martedì 9 ottobre 2018

Storia di una donna libera a Srebrenica



Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


SREBRENICA. A ventitré anni dalla fine di una delle guerre jugoslave più efferate, nella terra di confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, disegnata dal fiume Drina, la città di Srebrenica è piena di barriere invisibili.

In quello che a Potočari, frazione alle porte di Srebrenica, era il quartiere generale delle Nazioni Unite, ora un cartello recita: «Il fallimento della comunità internazionale». L’ONU aveva dichiarato Srebrenica “zona sicura” e nel biennio 1994-’95 la presidiò con un contingente di Caschi blu olandesi, rivelatosi tragicamente non all’altezza e inerte nella missione di interposizione e di protezione dei civili.

Sulla collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono i resti della quasi totalità delle 6539 vittime finora accertate grazie al DNA con un grado di affidabilità pari al 99.95%.

Tra il 10 e il 19 luglio del 1995, dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate da Ratko Mladić, comandante militare serbo-bosniaco dell’allora esercito noto come Vojska Republike Srpske, condannato con Radovan Karadžić e altre dodici persone all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi. In pochi giorni furono uccise oltre ottomila persone.


Le ferite non sono suturate. Senza immaginare un futuro condiviso tra la parte serba bosniaca e quella bosgnacca, la memoria diventa oggetto di campagna elettorale ed è un elemento della gestione del consenso. L’ingovernabilità di un concetto di cittadinanza prevalentemente etnico resta la ragione fondamentale delle tensioni mai sopite. E compromette la ripresa economica.

In una realtà così complessa, c’è chi ha il coraggio di erigere ponti di dialogo. Valentina Gagić Lazić, serba bosniaca, arrivata a Srebrenica nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo, è fra i creatori della comunità interetnica Adopt Srebrenica, inaugurata nel 2005 col sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza.

«Nell’aprile del 1992 avevo diciannove anni – racconta Gagić –. Dopo il referendum, la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina e l’inizio delle ostilità belliche, trascorsi sei mesi in Slovacchia. Poi decisi di tornare a casa, illudendomi che la guerra sarebbe durata poco. Il matrimonio, la gravidanza e la nascita di mio figlio Nikola mi hanno in parte preservato dalla follia del conflitto».

Gagić ha riconosciuto e preso piena coscienza del genocidio, quando i profughi musulmani hanno cominciato a tornare. Dal 1999 lavora insieme alle donne di Srebrenica, che hanno visto svanire padri, mariti e figli. «Ho dovuto affrontare un percorso doloroso – dice –. Ci sono state incomprensioni anche con i miei familiari. Le persone mi fermavano per strada, chiedendomi la ragione della mia scelta. Per alcuni serbi bosniaci ero una traditrice, per i bosgnacchi rappresentavo una potenziale spia. Il negazionismo in atto è l’ultimo e più insidioso stadio del genocidio».

Gagić, qual era la sua posizione nei giorni della guerra?
«Ho studiato a Sarajevo in un ambiente multiculturale. Per l’intera durata del conflitto sono rimasta in contatto con gli amici più cari di etnie diverse. Abbiamo cercato di sostenerci a vicenda. Nel 1992 avevo diciotto anni, tutta la vita davanti. Ingenuamente pensavo che avremmo potuto fermare la guerra, scendendo in piazza con l’illusione di poter modificare il corso degli eventi. Scrivevo appelli ai miei connazionali, dicendo che era una follia dividere la Bosnia. E chi ancora lo immagina, sa che può finire solo nel sangue».

Lei è nata a Šekovići, che dista settanta chilometri da Srebrenica, dove si è trasferita poche settimane dopo il genocidio. Quando le è stata chiara la misura del massacro?
«Dal 2000 quando i profughi bosgnacchi hanno cominciato a rientrare nelle proprie case. Prima sui media serbi non c’era traccia di ciò che è avvenuto. I profughi raccontavano in modo molto chiaro la portata enorme dell’orrore. Soltanto affrontando le loro memorie ho iniziato a percepire la realtà».

Come si guarisce dal negazionismo?
«Ascoltare le storie dei profughi e delle donne di Srebrenica è stato uno schiaffo. Ognuno deve fare i conti con i crimini perpetrati dal proprio gruppo etnico. Non accetto l’affermazione che tutti i serbi negano il genocidio. Io so il dolore che è stato inferto e non è stato fatto nel mio nome».

A Srebrenica la vita appare ancora lontana dalla piena ripresa. L’intera area è abitata da non più di seimila persone. Nel 1992 erano circa quarantamila.
«Talvolta m’interrogo sulla ragione della mia scelta di rimanere a Srebrenica. È stata dettata probabilmente dal destino. Quanto possono essere felici i nostri figli in quest’ambiente politico e sociale? A oltre vent’anni dalla fine della guerra la situazione sta peggiorando. Il miglioramento della condizione economica consentirebbe alle persone di essere più libere e superare il confine etnico imposto dalla politica di stampo nazionalista. I settori vitali dell’economia locale, dal turismo termale all’industria estrattiva delle materie prime, sono bloccati da veti politici contrapposti. Prima della guerra avevamo fabbriche importanti. È stato distrutto tutto. La privatizzazione delle miniere di piombo e zinco ha una scarsa rendita e nessun rilievo occupazionale. La città rischia l’oblio».

Qual è la situazione dei giovani che hanno scelto di non abbandonare la propria terra?
«La disoccupazione giovanile tocca il 60%. . A Srebrenica esiste e resiste una generazione coraggiosa di ventenni, condizionata però da una guerra che non gli è mai appartenuta».

La comunità internazionale ha dimenticato di nuovo Srebrenica?
«La questione è duplice. In questo periodo l’interesse della comunità internazionale per la Bosnia ed Erzegovina è veramente limitato. È normale supporre che ventidue anni dopo la fine della guerra si fossero gettate le basi per il futuro. Così non è stato. L’allentamento della pressione internazionale sulla politica ha un riflesso sul venire meno del processo di riconciliazione. Il negazionismo è l’ultimo atto di un genocidio. D’altra parte però siamo troppo abituati ad aspettare che qualcuno risolva i problemi al nostro posto».

Nutriva qualche attesa sulle elezioni politiche appena svolte?
«Il sistema politico è frammentato lungo la linea etnica. La stessa legge elettorale e la costituzione alimentano la suddivisione della Federazione Bosniaca. Non mi aspettavo molto, perché il quadro è cristallizzato e non esiste un’alternativa reale al sistema di per sé farraginoso: eleggiamo tre presidenti (croato, bosniaco e serbo) che ruotano ogni 8 mesi. Prima del voto si sono messe in moto le consuete macchine elettorali. La vittoria del croato Željko Komšić, osteggiato dal suo stesso partito di estrazione, è interessante poiché supera lo steccato etnico, sostenendo l’inseparabilità della Bosnia ed Erzegovina».

Che cos’è la democrazia in Bosnia ed Erzegovina? 
«La forma di democrazia uscita dalla guerra è immatura e troppo segnata dall’etnonazionalismo. Sono pochi i giovani che vanno a votare e ci credono. Le persone non conoscono e non usano gli strumenti propri di un sistema democratico, richiamando la politica ai propri doveri nell’interesse generale del paese».

Qual è la lezione di Srebrenica?   
«Le persone qui possono stare insieme, nonostante quello che è accaduto. Il riconoscimento reciproco è la premessa imprescindibile. Al mondo Srebrenica dice che siamo tutti davanti a una scelta binaria. Percorrere la strada tortuosa del dialogo o cedere alla barbarie della divisione su base etnica, che ha l’esito del 1995».

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