di Gabriele Santoro
«Si ha bisogno di un padre a cui ribellarsi. Quando un padre non è né morto né vivo, quando è un fantasma, la volontà è impotente. (…) Le mie aspettative riguardo a mio padre erano molto normali. Come quel famoso figlio nell’Odissea – come la maggior parte dei figli, credo – desideravo essere “figlio di un uomo felice, che arriva alla vecchiaia con tutti i suoi beni”. Invece, a differenza di Telemaco, io continuo, dopo venticinque anni, a sopportare che mio padre sia “scomparso nel nulla, ignoto”».
In che modo si può sopravvivere all’assenza, quando il potere riesce a rendere ancora più labile il confine tra la vita e la morte? Hisham Matar aveva diciannove anni, era uno studente universitario già in condizione d’esilio, quando suo padre, Jaballa, fu rapito nel suo appartamento al Cairo e recluso nella prigione libica di Abu Salim. Il regime di Muammar Gheddafi temeva l’autorevolezza e le qualità poliedriche di questo oppositore fiero e colto. Al collasso della dittatura, dunque a ventidue anni di distanza dal rapimento, non vi è stata una parola di verità sulla sorte di Jaballa. Il compito dei burocrati dell’orrore consiste nel non lasciare alcuna traccia. L’ipotesi più accreditata lo vuole vittima dell’eccidio compiuto nel 1996 ad Abu Salim, dove si consumò l’esecuzione di 1270 prigionieri.
L’autobiografia Il ritorno (Einaudi, 246 pagine, 19.50 euro, traduzione di Anna Nadotti) è valsa a Matar il Premio Pulitzer 2017. Lo scrittore intreccia il dolore intimo, che è un’impresa attiva, «è un lavoro duro, onesto», con quello di un popolo che dopo aver vissuto la tregua della rivoluzione, sempre piena di promesse sospese, è piombato nel buio della guerra civile.
Matar è tornato in Libia nella primavera del 2012, in seguito alla destituzione di Gheddafi, per la prima volta in trentatré anni. Associa l’esilio a una forma di senso di colpa e alla rieducazione all’ascolto di voci divenute echi lontani nel tempo. Ci restituisce la misura di quanto una dittatura e il suo sistema ramificato di sorveglianza possano compromettere la fiducia di un popolo in se stesso e al contempo sviluppare cellule straordinarie di resistenza. Impariamo a esplorare l’assenza che – ci ricorda Matar – è un luogo privato di corpo. E solo il tempo può coltivare l’ambizione di riempire quel vuoto:
«Il corpo di mio padre se n’è andato, ma il suo spazio è qui ed è occupato da qualcosa che non può essere considerato semplicemente un ricordo. È vivo e vitale. Come potrebbero la complessità dell’essere, la meccanica della nostra anatomia, l’intelligenza della nostra biologia, e lo sconfinato firmamento della nostra interiorità – pensieri, domande, struggimenti, speranze, bramosia e desiderio e le mille e una contraddizioni che ci abitano in ogni momento – avere una fine che si possa segnare con una data sul calendario? Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui. È nel passato, nel presente e nel futuro».
La rabbia per l’ingiustizia, che attanagliava il ventenne, si trasforma negli anni senza tuttavia possibilità di essere sopita: «Ogni volta che posavo gli occhi sul ritratto di mio padre, il mio cuore si faceva piccolo e duro». Matar ci conduce alla radice plurisecolare di legami familiari. In questo senso è fondamentale la figura del nonno Hamed dalla vita così lunga e avventurosa. Figlio unico, nato nella Libia ottomana, conobbe la brutalità dell’invasione colonialista italiana, il regno di re Idris, e i due decenni seguiti al colpo di Stato di Gheddafi. Matar qualifica come disperato il desiderio di radunare i pezzi della propria famiglia, che non ha mai smesso di sognare una Libia libera come la sua vastità severa e incantevole, ben ritratta dall’autore:
«Un libico che voglia dare un’occhiata a tale passato deve, come un un intruso a una festa privata, entrare in tali libri con la piena consapevolezza che per la maggior parte sono stati scritti da e per chi ha occupato la Libia, e quindi sono, in buona sostanza, narrazioni che riguardano la vita degli altri, le loro avventure e disavventure in Libia come se il proprio paese non fosse che un’occasione per gli stranieri di esorcizzare i loro demoni e realizzare le loro ambizioni».
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