http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=104195&sez=HOME_SPORT
di Gabriele Santoro
ROMA (30 maggio) – Infinito Kobe Bryant. Trentasette punti, tre dita verso il cielo a indicare la terza finale Nba consecutiva dei suoi Los Angeles Lakers e il riconoscimento del coach dei Suns Gentry: «Abbiamo fatto un’ottima difesa su Bryant. Ha segnato canestri ogni volta più difficili. Ho sempre pensato che fosse il numero uno». La franchigia californiana conquista il trentunesimo titolo della Western conference con una gara 6 in controllo, 111-103 e raggiunge in finale gli acerrimi rivali dei Boston Celtics. Dal 3 giugno Bryant e compagni, campioni in carica, apriranno la caccia a una fantastica doppietta e al sedicesimo anello Nba. Sugli spalti della TD Garden di Boston già durante la serie contro gli Orlando Magic campeggiavano i cartelli “Beat L.A.” (sconfiggi i Lakers), antipasto del dodicesimo scontro diretto tra i due team più titolati della Lega statunitense.
Phil Jackson con l’ineffabile sorriso sornione si gode gli strepitosi play-off di Ron Artest: la scommessa e l’incognita del mercato estivo Lakers si sta rivelando un innesto fondamentale. «Il Signore era con lui stasera. Gli dei del basket erano dalla sua parte». Il coach più vincente della storia Nba commenta così i venticinque punti (10/16 da2, 4/7 da3) di Artest, nuovamente decisivo dopo il canestro che sulla sirena finale ha consegnato gara 5 alla propria squadra. Arrivato a Los Angeles per aumentare l’intensità difensiva, Artest è diventato anche un fattore offensivo.
Dalle macerie lasciate dalla fine dell’epoca D’Antoni sulla panchina dei Suns sta nascendo un nuovo palazzo con fondamenta simili e solide. La franchigia dell’Arizona, una volta messe alle spalle errori di mercato e la parentesi negativa Terry Porter, ha disputato una buona stagione regolare ed eccellenti play-off con il picco massimo del 4-0 rifilato ai San Antonio Spurs di Duncan e Ginobili. La guida dell’uomo simbolo Nash, l’atletismo di Stoudemire e l’esplosione dei giovani Channing Frye e Goran Dragic, rookie classe ’86 che ha viaggiato a 7.3 punti di media nei play-off, assicurano competitività nell’immediato futuro.
La partita. All’Us Airway Center di Phoenix il primo periodo scorre sui binari dell’equilibrio, 37-34 al 12’. Da una parte c’è la coppia Suns Nash-Richardson a macinare punti (16 sui 34 complessivi), dall’altra a dettare legge c’è il nuovo asse Lakers Bryant-Artest (22 sui 37). Nella seconda frazione Phil Jackson dà spazio alla panchina, che risponde presente con Vujacic e Farmar. Ron Artest è letteralmente scatenato e con 5 punti consecutivi (17 in 16’ di partita) fattura il primo vantaggio in doppia cifra Lakers, 58-47. I padroni di casa provano a restare incollati alla partita con le triple di Frye e Richardson. Al rientro dall’intervallo lungo scatta l’ora di Kobe Bryant. Segna tredici dei suoi 37 punti finali con tre canestri in fotocopia ad altissimo coefficiente di difficoltà che sembrano mandare in archivio partita e serie, 91-74 alla fine del terzo quarto. Quando tutto sembra chiuso a risollevare i Suns ci pensa Dragic, la vera sorpresa di questa post-season. Il cambio di Steve Nash sfrutta l’ingenuità di Vujacic, fallo antisportivo, e infila 8 punti in tre possessi offensivi. Stoudemire lo imita e i Suns sono di nuovo sotto con un break di 16-4, 95-90. Jackson si affida al veterano Fisher, che fa respirare i Lakers e tiene a distanza la rimonta. Il lay-up di Nash firma il -3, 99-96, a 2’ dalla sirena. Bryant rompe gli indugi: altri due canestri pazzeschi, 6/6 dalla lunetta e per i Lakers è il momento della prima festa stagionale, 111-103.
