un monumento marmoreo è inciso: «In questo luogo il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz incontrò il giornalista nordamericano Herbert Matthews, il 17 febbraio 1957». Alla morte nel 1977, Matthews risultava disconosciuto nel proprio paese, mentre a Cuba era un’icona della libera stampa.

In realtà dopo lo scoop, in un’epoca radio e televisione iniziavano a contaminare l’influenza dei giornali, Matthews per un periodo breve conobbe l’adulazione, destinata ai futuri volti giornalistici televisivi, raramente riservata in precedenza a una penna della carta stampata.

Quali elementi emergono dalla corrispondenza esclusiva del 24 febbraio 1957, che scrisse la Storia? Lui è l’unico a sapere fino alla pubblicazione sul Nyt: «Questa è la prima notizia sicura, verificata, che Fidel Castro è ancora vivo ed è ancora a Cuba». Innanzitutto Matthews qualifica Castro come il «nemico più pericoloso del Generale Batista»; «centinaia di cittadini altamente rispettati stanno sostenendo il Señor Castro»; «si sta sviluppando in tutta Cuba un formidabile movimento di opposizione al Generale Batista»; «Fidel Castro e il suo Movimento del 26 luglio sono il simbolo ardente di questa opposizione al regime»; «da una valutazione dei fatti, il Generale Batista non ha la possibilità di soffocare la rivolta di Castro». Dopo i numerosi editoriali nei quali aveva stigmatizzato la censura di Batista, coglie l’occasione per ribadire che la stampa non si silenzia: «Questo resoconto, insieme agli altri che verranno, romperanno la censura più dura nella storia di Cuba».


Matthews tratteggia poi le difficoltà socioeconomiche dell’isola in cui «la disoccupazione è pesante» e «la corruzione è dilagante». Esprime alcune valutazioni sul movimento rivoluzionario, che si definisce socialista con una forte impronta nazionalistica: «Il programma è vago e redatto solo nelle linee generali, ma giunge a un New Deal per Cuba, radicale, democratico e anticomunista». Questo è il passaggio incriminato dall’America maccartista e non solo. Ancora: «La sua è una mente politica prima che militare. Ha una salda idea della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, del bisogno di restaurare la Costituzione e indire le elezioni». Il corrispondente rassicura anche sul versante dei rapporti futuri con gli Stati Uniti, virgolettando: «Può esserne certo che non nutriamo alcuna animosità nei confronti degli Usa e del popolo nordamericano. Stiamo lottando soprattutto per una Cuba democratica e per la fine della dittatura».

Secondo l’accusa Matthews, che protesse la segretezza delle proprie fonti e dei luoghi attraversati per giungere al nascondiglio di Castro, l’avrebbe presentato con una partecipazione emotiva distante dal presunto concetto di oggettività e soprattutto avrebbe sottovalutato il pericolo rosso. In una corrispondenza successiva si legge: «Il comunismo ha poco a che vedere con l’opposizione al regime».

Abbiamo parlato con i mormorii più lievi, riporta Matthews evidentemente affascinato: «Castro è un grande oratore. I suoi occhi marroni brillano; il suo sguardo intenso penetra chi lo ascolta e la sua voce restituisce il vivido senso scenico del dramma». Castro si rivolge all’interlocutore, dicendogli che sarà il primo a informare il popolo cubano della loro esistenza: «Lottiamo da 79 giorni e siamo più forti che mai. Il morale dei soldati è basso, ne stiamo uccidendo molti, ma non ci sono esecuzioni sommarie dei prigionieri».

Matthews considerava un dovere professionale l’accesso non mediato ai protagonisti della Storia e ai documenti sensibili, senza spaventarsi dall’assumere posizione nei confronti dell’editore o competitori, riuscendo così a influenzare il discorso pubblico statunitense.

La vicenda, come evidenzia DePalma, corrispondente da oltre trent’anni del Nyt e penna del coccodrillo di Castro, ricorda la mutevolezza della verità, piegata poi al clima della Guerra Fredda, e la natura imperfetta del mestiere che Matthews esercitò sempre con lo spirito e la convinzione di assicurare la veridicità relativa della notizia. Si domandò e domandò poi: «Le metamorfosi di Fidel possono essere mia responsabilità?». Lui a differenza degli altri era stato nella Sierra Maestra, ottenendo l’informazione seppure controversa che nessuno aveva. Castro accreditò l’idea che questi articoli lo avessero avvicinato a prendere il potere, danneggiando ulteriormente la posizione dell’articolista. Per lo stesso Che Guevara il lavoro di Matthews fu più rilevante per i ribelli di una vittoria sul campo di battaglia.


