Il Messaggero, sezione Macro, pag. 17
di Gabriele Santoro
Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3
http://www.raiplayradio.it/audio/2018/03/PAGINA-3-98ff526d-457d-4fe0-ad24-ffd14847490c.html
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di Gabriele Santoro
Cinquant'anni fa scompariva così non solo l'uomo che condusse molte campagne di disobbedienza civile, ma il principale stratega, teorico, interprete e icona della lotta al razzismo e alla disuguaglianza negli Stati Uniti. La vedova Coretta Scott King ci ricorda che il marito, divenuto quello che voleva, un predicatore battista in una grande congregazione urbana nel Sud degli Stati Uniti, trasmise agli afroamericani soprattutto una nuova e più alta considerazione della propria dignità e la coscienza di un potere politico fino ad allora sconosciuto ai neri. E King Jr sapeva parlare anche ai bianchi come il 28 agosto del 1963, quando animò duecentomila persone nella Marcia su Washington per la libertà e per il lavoro, che come auspicava è passata alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nel proprio paese che sognava unito.
Martin Luther King Jr aveva maturato in tenerissima età consapevolezze politiche e sociali grazie all'esempio dei genitori, che aborivvano la segregazione nel solco di una resistenza radicata già nel contrasto al razzismo delle leggi Jim Crow. Il padre, Martin Luther King Sr, anch'egli pastore battista, di cui il figlio ammirava l'autentico spirito cristiano, fu presidente della National Association for the Advancement of Colored People di Atlanta.
«Sappiamo per dolorosa esperienza che la libertà non viene mai accordata spontaneamente dagli oppressori, ma che deve essere reclamata dagli oppressi», scrisse il pastore Martin Luther King Jr nel documento fondamentale che è la Lettera dal carcere di Birmingham. Nell'aprile del 1963 King Jr, incarcerato per aver violato l'ordinanza che vietava manifestazioni di protesta a Birmingham, la più grande città industriale del Sud e simbolo di lotte durissime, disse al proprio Paese e al mondo che il tempo dell'attesa era finito: «Abbiamo aspettato per più di trecentoquaranta anni i nostri diritti naturali garantiti dalla Costituzione». Usò questa lettera per rispondere a chi lo rimproverò per l'azione: «La giustizia troppo ritardata è giustizia negata». Anche dopo la morte violenta un giornale come il Washington Post, pur riconoscendone la grande umanità, lo descrisse come «un uomo pacifico ma impaziente, tuttavia l'impazienza e l'indignazione si sposavano con la compassione e la gentilezza».
King Jr nella natia Atlanta, in cui vigeva un severo regime di segregazione, appena quattordicenne se non fosse stato per la preoccupazione dell'insegnante Bradley con cui viaggiava di ritorno da Dublin, ben prima di Rosa Parks non avrebbe ceduto il posto sul bus a un bianco. Era furibondo per quel torto: il conducente li costrinse a restare in piedi nel corridoio del pullman per centoquaranta chilometri.
Nel cinquantesimo anniversario dell'omicidio di King Jr, assassinato quattro anni dopo il conferimento del premio Nobel per la pace, le ragioni della lotta per il sogno di piena eguaglianza politica, economica e sociale che animarono il Movimento per i diritti civili non sono esaurite. Il razzismo è vivo. Il 4 aprile si terranno moltissime celebrazioni con l'evento commemorativo principale proprio al Lorraine Motel, che oggi è il National Civil Rights Museum. Questa rievocazione è particolarmente attesa nell'attuale clima sociale turbolento, segnato dal risveglio del suprematismo bianco e da forme di discriminazione e tensioni razziali mai del tutto sopite. Scrive a ragione Teju Cole: «Selma è uno specchio spaventoso dell'America bianca che fu. Ma diciamolo: che è. Selma oggi è povera, segregata e depressa». A Baltimora nascere in due quartieri che distano tre miglia equivale a una differenza di diciannove anni nell'aspettativa di vita: 84 a Roland Park, 65 a Downtown/Seton Hill. Il medesimo abisso che divide il Giappone dallo Yemen.
Come accaduto a Birmingham, il primo febbraio 1965 King Jr, appena insignito del Nobel e dopo l'approvazione nel 1964 della legge sui diritti civili, finì in carcere insieme ad altre duecento persone a Selma, nell'Alabama, dove la protesta verteva sul diritto di voto sostanzialmente negato. Nei giorni di Selma il presidente emerito Harry S. Truman definì King Jr sulla stampa americana come un “troublemaker”, dubitando dell'efficacia delle dimostrazioni di protesta. E ai giornalisti che lo incalzavano sul riconoscimento del Nobel rispose: «Non gliel'ho assegnato io». Torna così alla mente un altro passaggio della Lettera dal carcere di Birmingham: «Devo confessare che in questi ultimi anni sono stato gravemente deluso dai bianchi moderati. Ho quasi raggiunto l'amara conclusione che il principale ostacolo per il nero, nella sua marcia verso la libertà, non è l'uomo del Consiglio dei Cittadini Bianchi, né quello del Ku-Klux-Klan, ma il bianco moderato, che è più devoto all'«ordine» che alla giustizia; che preferisce una pace negativa a quella positiva, che è la presenza di giustizia».