Il frutto che era proibito raccogliere si trovava sull'Albero della Conoscenza. Il significato è che tutte le sofferenze sono dovute al tuo desiderio di capire com'è che vanno le cose. Saresti potuto rimanere nel Giardino dell'Eden se solo avessi tenuto chiusa la tua fottuta bocca e non avessi fatto alcuna domanda. Frank Zappa - Playboy, 2 maggio 1993
domenica 30 maggio 2010
sabato 29 maggio 2010
I Boston Celtics sono tornati: il verbo di The Truth
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=104050&sez=HOME_SPORT
di Gabriele Santoro
ROMA (29 maggio) – A un passo dal subire una clamorosa rimonta i Boston Celtics giocano la partita perfetta al TD Garden, dominano più di quanto dica il 96-84 conclusivo gli Orlando Magic e conquistano il ventunesimo titolo della Eastern Conference. Nel momento della verità non può che affermarsi il verbo di “The Truth” Paul Pierce: l’ala bianco verde regala punti e il solito carisma con una prova da 31 punti (9/15 da2, 4/5 da3, 9/10 ai liberi e 13 rimbalzi). Un Pierce assecondato dai soliti protagonisti Ray Allen (20 punti, 5/6 da3), Rajon Rondo (14 punti, 6 assist) e da un exploit inaspettato. Coach Doc Rivers nella serata più importante accende l’ex New York e re delle schiacciate Nate Robinson, l’elogio della follia in cabina di regia, che lo ripaga con 13 punti in 13’ di pura energia e spezza la partita nel secondo periodo. «Nessuna sorpresa, siamo dove avevamo pensato di essere», ha commentato a caldo Rivers.
All’inizio di questi play-off invece in pochi avrebbero pronosticato i Celtics in corsa per l’anello. «Sono stagionati, a fine ciclo», «questo è l’anno di Lebron James» erano le frasi più ricorrenti. Il quintetto più completo e equilibrato dell’Nba ha rispolverato l’orgoglio e la continuità dei giorni migliori facendo fuori proprio King James. Grande difesa, la regia di un dominante Rajon Rondo, il braccio armato della coppia Pierce-Allen abbinato al ritorno su buoni livelli di Kevin Garnett. Dal 3 giugno andranno a caccia del diciottesimo titolo della leggendaria storia Celtics e dell’occasione di chiudere un ciclo che ha riportato la franchigia con il trifoglio sul cuore nell’elite Nba. Orlando ha provato ad affidarsi ai muscoli del proprio centro di gravità Dwight Howard (28 punti, 11/17 da2), ma ha avuto poco e niente dal malconcio Rashard Lewis (3/17 al tiro) e ha pagato la giornata storta di Jameer Nelson (6/19 dal campo, -23 di plus/minus).
Dopo cinque partite in ombra è riemerso inutilmente Vince Carter (17 punti). La squadra di Van Gundy, stordita dal 3-0 iniziale, ha avuto comunque il merito di crederci con le due vittorie che hanno portato questa serie a gara 6. Ora per la finalissima tutti attendono l’accoppiamento Boston Celtics vs Los Angeles Lakers, sarebbe il dodicesimo scontro diretto per il titolo e si tratterebbe di una fresca riedizione delle finali 2008. La franchigia di Kobe Bryant nella nottata italiana ha l’opportunità di chiudere i conti contro gli splendidi Phoenix Suns di Steve Nash. La serie della Western conference è sul 3-2 per i giallo viola reduci dal successo in volata in gara5 grazie alla magia a rimbalzo di Ron Artest, fenomenale nel raccogliere dalla spazzatura un air ball di Bryant e trasformarlo nei due punti della vittoria. Il tiro della redenzione per il “cattivo ragazzo” dell’Nba, che però non si smentisce mai. Mezz’ora di ritardo all’allenamento dell’indomani e puntuale multa dei Lakers.
