mercoledì 19 luglio 2017

Ricordando Paolo Borsellino


di Gabriele Santoro

Alle 16.58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita con 90 chili di esplosivo, telecomandata a distanza, deflagrò sotto il palazzo nel centro di Palermo, in via Mariano D’Amelio, dove il giudice Paolo Borsellino stava andando a trovare la madre. Insieme a lui furono uccisi gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.


Nelle parole che Agnese Borsellino ci ha affidato, indirizzandosi al marito Paolo, tutto l’universo sembra obbedire all’amore e c’è la traccia forse più profonda dell’impegno del giudice: «Resti per noi un grande uomo, perché dinanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, la vita, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze».

Da quando il non ancora trentenne Paolo Borsellino usciva da casa alle 4 del mattino per camminare fino alla stazione Lolli e prendere il treno destinazione Mazara del Vallo, dove alle 8 attaccava nella sua aula di pretore, l’amministrazione saggia del tempo a disposizione gli appariva inscindibile dalla giustizia, che è anche questione di tempi. «La giustizia lenta è un’ingiustizia per la società. Ecco perché non posso concedermi molti spazi per me. Tanta gente aspetta una mia decisione. E oggi è una giornata preziosa, unica», asseriva il magistrato palermitano.

Venticinque anni non sono pochi per guardarsi dentro, per fare giustizia e la sola dicitura Borsellino quater offre la misura della mancanza di verità sulla strage di via Mariano D’Amelio. Figura chiave ed enigmatica è Gaspare Spatuzza, giovane della periferia palermitana che divenne reggente del mandamento palermitano di Brancaccio, unica la sua partecipazione a tutti gli episodi stragisti consumati tra il 1992 e il 1994.

Quando, nel 2008, firmò il primo verbale da collaboratore di giustizia ben tre procure (Caltanissetta, Firenze e Palermo) hanno dovuto riscrivere la storia dell’attentato di via D’Amelio, annegata fra finti pentiti, depistaggi e condanne passate in giudicato da revisionare. Dirompenti dunque le conseguenze della sua collaborazione che hanno messo in discussione l’esito di tre processi conclusisi in Cassazione, dunque tredici anni di lavoro praticamente buttati.

Solo ad aprile di quest’anno la sentenza del cosiddetto Borsellino quater, avviato nel 2012, ha sancito che Vincenzo Scarantino venne indotto a formulare false accuse con nove persone estranee, condannate all’ergastolo e al 41 bis nei primi tre processi Borsellino, che hanno trascorso in carcere 11 anni. Scarantino, mafioso di improbabile levatura, dopo l’arresto firmato Arnaldo La Barbera, Capo della squadra mobile di Palermo, titolare delle indagini sulla strage, si era autoaccusato di aver rubato la 126 poi imbottita di tritolo, coinvolgendo con le sue dichiarazioni innocenti. Il 13 luglio la Corte d’appello di Catania, che celebrava il processo di revisione delle condanne emesse a Caltanissetta a carico delle persone coinvolte ingiustamente nell’attentato al giudice, ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di strage.

Dal 1978, insieme a decine di uomini delle istituzioni incapaci di abituarsi allo stato delle cose, Borsellino ingaggiò dentro a una vita blindata una lotta che ha sottratto tempo alla fine violenta. Agnese ricordava come Paolo, appena appresa la notizia, si precipitasse sempre da solo senza dire una parola sul luogo dell’ultima tragedia, sperando che l’amico, il collega si fosse salvato dall’attentato. Il volto non cambiò espressione dal luglio del 1983, quando uccisero il padre del pool antimafia Rocco Chinnici, alla corsa in ospedale del 23 maggio 1992 dove riuscì solo a dire alla figlia Lucia: «Giovanni è morto fra le mie braccia».

Quello che impressiona dei 57 giorni trascorsi tra i due atti terroristici di stampo mafioso, la strage di Capaci e il vigliacco agguato di via D’Amelio, è la consapevolezza con la quale Borsellino ha affrontato la certezza dell’essere ucciso, la notizia dell’arrivo del tritolo, e che il tempo per amministrare la giustizia con il rigore e la scrupolosità di cui non ha mai difettato stava scadendo. Lo aveva detto alla moglie, l’ineluttabilità si mischiava all’urgenza di non cedere il passo. Quando la reazione dello Stato continuava a mimetizzarsi nell’ambiguità, senza più i suoi amici al fianco si è fatto carico dell’assenza: forse la sua lezione più grande.

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lunedì 10 luglio 2017

Steinbeck in Vietnam


«Questa guerra in Vietnam lascia molto confusi non solo i vecchi osservatori come me, ma anche quelli che a casa leggono e cercano di capire. È una guerra di sensi, senza fronti e senza retrovie. È dappertutto, come un gas finissimo e onnipresente», scrisse John Steinbeck dall’Hotel Caravelle di Saigon, che lo ospitava, in un dispaccio del 14 gennaio 1967.