Nel corso di una visita negli Stati Uniti il Líder Máximo, umiliando Matthews, sostenne che al momento dell’incontro con l’inviato nordamericano il movimento fosse composto da appena una ventina di soldati che lo circondavano e gli giravano intorno. DePalma lo ritiene un eccesso dialettico castrista, Matthews non era così facilmente impressionabile, e a dispetto del titolo del libro Castro avrebbe comunque trionfato.

«Lottò contro l’etichetta pubblica di inventore di Castro. Insistette che nei suoi articoli non aveva fatto altro che dare a Fidel l’opportunità di essere sé stesso, rigettando l’idea che le pubblicazioni avessero garantito un aiuto sovrastimato all’insurrezione cubana», asserisce DePalma.
I principi liberali e democratici di Matthews erano fuori discussione. La sua figura non era associabile a quella di Walter Duranty, corrispondente del Times che nel 1932 vinse il Pulitzer con un servizio su Stalin destituito di ogni veridicità, tuttavia il rapporto con la fonte così primaria, per altri irraggiungibile e ricca di suggestione lo aveva spinto dentro a un cespuglio di spine.

Matthews, classe 1900, genitori di origine ebraica provenienti dall’Europa orientale, crebbe a New York, Manhattan. Dopo essersi arruolato nel 1918, al ritorno in patria si laureò alla Columbia University. Segnava come fondamentale per la sua formazione e visione della vita un libro: Real Soldiers of Fortune di Richard Harding Davis, famoso corrispondente estero del New York Journal e del New York Herald poi, considerato il primo corrispondente di guerra dell’età moderna. La madre gli aveva regalato il libro per un compleanno. Amava studiare Dante.

Nel 1922 c’era un posto vacante di segretario stenografo al New York Times, ma dopo il colloquio Herbert scoprì che l’impiego reale consisteva in quello di segretario del vicedirettore commerciale. All’inizio sognava una carriera da accademico, voleva occuparsi di libri. Nel 1931 il cambio di passo si concretizzò con l’opportunità di trasferirsi in Francia nella sede parigina del New York Times per seguire le notizie economiche finanziarie.

Il percorso umano e giornalistico è stato segnato dall’esperienza nella Guerra civile spagnola. Anche lì nel marzo 1937 realizzò uno scoop, individuando e testimoniando la presenza di soldati italiani combattenti; fu la prima evidenza del sostegno mussoliniano a Franco. In Spagna l’obiettività giornalistica cominciò a mischiarsi con le necessità della lotta, con l’attenzione all’ingiustizia sociale e al contributo che il suo scrivere poteva dare alla causa in cui finì per riconoscersi.

Nel 1961 Matthews entrò nella parabola discendente della propria carriera. La dichiarazione di Castro di essere un marxista leninista fino alla fine della propria esistenza, lo compromise ulteriormente. A causa della paranoia da Guerra Fredda ricevette numerose minacce di morte con un progressivo deterioramento dei rapporti col Nyt, che gli chiese e proibì di coprire l’attualità cubana, ma lui disobbedì. E a proposito di Fidel aveva ormai esplicitato la convinzione che fino a quando sarebbe rimasto al potere Cuba non avrebbe conosciuto democrazia e libertà, stretta anche dal giogo nordamericano. Nel 1967 si congedò dagli uffici di Times Square, ritirandosi sulla riviera francese a scavare tra le proprie memorie.

Nel ritratto, pubblicato a pagina 36 (Herbert L. Matthews dead at 77; Times Correspondent for Decades) del New York Times il 31 luglio 1977, Wolfgang Saxon ci dice che Matthews è morto in Australia ad Adelaide dopo una breve malattia e che pochi giornalisti hanno avuto una carriera del genere. Gli dà atto di aver scritto la verità osservabile nelle circostanze date, tanto in Spagna quanto a Cuba, mettendo a repentaglio la propria incolumità:

«(…) In both cases, as on others occasions, he wrote the truth as he saw it with an observant eye and a keen sense of language».

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