lunedì 13 agosto 2018

Migrazione, lavoro e libertà: la tragedia dimenticata di Monongah


di Gabriele Santoro


Nella storia degli Stati Uniti d’America gli incidenti minerari hanno scavato un solco di lutti. Dal 1839 alla fine del Ventesimo secolo in 716 incidenti secondo le rilevazioni ufficiali sono scomparsi oltre 15 mila lavoratori. I dati ricostruiti su fonti giornalistiche ne stimano almeno diecimila in più.

Migliaia di vittime avevano varcato la porta stretta dell’isolotto di Ellis Island alla ricerca di un’occupazione. Nella baia di New York si registrò il picco degli ingressi nel 1907 con 1,004,756 persone accolte, fra le quali 292 mila italiani. Nella sola giornata del 17 aprile 1907 furono identificati 11,747 immigrati approdati dall’Europa. Lo stesso anno il presidente Roosevelt, dopo la firma del restrittivo Immigration Act, istituì una Commissione congiunta di Camera e Senato sull’immigrazione che produsse i propri corposi, quarantuno volumi di report, e discutibili risultati nel 1911. Il trentaseiesimo capitolo ha un titolo evocativo, Immigration and crime, e metteva nel mirino gli italiani.


Dieci mesi dopo l’insediamento della Commissione sull’immigrazione del Congresso, alle 10.28 del 6 dicembre 1907 a Monongah nel buio profondo delle gallerie 6 e 8, collegate da una ferrovia, nella miniera di carbone Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine di Baltimora, a causa di due fortissime deflagrazioni morirono, secondo i dati ufficiali, 171 lavoratori sfruttati, emigrati dal Meridione e dal Centro Italia, lasciando 112 vedove e 207 orfani. I minatori provenivano da nove regioni italiane, dalla Calabria al Piemonte. Nel Museo dell’Emigrazione di Ellis Island sono esposte immagini della miniera di Monongah e del cimitero, che custodisce i corpi dei minatori ritrovati dalle squadre di soccorso.

Le miniere carbonifere di Monongah, sorte sulla biforcazione del fiume Monongahela, si espandevano per circa dieci chilometri a sud della città di Fairmont nel West Virginia.

L’otto dicembre 1907, due giorni dopo l’accaduto, il Corriere della Sera titolò “Il grande disastro della Virginia”: «Nel pozzo n.8 tuttora divampa l’incendio. La desolazione più terribile regna in tutta la regione e nell’intiero (sic) Stato della Virginia, ove non si ricorda una più terrificante catastrofe. Ho tentato di accertare il numero delle vittime; ma ciò è impossibile. La direzione delle miniere ha ordinato un nuovo invio di casse mortuarie. Oltre trecento ne sono arrivate oggi. Si sono rinvenute membra umane orridamente mutilate alla distanza di 300 metri dal disastro».


Poche ore dopo la tragedia, le speranze di riuscire a trarre in salvo qualcuno erano già svanite e fu opera complicatissima l’identificazione dei corpi dilaniati, molti dei quali sepolti in una straziante fossa comune. L’Agenzia Stefani riportò il virgolettato del presidente della Compagnia mineraria, che prometteva «un’inchiesta rigorosa». Non andò così. Per usare le parole del Console italiano a Philadelphia Giacomo Fara Forni rivolte all’ambasciatore italiano a Washington: «Soliti armeggi da parte della Compagnia per schermirsi da ogni responsabilità civile del disastro». Le autorità derubricarono la testimonianza di un italiano sopravvissuto, altri non parlarono per paura di perdere l’occupazione, mentre promisero alle famiglie una compensazione in cambio della rinuncia ad adire alle vie legali.

A tre giorni dalla deflagrazione il bilancio dell’agenzia giornalistica italiana contava almeno 550 scomparsi, raccontando scene di devastazione: «Donne e bambini vagano a frotte intorno ai pozzi, piangendo, strappandosi i capelli, lacerandosi le vesti». E sottolineava le difficoltà dei soccorsi: «Numerose persone che lavoravano al salvataggio si trovano in uno stato critico, in seguito all’assorbimento di gas micidiali».