Steinbeck, già sessantaquattrenne, e la moglie Elaine atterrarono alla base aerea di Tan Son Nhut, Vietnam del Sud, il 10 dicembre 1966. Li aveva anticipati il figlio John IV, richiamato di leva, militare di stanza a Saigon. L’altro figlio Thom si era arruolato volontario e si preparava a partire appena finito l’addestramento essenziale a Fort Ord in California. Lo scrittore, insignito quattro anni prima del Nobel, ansioso di raggiungere il fronte, era animato dalla personale urgenza per la precisione delle parole. In ossequio all’idea che per scrivere bene di qualsiasi argomento, devi amarlo od odiarlo profondamente, e che in un certo senso è uno specchio della propria personalità.

Citando Steinbeck: «Un uomo che scrive una storia è costretto a metterci dentro il meglio delle proprie conoscenze e del proprio sentimento. La disciplina della parola scritta punisce la stupidità e la disonestà. Uno scrittore vive nello stupore delle parole per quanto possano essere crudeli o gentili, e possano cambiare il proprio significato davanti a te».

In Vietnam, dotato di tuta mimetica, scarponi e un M-16, si accorse che non tutto poteva essere bianco o nero, seppure in quel momento al fronte il suo sostegno alla guerra statunitense, che vedeva il figlio ventenne schierato in prima linea, non consentisse equivoci o titubanze di sorta.

Steinbeck in Vietnam – Dispatches from the war è la sua ultima opera, ripubblicata recentemente in Italia col titolo Vietnam in guerra – dispacci dal fronte (Leg Edizioni, 287 pagine, 22 euro, traduzione a cura di Rossana Macuz Varrocchi). In un’epoca travagliata, nella quale una guerra atipica tracciò una linea di confine nella storia e nell’anima degli Stati Uniti, il romanziere californiano avvertì il riaccendersi dell’istinto primigenio del giornalista, che non può rinunciare alla documentazione sul terreno: «Ovunque io sia stato ho trovato la particolare intimità della guerra. Il casco e il giubbotto d’acciaio scottavano, ma ero felice di sentirmi scottare». E al contempo va alla ricerca del proprio paese che stenta  a riconoscere, un paese nel quale riconoscersi ancora, come manifestato nei suoi ultimi romanzi.

Era insofferente, se non ostile, all’allineamento, che qualificò come acritico e superficiale, degli intellettuali contro la guerra e ai movimenti di protesta giovanili: «Vedo quei ragazzi dai capelli lunghi che contestano contro una vita che devono ancora vivere». E ancora: «Ci sono molti scrittori americani che ammiro e rispetto e che sono fieramente contrari a questa guerra. Sono scrittori diversi fra loro, con storie diverse alle spalle. L’unica cosa che hanno in comune è che non sono mai stati qui. Non riesco a credere che autori come Arthur Miller, Saul Bellow, John Updike e molti altri possano desiderare di non essere coinvolti in uno degli eventi più importanti della loro contemporaneità».

«Le cose io le conosco da sempre vedendo, ascoltando, annusando, toccando», diceva Steinbeck. Salì a bordo delle pattuglie fluviali, perlustrò in elicottero e a piedi aree ampie, descrisse ciò che un soldato vede e vive quotidianamente.

Nel periodo intensissimo trascorso in Vietnam, nel quale Steinbeck confermerà quanto lo scrivere non fosse scindibile dalla sua componente fisica, firmò cinquantotto articoli in forma di lettera per Newsday. Nel 1966 l’arruolamento dei figli e l’offerta dell’amico Harry F. Guggenheim di partire come corrispondente di guerra per il quotidiano di Long Island che contava un pubblico vasto di lettori, oltre 400mila al giorno più un contratto d’agenzia con altre testate di primo piano, gli fecero rompere gli indugi. Rientrò poi negli Stati Uniti dopo aver allargato il viaggio a Laos, Cambogia, Thailandia, Hong Kong, Cina e Giappone. Diede alla rubrica, Lettere ad Alicia, il nome della moglie di Guggenheim da poco scomparsa.

