martedì 22 agosto 2017

In terra d'Africa, gli italiani che colonizzarono l'impero

Il Tascabile


di Gabriele Santoro

«La nuova impostazione teorica faceva dell'impero la massima espressione del regime, in cui replicare il meglio della civiltà della madrepatria portando a compimento, su questo terreno di sperimentazione privo di condizionamenti i progetti totalitari fascisti. In questo grande laboratorio biopolitico, l'uomo nuovo avrebbe dovuto trasferirsi in via definitiva per costruire una società nata dall'emigrazione di massa, ma allo stesso tempo selezionata, priva di tutti gli elementi giudicati inadatti per motivi fisici, politici o morali», scrive Emanuele Ertola, ricercatore e autore di In terra d'Africa. Gli italiani che colonizzarono l'impero (Editori Laterza, 246 pagine, 20 euro), che è anche una storia sociale della colonizzazione.


La recente pubblicazione di questo saggio, che fa affiorare la profonda discrasia tra ciò che era stato idealizzato nella teoria e la prassi della vita quotidiana in Etiopia dopo la guerra di conquista iniziata nell'ottobre del 1935 e conclusa il 5 maggio 1936, è una delle non frequenti occasioni di riflessione sull'esperienza colonialista italiana, sul nostro rapporto con l'immigrazione e la storia del radicamento di modi d'essere razzisti.

Gli italiani con la valigia sognavano sempre l'America, la classe politica fascista prometteva strumentalmente l'Africa per progetti espansionistici, animando e diffondendo un immaginario africano distante da dati di realtà: 

«Una colonizzazione demografica che allegerisca l'esuberanza di popolazione della Madre Patria, che allevii la disoccupazione, che possa dare collocamento a una immigrazione delle classi medie borghesi, come professionisti e dirigenti di aziende, che possa anche riassorbire una parte della nostra emigrazione», usando le parole rivolte da Lessona, Ministro delle Colonie, a Graziani.

Il primo elemento d'interesse è la volontà del regime fascista di regolare con principi classisti l'emigrazione mediante un apparato burocratico in realtà farraginoso e corruttibile. Come osserva Ertola, l'originalità del caso italiano, seguendo la logica fascista del controllo totalitario della società, risiedeva nel tentativo di selezionare fin da prima della partenza il flusso migratorio diretto verso l'impero.

«Non si può ammettere – per dignità nostra e prestigio razziale – che un italiano venga qui “a cercar fortuna”», si leggeva il 22 luglio del 1939 sulle colonne del Corriere dell'Impero, principale mezzo della propaganda in Etiopia. Non andò così. A dispetto dei filtri istituiti, gli emigranti italiani, seppure l'Africa non fosse la destinazione privilegiata, volevano la propria opportunità e si affidarono a traffici illegali, a business criminali pur di varcare la frontiera. 

Venendo all'attualità delle nostre cronache, riemerge dunque una domanda mai evasa: si può arginare il desiderio o la necessità di partire di chi intravede in un altrove un'esistenza migliore? I migranti italiani dell'epoca, esposti per tutti gli anni Venti e Trenta alla propaganda martellante sulla necessaria espansione imperiale dell'Italia fascista che alimentò nella cultura popolare il mito della colonia, partirono o cercarono di farlo per la possibilità di iniziare una nuova vita. Anche la propaganda di guerra, che per voce del regista della campagna, il sottosegretario per la Stampa Alfieri, «aveva dovuto assumere una posizione di vero e proprio combattimento», aveva centrato l'obiettivo di coinvolgere psicologicamente tutto il paese nella lotta e farlo partecipe a essa.

Dal 1815 al 1930 dieci milioni di italiani lasciarono il suolo natio, una marea umana fra i 52 milioni di europei che abbandonarono il Vecchio Continente. La vibrante propaganda fascista in chiave antiemigratoria e nazionalista non modificò sostanzialmente né fermò del tutto l’emigrazione italiana. Anzi Roma era assillata dal venir meno della principale rotta di fuoriuscita per i migranti, quella nordamericana. L’ambivalenza di Mussolini si manifestò nel linguaggio quanto nelle scelte politiche. Per esempio tagliò il bilancio del Commissariato generale dell’emigrazione, di cui l'Italia si era dotata a inizio Novecento, mentre all’ambasciatore a Washington raccomandava di perorare la causa dell’Italia fascista nella speranza che gli Stati Uniti, che avevano chiuso le frontiere, mantenessero un varco più largo per la nostra emigrazione qualificata, questione di prestigio internazionale.