La partita. L’avvio è griffato Rondo: il playmaker di Boston piazza otto dei primi dieci punti. Orlando funziona sull’asse Nelson-Howard, che inchioda tre schiacciate per il 14-14 al 6’. I Magic si piantano con gli errori di Lewis e le palle perse di Nelson, mentre Paul Pierce è l’anima del break di 13-3 che chiude la prima frazione, 30-19 al 12’. Nel secondo periodo Carter prova a ricucire lo strappo e Doc Rivers si gioca la carta Nate Robinson. Il play più esplosivo dell’Nba lo ripaga con uno dei suoi momenti di fiducia assoluta: segna tutti i 13 punti del proprio tabellino e affonda Orlando, 51-32 al 20’. Howard è sparito dalla partita e a far canestro c’è solo Carter (13 punti nel quarto), 55-42 al 24’. Al rientro in campo il trio dorato Garnett-Pierce-Allen forza la mano: tirano e fanno canestro solo loro (27 punti nei 12’ della frazione). I Celtics sentono l’odore del trionfo e scappano definitivamente, 82-61 al 32’. L’ultimo periodo è puro garbage time dopo il sigillo in apertura dalla lunga distanza di Pierce, 85-64.
di Gabriele Santoro
ROMA (29 maggio) – A un passo dal subire una clamorosa rimonta i Boston Celtics giocano la partita perfetta al TD Garden, dominano più di quanto dica il 96-84 conclusivo gli Orlando Magic e conquistano il ventunesimo titolo della Eastern Conference. Nel momento della verità non può che affermarsi il verbo di “The Truth” Paul Pierce: l’ala bianco verde regala punti e il solito carisma con una prova da 31 punti (9/15 da2, 4/5 da3, 9/10 ai liberi e 13 rimbalzi). Un Pierce assecondato dai soliti protagonisti Ray Allen (20 punti, 5/6 da3), Rajon Rondo (14 punti, 6 assist) e da un exploit inaspettato. Coach Doc Rivers nella serata più importante accende l’ex New York e re delle schiacciate Nate Robinson, l’elogio della follia in cabina di regia, che lo ripaga con 13 punti in 13’ di pura energia e spezza la partita nel secondo periodo. «Nessuna sorpresa, siamo dove avevamo pensato di essere», ha commentato a caldo Rivers.
All’inizio di questi play-off invece in pochi avrebbero pronosticato i Celtics in corsa per l’anello. «Sono stagionati, a fine ciclo», «questo è l’anno di Lebron James» erano le frasi più ricorrenti. Il quintetto più completo e equilibrato dell’Nba ha rispolverato l’orgoglio e la continuità dei giorni migliori facendo fuori proprio King James. Grande difesa, la regia di un dominante Rajon Rondo, il braccio armato della coppia Pierce-Allen abbinato al ritorno su buoni livelli di Kevin Garnett. Dal 3 giugno andranno a caccia del diciottesimo titolo della leggendaria storia Celtics e dell’occasione di chiudere un ciclo che ha riportato la franchigia con il trifoglio sul cuore nell’elite Nba. Orlando ha provato ad affidarsi ai muscoli del proprio centro di gravità Dwight Howard (28 punti, 11/17 da2), ma ha avuto poco e niente dal malconcio Rashard Lewis (3/17 al tiro) e ha pagato la giornata storta di Jameer Nelson (6/19 dal campo, -23 di plus/minus).
Dopo cinque partite in ombra è riemerso inutilmente Vince Carter (17 punti). La squadra di Van Gundy, stordita dal 3-0 iniziale, ha avuto comunque il merito di crederci con le due vittorie che hanno portato questa serie a gara 6. Ora per la finalissima tutti attendono l’accoppiamento Boston Celtics vs Los Angeles Lakers, sarebbe il dodicesimo scontro diretto per il titolo e si tratterebbe di una fresca riedizione delle finali 2008. La franchigia di Kobe Bryant nella nottata italiana ha l’opportunità di chiudere i conti contro gli splendidi Phoenix Suns di Steve Nash. La serie della Western conference è sul 3-2 per i giallo viola reduci dal successo in volata in gara5 grazie alla magia a rimbalzo di Ron Artest, fenomenale nel raccogliere dalla spazzatura un air ball di Bryant e trasformarlo nei due punti della vittoria. Il tiro della redenzione per il “cattivo ragazzo” dell’Nba, che però non si smentisce mai. Mezz’ora di ritardo all’allenamento dell’indomani e puntuale multa dei Lakers.
