giovedì 15 giugno 2017

Il mio Vietnam, una conversazione con Kim Thúy


di Gabriele Santoro

La capacità di scavare in profondità con lievità e luminosità, ma senza autocensure, rende interessanti i libri di Kim Thúy, nata a Saigon nel 1968 e fuggita dal Vietnam a bordo delle 
boat people all’età di dieci anni per approdare in Québec.


Il mio Vietnam (nottetempo, 142 pagine, 15 euro) raccoglie le tracce biografiche dell’autrice e i suoi temi letterari: il viaggio, la migrazione e il rapporto con la lingua, la cultura culinaria, la composizione e la decostruzione di universi familiari nei quali i non detti sono mondi da esplorare. La guerra si rilegge a distanza di anni negli spazi intimi e nelle abitudini più banali della quotidianità. La sua eredità chiede a ciascuno di reinventarsi, ricostruire legami originali e una narrazione che elude i confini della nazione: «La lingua vietnamita che conoscevo era segnata dall’esilio ed era rimasta cristalizzata in una realtà passata. La storia del Vietnam e dei vietnamiti vive, cresce e diventa complessa senza essere né scritta né raccontata».

Che cosa accade a un’infanzia che dalla torre d’avorio di una famiglia benestante latifondista precipita in un mare in tempesta e nell’inferno dei campi profughi? «Come trovare il cammino davanti a un orizzonte infinito, senza filo spinato, senza sorveglianti? Con gli occhi ancora poco avvezzi alla vastità, come potevo tracciare il mio percorso tra quei larghi e lunghi viali alberati che sembravano tutti perfettamente uguali?», si domanda Vi, il doppio letterario della scrittrice.

Thúy, che cosa ha rappresentato il francese, una sorta di nuova patria, per una figlia della diaspora come lei?
«È la lingua della mia seconda nascita, racconta questo sentimento e quello di essere accettata. In Québec l’accoglienza di noi rifugiati vietnamiti è stata talmente calorosa e generosa che mi sono innamorata del francese, non l’ho imparato in quanto lingua di comunicazione, bensì per l’amore e la voce che mi ha restituito lontano dalla mia terra. Con il comunismo non si poteva parlare e nel campo profughi non c’era nessuno che potesse ascoltarci. Ebbi il privilegio di studiarlo già a scuola, e c’è un libro che mi ha segnato in questo strano rapporto con la lingua, al contempo strumento di coercizione da parte del potere e liberazione».

Quale?
«L’amante di Marguerite Duras. Il primo libro che abbiamo osato comprare lontano dal Vietnam, non più in guerra. Eravamo senza soldi con una sola copia letta insieme allo zio per non rovinarla. Da quella sorta di dettato ho appreso la musicalità della lingua. Mi sono accorta di usare la lingua di quel romanzo, parlavo come il libro».

Ne Il mio Vietnam emerge un’altra forma di espressione, dove mancano le parole. Il cibo appare decisivo nella trasmissione culturale, sentimentale vietnamita.
«È un modo di verbalizzare le nostre emozioni, perché veramente i vietnamiti, i miei genitori stessi non hanno mai utilizzato parole di amore per esprimersi tra di loro e con noi. La cultura dell’alimentazione è per noi un mezzo di comunicazione, la maniera migliore per esprimere i sentimenti. Il cibo raffigura la lingua vietnamita per gli affetti, che vengono scritti ma mai detti ad alta voce. Mentre la cultura occidentale incoraggia a esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, i vietnamiti li serbano gelosamente per sé o li comunicano a parole con molto ritegno, perché lo spazio interiore rappresenta l’unico luogo inaccessibile agli altri».