Successivamente l'accordo siglato nel 1937 con la Germania nazista inaugurò poi la pratica, proseguita nell'Italia repubblicana postfascista, dello scambio carbone-manodopera. La manodopera italiana, dai braccianti agricoli agli operai, quantificati in 200mila lavoratori prelevati dalle nostre fabbriche, nell’industria bellica tedesca costituì un serbatoio imprescindibile per l’economia nazista. Non dimentichiamo che dal 1922 al 1938 a causa del fascismo furono 255mila gli italiani espatriati per ragioni politiche.

Il regime fascista era preoccupato di mantenere in essere le vie consolidate della nostra emigrazione. Quest'ultima, senza ammetterlo, restava una valvola di sfogo dei conflitti sociali interni, nonostante la volontà di cancellare l'immagine degradante dell'emigrazione di massa. Dal 1927 il regime intese riorientare il movimento migratorio entro i confini nazionali e le colonie, assorbendo l'eccedenza di forza lavoro con le opere pubbliche. Ertola dimostra quanto l'espansione coloniale fosse connessa all'esigenza di creare sbocchi per l'insediamento di masse di migranti, illustrando la lettura propagandistica che il fascismo produsse di un fenomeno sociale così eterogeneo e inscindibile dalla storia plurisecolare del colonialismo.

La selezione di classe alla partenza era motivata da posizioni massimaliste come questa: «Il coloniale di oggi (…) non è più uno spensierato e spavaldo procreatore d'una progenie di meticci». In realtà la composizione sociale di chi partiva era eterogenea. I coloni erano in larga maggioranza maschi adulti non in età giovanissima, il 90% si installò nelle quattro maggiori città etiopi.

Addis Abeba è stata il cuore di una colonizzazione dal carattere prettamente urbano, attirando gran parte di un flusso migratorio straordinariamente consistente in un breve lasso di tempo. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale erano 40mila gli italiani residenti nella capitale su un totale di 166mila nell'intera Africa Orientale.

Ertola utilizza la figura geometrica del rombo per riprodurre la struttura della società coloniale: ai due vertici opposti c'erano una ristretta élite burocratica, militare, imprenditoriale e alla base un proletariato bianco non qualificato di breve permanenza, pochi i contadini, poi la maggioranza di coloni, una multiforme classe media. La solidarietà di razza, propria di un contesto coloniale, non ribaltò la gerarchizzazione e la divisione in classi vissuta in patria. Anzi i poor white erano percepiti dall'élite coloniale come una minaccia per la società dominatrice e per la purezza razziale: erano i più esposti al rischio della degenerazione del  meticciato per la vicinanza con i nativi nei luoghi non esclusivi della città africana.

Un dato quantitativo rilevante nella presenza italiana in Etiopia era quello dei dipendenti pubblici: nel 1940 erano ben 6500, una cifra del tutto sproporzionata, che ha aggravato le difficoltà dello sviluppo economico precario dell'impero, in rapporto agli apparati burocratici delle altre colonie. Quello del governo italiano, dotatosi di una macchina burocratica che non funzionava, era secondo i coloni «un amore che soffoca» con la sua iper-regolamentazione. Chi giungeva con capitali si scontrava con la sostanziale impossibilità dell'iniziativa privata. A causa della corruzione dilagante molti italiani d'Etiopia riformularono l'acronimo AOI in Affari Onesti Impossibili. Coloro che volevano lavorare, senza essere una grande società o parte di un gruppo industriale, dovevano oliare il sistema:

«(...) Pagare pedaggi a ogni piè sospinto. Ogni funzionario vi fa laggiù chiaramente capire che se non lo compensate, non vi fa avere il permesso che vi abbisogna», da una fonte citata in un rapporto della polizia politica. 

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