La partita. L’avvio è griffato Rondo: il playmaker di Boston piazza otto dei primi dieci punti. Orlando funziona sull’asse Nelson-Howard, che inchioda tre schiacciate per il 14-14 al 6’. I Magic si piantano con gli errori di Lewis e le palle perse di Nelson, mentre Paul Pierce è l’anima del break di 13-3 che chiude la prima frazione, 30-19 al 12’. Nel secondo periodo Carter prova a ricucire lo strappo e Doc Rivers si gioca la carta Nate Robinson. Il play più esplosivo dell’Nba lo ripaga con uno dei suoi momenti di fiducia assoluta: segna tutti i 13 punti del proprio tabellino e affonda Orlando, 51-32 al 20’. Howard è sparito dalla partita e a far canestro c’è solo Carter (13 punti nel quarto), 55-42 al 24’. Al rientro in campo il trio dorato Garnett-Pierce-Allen forza la mano: tirano e fanno canestro solo loro (27 punti nei 12’ della frazione). I Celtics sentono l’odore del trionfo e scappano definitivamente, 82-61 al 32’. L’ultimo periodo è puro garbage time dopo il sigillo in apertura dalla lunga distanza di Pierce, 85-64.
venerdì 28 maggio 2010
Lottomatica Roma? Ricostruire
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=103966&sez=HOME_SPORT
di Gabriele Santoro
ROMA (28 maggio) - «Il problema di Toti è che è solo, a dispetto delle tante persone che pretendono di aiutarlo. Un uomo da solo non può raggiungere risultati. Non si può gestire in prima persona il rapporto con i tifosi, la stampa e la squadra».
Le parole rilasciate a gennaio da Svetislav Pesic, ex coach della Lottomatica Roma tra i più vincenti in Europa, restituiscono l’istantanea dell’epilogo della stagione romana. Claudio Toti, dopo aver assistito alla festa della Pepsi Caserta, prima ha subìto gli improperi di alcuni tifosi giustamente delusi, poi è andato negli spogliatoi a guardare in faccia i giocatori e infine si è presentato in sala stampa a spiegare il fallimento e le prospettive. Il tutto in completa solitudine.
Il presidente della Virtus ha annunciato di voler integrare l’organigramma societario con figure d’esperienza e soprattutto è auspicabile con personaggi che diano del tu alla pallacanestro. «La scelta che dovrò fare - ha spiegato Toti - è di affiancare ai giovani degli elementi di esperienza, sia nella squadra che nell’organico della società». Prima di qualunque discorso tecnico su allenatore e giocatori, la Virtus deve costruire una struttura dirigenziale credibile, magari inserendo anche persone che hanno fatto la storia di questa società.
Disincanto, amarezza e rassegnazione. L’applauso con cui il PalaLottomatica ha accompagnato lo show del casertano Jumaine Jones sapeva quasi di liberazione. Sugli spalti non c’era neanche la forza di contestare in una sorta di malinconica consapevolezza dell’eterno ritorno dell’uguale: «Tanto va a finire sempre così», il ritornello dominante. Come dargli torto? A chi, solo per citare due esempi, ha visto perdere una gara5 di semifinale scudetto in casa dopo essere stati in vantaggio di 21 punti con Carlton Myers e Anthony Parker (2/12 al tiro) in squadra. A chi è rimasto incollato alla tv o alla radio per tre tempi supplementari, prima che un fallo non fischiato su Righetti consegnasse la delusione più cocente e aprisse l’incredibile ciclo della Montepaschi Siena. Ora l’idea prospettata da Toti di rifugiarsi nella vetusta casa del Palazzetto per ritrovare il calore della gente sarebbe un autogol. Qui serve un entusiasmo nuovo, un maggiore coinvolgimento della città e non la cura compiacente di una riserva indiana, un merchandising che non arrivi a campionato concluso e una squadra con gli attributi di cui innamorarsi anche senza investimenti necessariamente faraonici. Poi a forza di ripetere che l’importante non è vincere nell’immediato si sta prendendo una sinistra confidenza con la sconfitta.