Oltre un anno dopo il martirio di King Jr, sulle colonne del New York Times un noto professore della Columbia School of Law si dichiarò scioccato a causa della notizia, apparsa sul quotidiano il giorno precedente, della sorveglianza elettronica di cui fu vittima il pastore battista, pedinato e intercettato illegalmente almeno dal 1961 dall'FBI in quanto sovversivo. Hoover, il gran capo dell'FBI dal 1924, non esitò a etichettare in pubblico King Jr come il più famoso bugiardo degli Stati Uniti.
L'avvocato Burke Marshall, assistente di Bobby Kennedy nel Dipartimento di giustizia
nella sezione Diritti civili, raccontò in un'intervista rilasciata nel gennaio del 1970 per il Robert F. Kennedy Oral History Program della biblioteca John Kennedy: «Quando King immaginava di andare a Birmingham, cinquanta spie della polizia si preparavano a viaggiare con lui. Sempre, in qualunque città andasse al Nord e al Sud. A Hoover non piaceva e l'FBI alimentava questa attività spionistica per condizionare il nostro rapporto con King o per convincerci che il Movimento per i diritti civili fosse una pessima idea».
Malcolm X sosteneva che la causa principale del pregiudizio razziale fosse in larga parte dipendente dal sistema scolastico americano concepito per educare alla segregazione. Durante l'infanzia il principale compagno di giochi di King Jr era un coetaneo bianco. E nell'autobiografia, curata dallo studioso Clayborne Carson, ritroviamo proprio nella scuola il momento di rottura: «Ci eravamo sempre sentiti liberi di condividere tutti i nostri svaghi infantili. All'età di sei anni tutti e due cominciammo la scuola: s'intende, in due scuole separate. Ricordo che la nostra amicizia cominciò a guastarsi proprio da allora. Il momento culminante giunse il giorno in cui mi disse che il padre gli aveva ordinato di non giocare più con me. Non dimenticherò mai il trauma violento».
Come poter amare qualcuno che l'odiava e segregava fin da bambino per il colore differente della pelle? In questa domanda c'è il lascito del Reverendo che, usando le sue parole, negli anni della formazione trovò nella filosofia della resistenza non violenta propugnata da Gandhi quell'appagamento intellettuale e morale che non ero riuscito a trarre altrove. King Jr, ostile a qualsivoglia forma di totalitarismo politico, la definì un'odissea intellettuale verso la non violenza, che è forza di amare. È ineludibile la dimensione religiosa, spirituale della figura di King Jr, con un aspetto molto interessante: educato in una tradizione di fondamentalismo dogmatico religioso piuttosto rigoroso, da uomo libero seppe coltivare e interrogare il dubbio durante e dopo il seminario Crozer, dove l'otto maggio 1951 si laureò in teologia. Esortava e sollecitava la Chiesa contemporanea a non sostenere lo status quo, a non avere «una voce debole e inefficace dal suono incerto».
La fede di King Jr era incrollabile ed era felice del tempo in cui gli era dato di vivere: «Affrontiamo i problemi che gli uomini hanno cercato di risolvere lungo tutta la storia». Sapeva riconoscere i limiti dell'azione dinnanzi a sfide complesse, sapeva elaborare la sconfitta, ma un sogno che si infrangeva o una battaglia persa non equivalevano mai alla resa. Lo testimonia un suo intenso sermone, intitolato Sogni irrealizzati e pronunciato un mese prima della morte, il 3 marzo del 1968 nella chiesa battista di Ebezener ad Atlanta: «Tanti fra i nostri antenati cantavano canti di libertà. E sognavano il giorno in cui sarebbero potuti uscire dalla schiavitù, dalla lunga notte dell'ingiustizia. Pensavano a giorni migliori e accarezzavano il loro sogno. E cantavano così perché avevano un sogno grande e potente; ma molti di loro sono morti senza vederlo realizzato. La lotta c'è sempre. Ogni tanto ci fa perdere di coraggio. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare».
Lui era il figlio di una cultura negata, quella dei neri d'America, ma anche di un popolo messosi ormai in cammino nonostante la schiavitù e il sopruso: «La meta dell'America è la libertà. Per quanto ci maltrattino e ci disprezzino, il nostro destino è legato a quello dell'America. Prima che i pellegrini sbarcassero a Plymouth, noi eravamo qui; prima che la penna di Jefferson tracciasse sulle pagine della storia le maestose parole della Dichiarazione d'Indipendenza, noi eravamo qui. Se le crudeltà indicibili dello schiavismo non hanno potuto fermarci, l'opposizione che affrontiamo adesso cadrà certamente».
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