Con la storia d’amore tra un giovane studente sud-vietnamita e una coetanea nord-vietnamita ci ricorda quanto siano profonde le ferite e la divisione nel Paese. La guerra non è finita?
«Credo che le tracce della guerra durino più a lungo di una generazione. Durante il periodo vissuto da rifugiati non avevamo accesso all’acqua, e tuttora faccio moltissima attenzione al suo consumo e alla pulizia. Questo è un esempio del modo in cui la mia esperienza della guerra si riverbera sui miei figli, che non l’hanno vista. Può darsi che nella prossima generazione si affievolisca l’intensità del ricordo, ma i figli quando dovranno spiegare ai miei futuri nipoti perché i lineamenti del loro viso sono per metà asiatici e metà occidentali risaliranno alla migrazione, dunque alla guerra. Restano le tracce della storia, portiamo ovunque il bagaglio non solamente della nostra vita ma di quella del nostro ambiente. È complesso liberarsi della pesante storia lasciata in eredità da una guerra anche per i giovani che non l’hanno neppure conosciuta».

«Il mio nome non mi predestinava ad affrontare le tempeste in alto mare e ancor meno a condividere una baracca in un campo profughi in Malesia con un’anziana signora che ha pianto giorno e notte per un mese senza spiegarci chi fossero i quattordici bambini che erano con lei». Le pagine sulla migrazione forzata e la vita nei campi profughi sono molto intense. Qual è la differenza fra i rifugiati di ieri e quelli di oggi?
«Pensavo che la guerra del Vietnam, la prima a essere diffusa non in diretta ma con un forte impatto visivo delle immagini ci avesse traumatizzato a sufficienza, ma la storia tende a ripetersi. In Vietnam il mondo ha visto l’atrocità quasi in presa diretta. Il pericolo della guerra oggi consiste nella spersonalizzazione delle bombe gettate dai droni guidati a distanza. In Occidente sono scomparse le immagini dei soldati che muoiono, seppure il proprio paese stia partecipando a una guerra le società non si sentono toccate, le bare e i mutilati non tornano a casa come in passato. Sappiamo che nella stragrande maggioranza le vittime dei conflitti contemporanei sono i civili, e si ha l’impressione di essere su un altro pianeta, che non sia legato a noi. L’indifferenza della massa è il pericolo che corrono maggiore i rifugiati».

Perché per voi è andata diversamente?
«Grazie alla Guerra Fredda. Coloro che potevano scappare dal comunismo erano accolti, applauditi quasi fossero eroi sul versante occidentale capitalista. All’epoca i giornali davano moltissimo spazio ai vietnamiti, affinché la popolazione potesse comprendere e incontrarli, avevamo l’opportunità di dire: bisogna avere paura dei regimi comunisti. Oggi nei media è tutt’altra la figura del migrante, relegato solo ai grandi numeri e alla sicurezza. Il musulmano fa paura. Non si ascoltano mai le voci dei migranti, se si prendesse il tempo necessario a sedersi con loro ci scopriremmo tutti più umani. Ritengo che non si abbia la percezione di che cosa significhi avere campi profughi più estesi di agglomerati urbani. Fabbrichiamo le nostre bombe ogni giorno nel quale un uomo perde la propria dignità. Ciò deflagrerà».

La traduzione letterale del nome proprio Vi, che corrisponde al titolo originale dell’opera, è «preziosa minuscola microscopica». Quale sensazione le ha lasciato la vastità del mare?
«Quando siamo fuggiti in clandestinità non ho visto il mare, perché ero stipata nel ventre dell’imbarcazione. Si avvertivano solo i suoi movimenti violenti che facevano stare male. Sbarcati sulla spiaggia invece quell’immensità distesa davanti a noi era magnifica. Fa paura quell’immensità per tutta la libertà che offre. Mia madre era un’avanguardista, voleva che la figlia sapesse nuotare, ma in Vietnam c’erano poche piscine e le ragazze evitavano di esporsi al sole per non assomigliare alle contadine. Tuttora l’esperienza dell’acqua mi incute paure ormai antiche. Un po’ la stessa sensazione del campo profughi quando mia madre ha cercato di salvaguardare l’innocenza dei miei otto anni».

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