Allenatore. Il futuro di Matteo Boniciolli (57.7% vittorie sulla panchina romana) è uno dei primi nodi da sciogliere. Nel post-partita il patron ha dato una mezza conferma al coach triestino, ma il quadro è tutto da definire. Boniciolli, come avvenuto la scorsa stagione a Bologna, dopo aver ereditato e risollevato le sorti di una squadra in crisi con buoni risultati si è perso nel finale con uno sguardo proiettato troppo verso la luna (Siena e lo scudetto) e meno verso la terra. Scegliere una diversa guida tecnica, l’ottava in dieci anni di presidenza Toti, vorrebbe dire ricominciare tutto da capo con tutte le incognite del caso. L’eventuale tentazione di lanciare un tecnico giovane (Bechi da Biella?) deve essere assecondata da una società in grado di sostenerlo e non utilizzarlo come parafulmine.
La squadra: chi resta e chi parte. Per la stagione 2010-2011 sono contrattualizzati Hutson, Giachetti, Vitali, Gigli, Crosariol, Tonolli e Toure (firmato con un triennale, costato più di Jones e finito in tribuna è ancora da piazzare altrove). Le condizioni fisiche e l’età consigliano ponderare la conferma di Hutson. Scade il prestito biennale da Siena di Datome, reduce da una stagione nera e un rapporto mai sbocciato con Boniciolli, che dovrà decidere se restare o meno nella Capitale. Nel contratto di Winston c’è una clausola a favore della società per l’estensione del contratto. L’americano nelle statistiche è stato impeccabile, ma si dovrà riflettere sul suo reale impatto. Stesso discorso per il serbo Dragicevic. Salutano Roma De La Fuente, professionista esemplare in parabola discendente, e Ibrahim Jaaber il più grande equivoco di quest’annata pessima. Da rivedere Washington, che ha offerto piccoli lampi ma è in possesso di un prezioso passaporto comunitario.
Le statistiche se interpretate alla lettera possono essere fuorvianti, ma offrono indicazioni importanti. Nella stagione appena conclusa la Lottomatica è l’ultima squadra nei rimbalzi (serve un pivot che vada in doppia cifre di rimbalzi), quart’ultima nel tiro da tre (serve un tiratore affidabile), penultima nel rapporto assist/palle perse (se Vitali è quello che abbiamo visto, serve un playmaker di costruzione) e nella top ten dei cannonieri non ce n’è un giocatore virtussino (serve un leader offensivo). Tradotto occorre ricostruire il quintetto base con giocatori non adattati e sfoltire rotazioni tanto lunghe quanto inutili.
di Gabriele Santoro
ROMA (28 maggio) - «Il problema di Toti è che è solo, a dispetto delle tante persone che pretendono di aiutarlo. Un uomo da solo non può raggiungere risultati. Non si può gestire in prima persona il rapporto con i tifosi, la stampa e la squadra».
Le parole rilasciate a gennaio da Svetislav Pesic, ex coach della Lottomatica Roma tra i più vincenti in Europa, restituiscono l’istantanea dell’epilogo della stagione romana. Claudio Toti, dopo aver assistito alla festa della Pepsi Caserta, prima ha subìto gli improperi di alcuni tifosi giustamente delusi, poi è andato negli spogliatoi a guardare in faccia i giocatori e infine si è presentato in sala stampa a spiegare il fallimento e le prospettive. Il tutto in completa solitudine.
Il presidente della Virtus ha annunciato di voler integrare l’organigramma societario con figure d’esperienza e soprattutto è auspicabile con personaggi che diano del tu alla pallacanestro. «La scelta che dovrò fare - ha spiegato Toti - è di affiancare ai giovani degli elementi di esperienza, sia nella squadra che nell’organico della società». Prima di qualunque discorso tecnico su allenatore e giocatori, la Virtus deve costruire una struttura dirigenziale credibile, magari inserendo anche persone che hanno fatto la storia di questa società.