Nel novembre del 1908 la Commissione d’inchiesta, che non accertò alcuna causa e responsabilità per le esplosioni, quantificò in 361 le vittime, di cui 87 originarie del Molise e 37 dal solo paese di San Giovanni in Fiore in Calabria. Le prime cronache giornalistiche riportavano un numero più alto pari a 550 vittime, poiché il direttore generale della miniera dichiarò che i minatori registrati per la giornata di lavoro erano 478 più gli irregolari e altre maestranze operaie.

Appena sbarcati nella terra promessa, gli immigrati venivano dirottati col sistema dei “bosses”, o caporalato, funzionale all’industria pesante statunitense, dai grandi agglomerati urbani verso il West Virginia, ricco di carbone e legname, per vivere in funzione dello sfruttamento estrattivo. Negli Stati Uniti, come poi avvenne in Belgio, i lavoratori sopravvivevano con le famiglie nelle “company towns”, baraccopoli simili a villaggi che sorgevano nell’area mineraria, subendo vessazioni, un controllo totalizzante del rapporto di lavoro ed erano fra i più esposti agli infortuni certificati ogni anno nelle ferrovie, nelle miniere e nelle officine.

Dopo turni lunghi anche dieci ore, il salario era commisurato alla quantità di carbone estratta dal giacimento, tuttavia il guadagno era ben più consistente di quello di un bracciante agricolo nel nostro paese. In Italia la speranza di vita dalla prima fase postunitaria era salita di 14.2 anni, toccando nel 1910 i 45.4 anni con la percentuale della povertà assoluta ancora al 43.4%. Nel 1911 il tasso di alfabetizzazione della popolazione sopra i 15 anni era del 39.8%.

Leggiamo in una corrispondenza giornalistica da New York del 7 dicembre 1907: «La scossa tremenda fu avvertita per un raggio di dieci chilometri: tutti gli edifici circostanti alle miniere furono distrutti. Senza dubbio una gran parte degli operai morirono all’istante. In causa dell’enorme esplosione, la terra parve scossa da una legione di Titani, con una violenza mai raggiunta da alcun terremoto».

Il più grave disastro che si ricordi nella storia delle miniere americane non era però un caso isolato.

In un approfondimento del 20 dicembre 1907, fra le motivazioni del numero altissimo di incidenti, il Corriere della Sera segnalò «la mancanza di regolamenti precisi per le miniere, e in parte anche il fatto che viene adoperato ogni genere di esplosivi senza preoccuparsi dei pericoli che presentano i gas che si producono all’interno dei pozzi. Spesso la mancanza di una buona ventilazione rende il rischio anche maggiore».


Fra le ipotesi sull’origine dell’ecatombe di Monongah, c’era proprio la scelta dell’impresa di fermare in un giorno festivo, dedicato dai minatori alla patrona Santa Barbara, i ventilatori per risparmiare energia con la conseguenza di aver fatto accumulare gas e dunque favorito l’esplosione.

Non ci fu giustizia con una predeterminata rimozione politica e sociale, durata decenni anche da parte dell’Italia, di una tragedia a lungo restata senza nomi e identità. È stata una vicenda insabbiata mica male.

Il sacerdote cattolico statunitense Everett Francis Briggs, parroco della Chiesa di Nostra Signora del Rosario di Pompei a Monongah, scomparso nel 2006 all’età di 98 anni, ha speso l’intera esistenza nella ricerca della verità e nell’esercizio della memoria. Briggs portò avanti un lavoro faticoso di identificazione dei morti e di valorizzazione della loro storia. All’inizio degli anni Sessanta sulla rivista Science iniziò a dare la reale misura della strage, convinto che le vittime fossero oltre cinquecento. Il 31 maggio 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che durante un viaggio negli Stati Uniti compiuto nel 2003 rievocò il sacrificio dei migranti, conferì a Briggs l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana.

Sul luogo dell’ecatombe una targa commemorativa recita: «Il 6 dicembre del 1907, 361 minatori, molti dei quali avevano attraversato il mare provenienti da paesi lontani, perirono sotto queste colline nel peggior disastro minerario della nostra nazione. I quattro sopravvissuti morirono a causa delle ferite».

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