di Gabriele Santoro
ROMA (18 gennaio) - Il vento e la pioggia di questi giorni non hanno spazzato via i fiori e i ceri adagiati vicino ai cancelli dei giardini di Piazza Vittorio, all’angolo tra via Bixio e via Principe Eugenio, in memoria di Sher Khan. Mohammad Muzaffar Alì, chiamato dagli amici Sher Khan, uno dei leader storici dei movimenti antirazzisti cittadini, ha atteso vanamente per vent’anni il permesso di soggiorno. Nella notte del 9 dicembre è morto al freddo avvolto da qualche cartone e coperta di fortuna proprio nel cuore di Roma, all’Esquilino. La fine più cruda di quell’integrazione mancata de “Il rione incompiuto”, che si dibatte tra le opposte rappresentazioni del felice quartiere multiculturale e dell’invivibile Bronx.
Il volume. Il rione incompiuto. Antropologia urbana dell’Esquilino (CISU, pag.340, 32 euro), curato da Federico Scarpelli ricercatore in Scienze etnoantropologiche dell’Università La Sapienza, è un viaggio nelle trasformazioni di “una città nella città”, che ha il suo snodo centrale nei portici tardo-ottocenteschi ideati dall’architetto Gaetano Koch. Un quartiere dal grandissimo valore simbolico e dalla forza comunicativa svelata dal milanese Gadda nel “Pasticciaccio brutto di via Merulana”, «in cui la città e l’Esquilino sono scelti per rappresentare la vita nella sua totalità, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di umori, di emozioni». O più recentemente dal giornalista e scrittore migrante Amara Lakhous nel romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”. Questa ricerca sull’Esquilino ha il pregio di scendere tra la gente. Fa parlare le suggestioni e le insoddisfazioni dei residenti, riannoda in un lavoro prezioso i fili della memoria del quartiere e fotografa la realtà senza infingimenti.
Una realtà variegata che attrae anche «stranieri ricchi desiderosi di comprare una casa all’Esquilino come fosse New York - svela Adriana Serpi nel capitolo “Il rione europeo” - Il rione più cosmopolita e multietnico di Roma e almeno in questo ricorda la Grande Mela. Avevo già rilevato come l’eterogeneità sociale, culturale ed etnica, rappresentasse uno dei fattori determinanti alla base della scelta abitativa di molti nuovi residenti». Nelle oltre trecento pagine dense di riferimenti e di spunti di riflessione si respira l’aria delle strade dell’Esquilino: la sensazione di smarrimento e anonimato di fronte all’invasione di negozi cinesi «difficilmente appetibili per un cliente romano», la ricchezza culturale di luoghi come l’associazione Apollo 11 dove è sbocciata la splendida storia dell’Orchestra di Piazza Vittorio, gli odori del mercato, trasferito nel 2001 alle ex caserme Pepe e Sani, impregnati nei marciapiedi e nei ricordi delle persone.
«Rione in bilico». Federico Scarpelli nel capitolo “La memoria e l’emergenza” affronta le criticità di un rione che si sente ai margini del centro storico, incerto del proprio status urbano, dove «alla triade microcriminalità, senso d’invasione e degrado si sommano altri segni sul territorio, come la mancanza di una vita notturna ristoranti o bar di un certo tipo». Nelle interviste, in questo saggio rivolte ai residenti dell’Esquilino di vecchia data, emerge il disorientamento per gli elementi di disorganizzazione sociale o inciviltà fisiche come «il degrado edilizio, la mancata manutenzione dei luoghi pubblici dei quartieri, la scarsa illuminazione, i rifiuti ai lati delle strade» e sociali «come rumori e comportamenti fisicamente o solo visivamente molesti. la presenza di ubriachi o tossicodipendenti» con cui si convive. Più che la repressione, l’interazione e la riappropriazione civile di spazi pubblici può reagire ed escludere elementi pericolosi. L’autore rievoca «una nuova grande stagione urbana, in cui cittadini e visitatori amano essere sedotti dalle città e chiedono di poterle vivere di più. Anche se è notte, anche se non è il proprio quartiere, e anche se si è donne».
Il mercato identitario. La storia del mercato alimentare di Piazza Vittorio non può essere scissa da quella del rione. Christian Micciché nel capitolo “Costruzione e memoria di uno spazio urbano” illustra come «la piazza sebbene ristrutturata, ripavimentata, svuotata dei banchi del mercato e circondata dal traffico appare così ridotta a un luogo di transito e non più punto di ritrovo per la collettività». Le testimonianze dei residenti raccontano questa voragine simbolica, che le diverse amministrazioni nella lenta riqualificazione urbana non hanno saputo colmare: «Il mercato dava un po’ la cifra di questo quartiere – spiega Valerio, prof. di antropologia - Il mercato popolare è proprio una spazio di mobilità, di vita, di espedienti. Questo era il suo fascino». Simonetta ricorda quando «c’era il tranvetto bianco e blu dai colli, ci veniva tutta la povera gente a fare la spesa». Alessandro rimpiange i cocomerai estivi, perché «ci venivano da tutta Roma a mangiare il cocomero. La notte erano sempre aperti e ci davano un senso di sicurezza».
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