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di Gabriele Santoro
«Questa guerra in Vietnam lascia molto confusi non solo i vecchi osservatori come me, ma anche quelli che a casa leggono e cercano di capire. È una guerra di sensi, senza fronti e senza retrovie. È dappertutto, come un gas finissimo e onnipresente», scrisse John Steinbeck dall’Hotel Caravelle di Saigon, che lo ospitava, in un dispaccio del 14 gennaio 1967.
Steinbeck, già sessantaquattrenne, e la moglie Elaine atterrarono alla base aerea di Tan Son Nhut, Vietnam del Sud, il 10 dicembre 1966. Li aveva anticipati il figlio John IV, richiamato di leva, militare di stanza a Saigon. L’altro figlio Thom si era arruolato volontario e si preparava a partire appena finito l’addestramento essenziale a Fort Ord in California. Lo scrittore, insignito quattro anni prima del Nobel, ansioso di raggiungere il fronte, era animato dalla personale urgenza per la precisione delle parole. In ossequio all’idea che per scrivere bene di qualsiasi argomento, devi amarlo od odiarlo profondamente, e che in un certo senso è uno specchio della propria personalità.
Citando Steinbeck: «Un uomo che scrive una storia è costretto a metterci dentro il meglio delle proprie conoscenze e del proprio sentimento. La disciplina della parola scritta punisce la stupidità e la disonestà. Uno scrittore vive nello stupore delle parole per quanto possano essere crudeli o gentili, e possano cambiare il proprio significato davanti a te».
In Vietnam, dotato di tuta mimetica, scarponi e un M-16, si accorse che non tutto poteva essere bianco o nero, seppure in quel momento al fronte il suo sostegno alla guerra statunitense, che vedeva il figlio ventenne schierato in prima linea, non consentisse equivoci o titubanze di sorta.
Steinbeck in Vietnam – Dispatches from the war è la sua ultima opera, ripubblicata recentemente in Italia col titolo Vietnam in guerra – dispacci dal fronte (Leg Edizioni, 287 pagine, 22 euro, traduzione a cura di Rossana Macuz Varrocchi). In un’epoca travagliata, nella quale una guerra atipica tracciò una linea di confine nella storia e nell’anima degli Stati Uniti, il romanziere californiano avvertì il riaccendersi dell’istinto primigenio del giornalista, che non può rinunciare alla documentazione sul terreno: «Ovunque io sia stato ho trovato la particolare intimità della guerra. Il casco e il giubbotto d’acciaio scottavano, ma ero felice di sentirmi scottare». E al contempo va alla ricerca del proprio paese che stenta a riconoscere, un paese nel quale riconoscersi ancora, come manifestato nei suoi ultimi romanzi.
Era insofferente, se non ostile, all’allineamento, che qualificò come acritico e superficiale, degli intellettuali contro la guerra e ai movimenti di protesta giovanili: «Vedo quei ragazzi dai capelli lunghi che contestano contro una vita che devono ancora vivere». E ancora: «Ci sono molti scrittori americani che ammiro e rispetto e che sono fieramente contrari a questa guerra. Sono scrittori diversi fra loro, con storie diverse alle spalle. L’unica cosa che hanno in comune è che non sono mai stati qui. Non riesco a credere che autori come Arthur Miller, Saul Bellow, John Updike e molti altri possano desiderare di non essere coinvolti in uno degli eventi più importanti della loro contemporaneità».
«Le cose io le conosco da sempre vedendo, ascoltando, annusando, toccando», diceva Steinbeck. Salì a bordo delle pattuglie fluviali, perlustrò in elicottero e a piedi aree ampie, descrisse ciò che un soldato vede e vive quotidianamente.
Nel periodo intensissimo trascorso in Vietnam, nel quale Steinbeck confermerà quanto lo scrivere non fosse scindibile dalla sua componente fisica, firmò cinquantotto articoli in forma di lettera per Newsday. Nel 1966 l’arruolamento dei figli e l’offerta dell’amico Harry F. Guggenheim di partire come corrispondente di guerra per il quotidiano di Long Island che contava un pubblico vasto di lettori, oltre 400mila al giorno più un contratto d’agenzia con altre testate di primo piano, gli fecero rompere gli indugi. Rientrò poi negli Stati Uniti dopo aver allargato il viaggio a Laos, Cambogia, Thailandia, Hong Kong, Cina e Giappone. Diede alla rubrica, Lettere ad Alicia, il nome della moglie di Guggenheim da poco scomparsa.
Quasi a volere trovare un punto di contatto con i propri romanzi e con la ragione della sua presenza in Vietnam, Steinbeck menzionò in un dispaccio una poesia recapitatagli in albergo a Saigon:
«(…) Benvenuto in Vietnam, John Steinbeck/che hai scritto Furore/in Vietnam troverai migliaia di Madri Joad/centinaia di migliaia di Rose Sharon/centinaia di migliaia di drammi sull’Oklahoma/dieci volte più tragici/ma anche dieci volte più eroici».
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