Disincanto, amarezza e rassegnazione. L’applauso con cui il PalaLottomatica ha accompagnato lo show del casertano Jumaine Jones sapeva quasi di liberazione. Sugli spalti non c’era neanche la forza di contestare in una sorta di malinconica consapevolezza dell’eterno ritorno dell’uguale: «Tanto va a finire sempre così», il ritornello dominante. Come dargli torto? A chi, solo per citare due esempi, ha visto perdere una gara5 di semifinale scudetto in casa dopo essere stati in vantaggio di 21 punti con Carlton Myers e Anthony Parker (2/12 al tiro) in squadra. A chi è rimasto incollato alla tv o alla radio per tre tempi supplementari, prima che un fallo non fischiato su Righetti consegnasse la delusione più cocente e aprisse l’incredibile ciclo della Montepaschi Siena. Ora l’idea prospettata da Toti di rifugiarsi nella vetusta casa del Palazzetto per ritrovare il calore della gente sarebbe un autogol. Qui serve un entusiasmo nuovo, un maggiore coinvolgimento della città e non la cura compiacente di una riserva indiana, un merchandising che non arrivi a campionato concluso e una squadra con gli attributi di cui innamorarsi anche senza investimenti necessariamente faraonici. Poi a forza di ripetere che l’importante non è vincere nell’immediato si sta prendendo una sinistra confidenza con la sconfitta.
Allenatore. Il futuro di Matteo Boniciolli (57.7% vittorie sulla panchina romana) è uno dei primi nodi da sciogliere. Nel post-partita il patron ha dato una mezza conferma al coach triestino, ma il quadro è tutto da definire. Boniciolli, come avvenuto la scorsa stagione a Bologna, dopo aver ereditato e risollevato le sorti di una squadra in crisi con buoni risultati si è perso nel finale con uno sguardo proiettato troppo verso la luna (Siena e lo scudetto) e meno verso la terra. Scegliere una diversa guida tecnica, l’ottava in dieci anni di presidenza Toti, vorrebbe dire ricominciare tutto da capo con tutte le incognite del caso. L’eventuale tentazione di lanciare un tecnico giovane (Bechi da Biella?) deve essere assecondata da una società in grado di sostenerlo e non utilizzarlo come parafulmine.
La squadra: chi resta e chi parte. Per la stagione 2010-2011 sono contrattualizzati Hutson, Giachetti, Vitali, Gigli, Crosariol, Tonolli e Toure (firmato con un triennale, costato più di Jones e finito in tribuna è ancora da piazzare altrove). Le condizioni fisiche e l’età consigliano ponderare la conferma di Hutson. Scade il prestito biennale da Siena di Datome, reduce da una stagione nera e un rapporto mai sbocciato con Boniciolli, che dovrà decidere se restare o meno nella Capitale. Nel contratto di Winston c’è una clausola a favore della società per l’estensione del contratto. L’americano nelle statistiche è stato impeccabile, ma si dovrà riflettere sul suo reale impatto. Stesso discorso per il serbo Dragicevic. Salutano Roma De La Fuente, professionista esemplare in parabola discendente, e Ibrahim Jaaber il più grande equivoco di quest’annata pessima. Da rivedere Washington, che ha offerto piccoli lampi ma è in possesso di un prezioso passaporto comunitario.
Le statistiche se interpretate alla lettera possono essere fuorvianti, ma offrono indicazioni importanti. Nella stagione appena conclusa la Lottomatica è l’ultima squadra nei rimbalzi (serve un pivot che vada in doppia cifre di rimbalzi), quart’ultima nel tiro da tre (serve un tiratore affidabile), penultima nel rapporto assist/palle perse (se Vitali è quello che abbiamo visto, serve un playmaker di costruzione) e nella top ten dei cannonieri non ce n’è un giocatore virtussino (serve un leader offensivo). Tradotto occorre ricostruire il quintetto base con giocatori non adattati e sfoltire rotazioni tanto lunghe quanto inutili.
sabato 15 maggio 2010
Santa Lucia, dove il basket in carrozzina restituisce la gioia della vita
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=102027&sez=HOME_SPORT&ssez=ALTRISPORT
di Gabriele Santoro
ROMA (15 maggio) – La quattordicenne Giulia Rossetti sprigiona dal suo corpo esile un’energia emozionante. Giulia convive con una tetraparesi spastica causata da una paralisi cerebrale infantile, ma con la propria carrozzina corre e disegna parabole sul parquet puntando il canestro.
