di Gabriele Santoro
Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca”, scrisse Gesualdo Bufalino nella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie.
A venticinque anni di distanza dalla strage di Capaci l’esigenza, tuttora primaria, di sapere ciò che è stato sotto la superficie per non desistere sta nelle parole di Bufalino, quanto in quelle di Tina Montinaro che si rivolge al marito Antonio, caposcorta del giudice Giovanni Falcone, caduto in servizio il 23 maggio 1992 al chilometro 5 della A29:
…Beh, vuoi sapere cosa è successo in questi ultimi venticinque anni? È cambiato tanto, non c’è dubbio; dopo quella tragica data, la coscienza dei palermitani sembra essersi risvegliata. Ci volevano le due stragi per portare migliaia di persone giù in strada? Non lo so, non riesco a capirlo, ma è un dato di fatto: da quelle date si è cominciata a sviluppare una genuina coscienza antimafia che però ahimè, ti devo confessare, credo che negli ultimi anni si sia persa. (…) A mio avviso la mafia c’è ancora ed è presente più che mai; certo, è cambiata, camaleonticamente si è adattata alle circostanze, ha compreso che il terrore non paga e si è inabissata nuovamente nei luoghi più profondi della società.
Piero Melati, viceredattore capo de Il Venerdì di Repubblica diretto da Attilio Giordano, era nella redazione del quotidiano palermitano L’Ora, quando la mafia, che fin dal tardo Ottocento non è una degenerazione patologica della società, ma è strettamente integrata e intellegibile solo nel quadro delle relazioni sviluppate con il potere politico ed economico, contribuiva a incidere la biografia della nazione italiana. Con Giorni di mafia (Laterza, 114 pagine, 14 euro) l’autore asseconda forse l’unica impostazione possibile, teorizzata dallo storico Isaia Sales, per comprendere l’assoluta originalità del metodo criminale mafioso:
Le mafie non sono isolabili in una dimensione periferica della nazione. Esse hanno rappresentato un potente strumento di stabilizzazione e perpetuazione degli equilibri politici, economici e sociali del nostro paese. La storia delle mafie è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello Stato italiano con un territorio che avrebbe avuto bisogno di liberarsi delle forme violente prestatuali e produrre una rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate delle mafie.
Dal 1950 a oggi, le cento date scelte dal giornalista per ricostruire e scandagliare l’evoluzione di un fenomeno delle classi dirigenti, la mafia, assomigliano alla solitudine dei cento giorni di Carlo Alberto dalla Chiesa a Villa Whitaker, sede della Prefettura di Palermo, sintetizzabili in questo botta e risposta tra il Generale e Giorgio Bocca:
Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?
“Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”.
Sappiamo che i poteri restarono a Roma, e che come in ogni delitto eccellente furono trafugati i documenti nei quali Dalla Chiesa custodiva nomi, cognomi e indirizzi della Sicilia criminale di allora. Questa è tutta una storia di atti mancati, mancanti e di uomini cerniera come Vito Guarrasi, ben ritratto nel testo. Melati raccoglie così l’invito di Sciascia a guardarsi dentro. La chiave del successo su scala mondiale e dunque della longevità del modello unico e unitario delle mafie, declinato poi dalle singole organizzazioni criminali, risiede nell’incessante ricerca reciproca tra mafia e potere politico.
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