domenica 17 giugno 2018

O'Brien e il Vietnam, scrivere per resistere alla guerra

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 20

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Nel giugno del 1968, un mese dopo la laurea al Macalester College, Tim O’Brien aveva ventun anni e fu arruolato per una guerra sbagliata che odiava. Il Vietnam era soltanto una marcia infinita, di villaggio in villaggio senza scopo: «Sgroppare era tutto, una specie di inerzia, una specie di vuoto, un ottundimento del desiderio, dell'intelletto, della coscienza, della speranza e della sensibilità umana».

Torna in libreria il classico Le cose che portiamo (DeA Planeta, 267 pagine, 17 euro, traduzione di Carlo Prosperi) nel quale il reduce O’Brien, insignito del National Book Award, raccoglie l'eco della vita che si è fatta memoria e riaffiora nel racconto: «Il ricordare conduce talvolta a una storia. Le storie, che servono a unire il passato e il futuro, sono per l'eternità, per quando la memoria sarà stata cancellata».

È dura da raccontare la storia dei soldati del plotone, che avevano in media vent'anni ed erano accompagnati dal silenzioso sgomento per la terribile potenza delle cose tangibili e intangibili che portavano, sognando tutto ciò che avrebbero potuto perdere o persero per sempre. O’Brien ci ricorda che una guerra non finisce una volta siglato un trattato di pace e spesso elude il confine tra realtà e invenzione.

Che cos’è l’oggettività in una storia di guerra vera? «Spesso non c'è nemmeno un punto – scrive O’Brien –, lo afferri soltanto vent'anni più tardi, nel sonno, e allora ti svegli di colpo e scuoti tua moglie e cominci a raccontarle la storia, solo che quando arrivi alla fine hai dimenticato di nuovo il punto. Ascolti il respiro di tua moglie. Chiudi gli occhi. Sorridi e pensi: Cristo, qual è il punto?». La verità in guerra è un sussulto contraddittorio dell'anima.

O’Brien sostiene che in quell'enorme spreco senza virtù di vite, che è la guerra, salvare un pezzo piccolo pezzo di rettitudine, una morale equivalga a credere a un’antichissima e tremenda bugia. Il tenente Jimmy Cross e i commilitoni Rat Kiley, Kiowa, Norman Bowker, Ted Lavender sono il manifesto di una generazione perduta ma incancellabile; sono la storia di un destino di amicizia che rende inseparabili gli uomini al fronte.

Il libro, che va all’essenza delle cose e dell’umanità nella giungla dell’orrore, è illuminato dal coraggio dei piccoli gesti di solidarietà privi della retorica degli eroi. Il soldato Bowker esprime un unico desiderio: ricevere dal padre una lettera in cui finalmente non gli chieda di rientrare a casa con una medaglia. O’Brien mostra anche il coraggio di entrare nell’esistenza dell’uomo che ha ucciso, colui che definiamo nemico. Non si nasconde davanti alle domande della figlia Kathleen: «Era un basso, snello giovane di circa vent'anni. Avevo paura di lui – paura di qualcosa – e quando mi passò davanti sul sentiero lanciai una granata che gli esplose vicino e lo uccise».

Scrivere è resistere, significa non rinunciare alla soggettività quando l’identità rischia di essere frantumata dall’evento bellico. Fin dall’incipit, Le cose che portiamo spiega l’importanza delle lettere dei e per i soldati. Sembra di rileggere passi delle Lettere dalla trincea dell’ufficiale italiano Filippo Guerrieri, che il 3 luglio 1916 si rivolse così al fratello: «In complesso è una vitaccia la nostra e ci aiuta a sopportarla il senso del dovere, la forza di volontà, la speranza di finirla. Ora non siamo nella poesia, ma nella prosa e ognuno al suo posto sì, ognuno compia il suo dovere sì, ma…nient’altro. A venticinque anni si comincia a ripensare e meditare».

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