All’età di nove anni presso la Fondazione Santa Lucia ha iniziato a praticare il minibasket, andando quotidianamente in direzione ostinata e contraria ai propri limiti. Giulia all’inizio faticava ad alzare il pallone di qualche centimetro dal palmo della mano. Oggi con un sorriso spiazzante ti racconta la gioia del primo canestro segnato in una partita ufficiale sul campo di Firenze. «Quel canestro mi ha ripagato di tutta la fatica e mi ha dato coraggio: la strada intrapresa è quella giusta. Il basket mi piace molto, mi fa divertire e soprattutto mi permette di socializzare. Ho conosciuto molte persone e sono legata a tutti i miei compagni di squadra». Tra ragazze e ragazzi sono in sedici a praticare gratuitamente minibasket al Santa Lucia, che garantisce loro l’assistenza medica, copre i costi delle trasferte e fornisce l’attrezzatura sportiva con un budget annuale di circa venticinquemila euro.
Dopo l’allenamento dei giovani nella bella palestra del complesso ospedaliero di via Ardeatina scendono sul parquet i campioni d’Italia per preparare gara-due della semifinale scudetto. Il basket in carrozzina a Roma ha due top team, Santa Lucia e Lottomatica Elecom, che si contendono la leadership italiana e sono state splendide protagoniste della Coppa Campioni disputata nella Capitale nel primo weekend di maggio.
Uomo simbolo di questo movimento vincente e pieno di valori positivi è Carlo Di Giusto: la mente e il braccio del basket Santa Lucia. Dal 1980 ha sposato la causa della squadra romana, prima come giocatore e dal 2001 come allenatore, conquistando tre volte la Champions e diciassette scudetti. Dal 2002-2007 è stato anche il c.t. della nazionale che ha vinto due titoli europei. Di Giusto non si perde neanche gli junior. «Lo scopo della nostra attività è duplice: agonistico e professionistico con la prima squadra, mentre con il minibasket proseguiamo la fase terapeutica riabilitativa e il percorso di reinserimento sociale mediante lo sport».
Al pari di altre discipline paralimpiche il basket in carrozzina ha fatto passi da giganti in avanti sia a livello tecnico sia nell’esposizione mediatica, ma non mancano le criticità come sottolinea Di Giusto. «Siamo carenti nella preparazione degli allenatori e non c’è una struttura adeguata per la loro formazione. L’altra mancanza riguarda il management. Molte società sono sorte e sparite in un arco di tempo breve per l’assenza di una progettualità con figure professionali e non volontaristiche».
Quali sono i primi passi da compiere per un buon allenatore? «Infondere la padronanza del mezzo. Imparare a gestire la carrozzina, governare l’equilibrio e la manovrabilità abbinata ai fondamentali della pallacanestro: palleggio, passaggio e tiro. Agli allenatori normodotati che si vogliono avvicinare dico: prima siediti sulla carrozzina e vedi cosa significa».
Poi c’è il nodo delle barriere architettoniche, che nei principali impianti romani non mancano. «Al PalaLottomatica e al Palazzetto, nonostante alcuni lavori di ammodernamento, il percorso per le carrozzine è sempre tortuoso. Manca un impianto moderno di media capienza senza barriere anacronistiche».
Andrea Cherubini e Matteo Cavagnini sono le torri della formazione romana. Due destini incrociati dal dramma di un incidente subìto in età giovanile e dalla riscoperta della vita grazie allo sport. Cherubini è il Francesco Totti del Santa Lucia, quindici anni con la stessa maglia e nessuna intenzione di mollarla, ma anche un campione olimpico polisportivo (c’è la scherma oltre al basket) e plurimedagliato: «La mia vita ruota intorno a mio figlio Joel, alla mia compagna e al coach Carlo Di Giusto (sorride, ndr). Nel 1991 ero ricoverato all’Aurelia Hospital, dopo aver subito un’amputazione, e altri ragazzi che praticavano lo sport per la riabilitazione mi hanno convinto a provare e da allora non ho più smesso con ottimi risultati».
Il bresciano Cavagnini invece è alla seconda stagione al Santa Lucia. «A quattordici anni un incidente in motorino mi ha stravolto l’esistenza con l’amputazione di un arto inferiore. Un dramma che ti toglie la voglia di sudare, di fare, di confrontarti con la gente. Il basket mi ha ridato una vita, mi ha aiutato ad accettare me stesso e la mia condizione. Tutto questo non sarebbe possibile senza l’amore e il supporto di mia moglie e delle mie due figlie».
di Gabriele Santoro
ROMA (15 maggio) – La quattordicenne Giulia Rossetti sprigiona dal suo corpo esile un’energia emozionante. Giulia convive con una tetraparesi spastica causata da una paralisi cerebrale infantile, ma con la propria carrozzina corre e disegna parabole sul parquet puntando il canestro.
