venerdì 23 dicembre 2016

La vita dopo Chernobyl: "L'ultimo amore di Baba Dunja"


di Gabriele Santoro

«Credi che nascerà un nuovo pesco?»
«No. Le pesche si riproducono più che altro per talea».
«Intendevo dire, prima o poi questo posto dimenticherà ciò che gli è stato fatto? Tra cento, duecento anni? Ci vivranno delle persone che saranno felici e spensierate? Come prima?»


Baba Dunja sa amare così tanto la vita da potersi prendere gioco della morte. Le brucia dentro la lettera che le ha scritto la nipote, Laura, mai conosciuta. Poche parole rivolte a un futuro complesso, espresse in una lingua a lei non comprensibile, che però sa sentire.

Il talento di Alina Bronsky, classe 1978, che scrive in tedesco con lo sguardo rivolto alla Russia natia lasciata dopo l’infanzia, riesce a impastare le mani dentro alla malinconia senza smarrirsi. A trent’anni dal disastro nucleare di Chernobyl, Keller ha portato in Italia un romanzo, L’ultimo amore di Baba Dunja (traduzione dal tedesco di Scilla Forti, 165 pagine, 14.50 euro), che commuove per il dialogo letterario così finitamente umano tra una donna e la natura circostante. L’amore appare un’entità separata dall’esistenza disincantata di Baba, ma si annida in ogni pagina.

A Černovo, piccolo villaggio non distante da Chernobyl e contaminato dalle radiazioni nucleari incontrollate, il tempo non esiste, è sospeso come nella dimensione del gioco. Baba Dunja non è l’unica a rianimare il luogo che il mondo vorrebbe dimenticare in fretta, cancellare dalle mappe. Insieme a Petrov, Marja, ai coniugi Gavrilov, Sidorov e agli animali, perlopiù insetti, ci spiega che cosa voglia dire avere cura della propria casa, della terra e dei suoi frutti.

«Mi sembra una barbarie ferire sempre lo stesso albero ed estrarne troppa linfa in una volta sola, come fanno certe persone in zone che godono di una fama migliore della nostra. La linfa di betulla viene venduta a caro prezzo e a nessuno importa degli alberi prosciugati e pieni di cicatrici. Io invece perforo la corteccia con cautela, inserisco un tubicino, ci metto sotto il vasetto e lo lego stringendo forte. L’elisir defluisce goccia a goccia e dopo alcuni giorni, quando vado a recuperarlo, richiudo l’area ferita con la stessa cura che riservavo ai pazienti». Da giovane Baba Dunja si portava dietro anche i figli, Irina e Alexej, ricordando loro: «Non distruggete niente, se non è necessario. È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre».

A Černovo i pochi abitanti rientrati conducono una vita completamente autosufficiente: nei giardini coltivano le verdure, prendono l’acqua dal pozzo, preparano il brodo di pollo e rielaborano i termini della questione dello stare insieme in una comunità. I personaggi tutti nell’età della vecchiaia si interrogano sul senso del loro esserci e quell’ambiente contaminato sembra paradossalmente amplificare le necessità vitali, senza tuttavia l’ansia di rincorrerle. La vecchiaia è tutela dell’avvenire, la missione che tiene insieme quella comunità. Chiedono agli altri quanta vita ci sia nei rispettivi altrove: «Siamo sinistri agli occhi della gente. Sembrano convinti che la zona della morte corrisponda davvero ai confini tracciati dagli uomini sulle cartine».

Bronsky non lascia sottotraccia il tema della frontiera. Con una scrittura asciutta e incisiva ricompone due mondi, quelli divisi dal Muro, e l’urgenza di una nuova identità. Colpiscono la capacità descrittiva e la forte caratterizzazione della protagonista, che mischia misticismo e materialismo, mantenendo sempre la giusta distanza.

L’autrice, cresciuta a Yekaterinburg, ai piedi dei Monti Urali, all’epoca piombò nel silenzio fatto
calare sull’incidente. Le implicazioni della vicenda le si presentarono solo una volta approdata in Germania. Il 26 aprile 1986 il quarto reattore riversò radiazioni per dieci giorni in un’area poi contaminata pari a duecentomila metri quadrati, il 71% tra Bielorussia, Russia e Ucraina. All’inizio del romanzo l’assenza di notizie certe è ben illustrata, tanto quanto il panico e la fuga: oltre 250mila persone lasciarono i propri paesi.

I due figli di Baba Dunja, che nel 1986 aveva cinquanta anni, vivevano già al sicuro, lontano da lei. Irina studiava a Mosca e successivamente si è sistemata in Germania con la figlia Laura. Solo le lettere e i pacchetti varcano la frontiera. Baba non accetterà mai l’ovest, è una donna libera, indipendente, radicale che torna a Černovo e si riprende la propria vecchia casa.

Le pareti sono tappezzate di foto dell’adolescente Laura, che ha tagliato i capelli a zero, ha lasciato la scuola e chiuso lo zaino: dice di odiare tutti, tranne Baba Dunja. In fondo Laura cerca lo stesso amore della nonna in grado di accogliere quel che il mondo ha ferito e poi ripudiato.

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