di Gabriele Santoro
Alle 16.58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita con 90 chili di esplosivo, telecomandata a distanza, deflagrò sotto il palazzo nel centro di Palermo, in via Mariano D’Amelio, dove il giudice Paolo Borsellino stava andando a trovare la madre. Insieme a lui furono uccisi gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Nelle parole che Agnese Borsellino ci ha affidato, indirizzandosi al marito Paolo, tutto l’universo sembra obbedire all’amore e c’è la traccia forse più profonda dell’impegno del giudice: «Resti per noi un grande uomo, perché dinanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, la vita, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze».
Da quando il non ancora trentenne Paolo Borsellino usciva da casa alle 4 del mattino per camminare fino alla stazione Lolli e prendere il treno destinazione Mazara del Vallo, dove alle 8 attaccava nella sua aula di pretore, l’amministrazione saggia del tempo a disposizione gli appariva inscindibile dalla giustizia, che è anche questione di tempi. «La giustizia lenta è un’ingiustizia per la società. Ecco perché non posso concedermi molti spazi per me. Tanta gente aspetta una mia decisione. E oggi è una giornata preziosa, unica», asseriva il magistrato palermitano.
Venticinque anni non sono pochi per guardarsi dentro, per fare giustizia e la sola dicitura Borsellino quater offre la misura della mancanza di verità sulla strage di via Mariano D’Amelio. Figura chiave ed enigmatica è Gaspare Spatuzza, giovane della periferia palermitana che divenne reggente del mandamento palermitano di Brancaccio, unica la sua partecipazione a tutti gli episodi stragisti consumati tra il 1992 e il 1994.
Quando, nel 2008, firmò il primo verbale da collaboratore di giustizia ben tre procure (Caltanissetta, Firenze e Palermo) hanno dovuto riscrivere la storia dell’attentato di via D’Amelio, annegata fra finti pentiti, depistaggi e condanne passate in giudicato da revisionare. Dirompenti dunque le conseguenze della sua collaborazione che hanno messo in discussione l’esito di tre processi conclusisi in Cassazione, dunque tredici anni di lavoro praticamente buttati.
Solo ad aprile di quest’anno la sentenza del cosiddetto Borsellino quater, avviato nel 2012, ha sancito che Vincenzo Scarantino venne indotto a formulare false accuse con nove persone estranee, condannate all’ergastolo e al 41 bis nei primi tre processi Borsellino, che hanno trascorso in carcere 11 anni. Scarantino, mafioso di improbabile levatura, dopo l’arresto firmato Arnaldo La Barbera, Capo della squadra mobile di Palermo, titolare delle indagini sulla strage, si era autoaccusato di aver rubato la 126 poi imbottita di tritolo, coinvolgendo con le sue dichiarazioni innocenti. Il 13 luglio la Corte d’appello di Catania, che celebrava il processo di revisione delle condanne emesse a Caltanissetta a carico delle persone coinvolte ingiustamente nell’attentato al giudice, ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di strage.
Dal 1978, insieme a decine di uomini delle istituzioni incapaci di abituarsi allo stato delle cose, Borsellino ingaggiò dentro a una vita blindata una lotta che ha sottratto tempo alla fine violenta. Agnese ricordava come Paolo, appena appresa la notizia, si precipitasse sempre da solo senza dire una parola sul luogo dell’ultima tragedia, sperando che l’amico, il collega si fosse salvato dall’attentato. Il volto non cambiò espressione dal luglio del 1983, quando uccisero il padre del pool antimafia Rocco Chinnici, alla corsa in ospedale del 23 maggio 1992 dove riuscì solo a dire alla figlia Lucia: «Giovanni è morto fra le mie braccia».
Quello che impressiona dei 57 giorni trascorsi tra i due atti terroristici di stampo mafioso, la strage di Capaci e il vigliacco agguato di via D’Amelio, è la consapevolezza con la quale Borsellino ha affrontato la certezza dell’essere ucciso, la notizia dell’arrivo del tritolo, e che il tempo per amministrare la giustizia con il rigore e la scrupolosità di cui non ha mai difettato stava scadendo. Lo aveva detto alla moglie, l’ineluttabilità si mischiava all’urgenza di non cedere il passo. Quando la reazione dello Stato continuava a mimetizzarsi nell’ambiguità, senza più i suoi amici al fianco si è fatto carico dell’assenza: forse la sua lezione più grande.
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