Quasi a volere trovare un punto di contatto con i propri romanzi e con la ragione della sua presenza in Vietnam, Steinbeck menzionò in un dispaccio una poesia recapitatagli in albergo a Saigon:
«(…) Benvenuto in Vietnam, John Steinbeck/che hai scritto Furore/in Vietnam troverai migliaia di Madri Joad/centinaia di migliaia di Rose Sharon/centinaia di migliaia di drammi sull’Oklahoma/dieci volte più tragici/ma anche dieci volte più eroici».

venerdì 7 luglio 2017

La memoria argentina. Un dialogo con Estela de Carlotto


di Gabriele Santoro


Negli anni Settanta Laura, la più grande dei quattro figli di Estela de Carlotto, studiava storia all’Università Nazionale di La Plata, città in cui ancora vive la famiglia. Era un’attivista politica nella Gioventù Universitaria Peronista. Durante la dittatura, come migliaia di studenti del paese, fu sequestrata dalle forze militari e rimase per nove mesi in un campo di concentramento clandestino. Il suo compagno fu ucciso subito, lei era incinta e, dopo aver dato alla luce il suo bambino che le fu immediatamente strappato via, venne assassinata.


Estela de Carlotto

Nel 1980 Estela seppe da sopravvissuti, liberati dai campi illegali di detenzione, che Laura aveva partorito un maschietto e che le era stato concesso di tenerlo fra le braccia solo per poche ore. Per trentasei anni ha cercato il nipote ovunque, in Argentina e oltre confine, fino al 5 agosto del 2014 quando il tempo delle lacrime ha incontrato quello della giustizia. La Banca Nazionale dei Dati Genetici, fondata nel 1987 al fine di poter rintracciare e identificare i nipoti separati dalle famiglie naturali, le ha ridato Guido, la creatura nata dall’amore di Laura: “Ho pianto di gioia, ho abbracciato i miei figli, nipoti, la mia famiglia e le mie compagne. Mi ha illuminato la vita. Abbiamo un bellissimo rapporto. È un musicista e una persona fantastica.”

Dal giorno del sequestro della figlia, il 26 novembre del 1978, a oggi Estela è sempre stata in prima fila, figura preponderante dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, un’organizzazione unica al mondo per almeno due ragioni: l’incessante ricerca di tutti i bambini sottratti in quel periodo nefasto, restituendo la vera identità a 122 nati nelle stanze dei burocrati del dolore, dell’orrore, e la costruzione di un processo storico di verità, memoria e giustizia che non ha eguali.

A maggio in Argentina si è assistito a un’imponente mobilitazione popolare anche nelle piazze contro una sentenza della Corte Suprema che aprirebbe le porte all’impunità per tutti gli assassini condannati, i quali potrebbero chiedere la riduzione della pena che la Corte ha già concesso a Luis Muiño. Nei giorni delle proteste a Buenos Aires c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella, il quale ha reso omaggio ai desaparecidos con il rituale lancio di fiori sulle acque del Rio de La Plata. Vera Vigevani Jarach, madre di Franca Jarach che, appena diciottenne, fu una fra le trentamila vittime desaparecidas della dittatura civico-militare argentina, gli ha consegnato una lettera nella quale si legge:

“Oggi, e dopo 40 anni di pacifico ma perseverante impegno, noi, Madri e Nonne della Plaza de Mayo, i familiari dei desaparecidos e tutti gli altri organismi che per i diritti umani da sempre hanno lottato, abbiamo finalmente avuto in parte giustizia con i processi e le condanne per i colpevoli di questi crimini contro l’umanità.

Oggi, però, siamo molto tristi e preoccupati per una decisione della Corte Suprema che permetterebbe a questi criminali di beneficiare di una forte riduzione delle pene, cosa che ci porterebbe al rischio di incontrarli per strada. Loro, i torturatori, gli assassini dei nostri figli.

Tutto questo non rappresenta solo una marcia indietro verso l’impunità, non solo un colpo tremendo per tutta la società argentina, ma, trattandosi di crimini contro l’umanità, è un’offesa e una minaccia per tutto il mondo».

La sentenza, definita “del 2×1” – che dopo la reazione anche del legislatore non dovrebbe avere gli effetti temuti – si inserisce in un contesto critico emerso fin dal successo elettorale del Presidente Mauricio Macri. Dalle dichiarazioni ad alcuni provvedimenti è stato da subito percepito in modo particolare l’indebolimento del sostegno politico al processo di memoria, verdad y justicia.

“Il governo di Macri ha condotto battaglie concrete per lo svuotamento o la paralisi di organi dedicati alla ricerca di crimini contro l’umanità, ma ha anche compiuto gesti che mirano a una regressione nella battaglia culturale per la memoria” dice Estela de Carlotto. “Alcuni ministri negano che i desaparecidos siano stati trentamila, vari funzionari si mostrano vicini a familiari di condannati per delitti di lesa umanità, lasciando intendere che si tratta di vittime della “sovversione”, come se in Argentina ci fosse stata una guerra civile invece del terrorismo di Stato. Tali gesti danno la possibilità a chi nega che in Argentina ci fu un genocidio di riproporre la teoria dei due demoni, teoria che la giustizia argentina ha demolito mediante numerosi processi in tutto il Paese e nel resto del mondo.”

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