All’età di nove anni presso la Fondazione Santa Lucia ha iniziato a praticare il minibasket, andando quotidianamente in direzione ostinata e contraria ai propri limiti. Giulia all’inizio faticava ad alzare il pallone di qualche centimetro dal palmo della mano. Oggi con un sorriso spiazzante ti racconta la gioia del primo canestro segnato in una partita ufficiale sul campo di Firenze. «Quel canestro mi ha ripagato di tutta la fatica e mi ha dato coraggio: la strada intrapresa è quella giusta. Il basket mi piace molto, mi fa divertire e soprattutto mi permette di socializzare. Ho conosciuto molte persone e sono legata a tutti i miei compagni di squadra». Tra ragazze e ragazzi sono in sedici a praticare gratuitamente minibasket al Santa Lucia, che garantisce loro l’assistenza medica, copre i costi delle trasferte e fornisce l’attrezzatura sportiva con un budget annuale di circa venticinquemila euro.
Dopo l’allenamento dei giovani nella bella palestra del complesso ospedaliero di via Ardeatina scendono sul parquet i campioni d’Italia per preparare gara-due della semifinale scudetto. Il basket in carrozzina a Roma ha due top team, Santa Lucia e Lottomatica Elecom, che si contendono la leadership italiana e sono state splendide protagoniste della Coppa Campioni disputata nella Capitale nel primo weekend di maggio.
Uomo simbolo di questo movimento vincente e pieno di valori positivi è Carlo Di Giusto: la mente e il braccio del basket Santa Lucia. Dal 1980 ha sposato la causa della squadra romana, prima come giocatore e dal 2001 come allenatore, conquistando tre volte la Champions e diciassette scudetti. Dal 2002-2007 è stato anche il c.t. della nazionale che ha vinto due titoli europei. Di Giusto non si perde neanche gli junior. «Lo scopo della nostra attività è duplice: agonistico e professionistico con la prima squadra, mentre con il minibasket proseguiamo la fase terapeutica riabilitativa e il percorso di reinserimento sociale mediante lo sport».
Al pari di altre discipline paralimpiche il basket in carrozzina ha fatto passi da giganti in avanti sia a livello tecnico sia nell’esposizione mediatica, ma non mancano le criticità come sottolinea Di Giusto. «Siamo carenti nella preparazione degli allenatori e non c’è una struttura adeguata per la loro formazione. L’altra mancanza riguarda il management. Molte società sono sorte e sparite in un arco di tempo breve per l’assenza di una progettualità con figure professionali e non volontaristiche».
Quali sono i primi passi da compiere per un buon allenatore? «Infondere la padronanza del mezzo. Imparare a gestire la carrozzina, governare l’equilibrio e la manovrabilità abbinata ai fondamentali della pallacanestro: palleggio, passaggio e tiro. Agli allenatori normodotati che si vogliono avvicinare dico: prima siediti sulla carrozzina e vedi cosa significa».
Poi c’è il nodo delle barriere architettoniche, che nei principali impianti romani non mancano. «Al PalaLottomatica e al Palazzetto, nonostante alcuni lavori di ammodernamento, il percorso per le carrozzine è sempre tortuoso. Manca un impianto moderno di media capienza senza barriere anacronistiche».
Andrea Cherubini e Matteo Cavagnini sono le torri della formazione romana. Due destini incrociati dal dramma di un incidente subìto in età giovanile e dalla riscoperta della vita grazie allo sport. Cherubini è il Francesco Totti del Santa Lucia, quindici anni con la stessa maglia e nessuna intenzione di mollarla, ma anche un campione olimpico polisportivo (c’è la scherma oltre al basket) e plurimedagliato: «La mia vita ruota intorno a mio figlio Joel, alla mia compagna e al coach Carlo Di Giusto (sorride, ndr). Nel 1991 ero ricoverato all’Aurelia Hospital, dopo aver subito un’amputazione, e altri ragazzi che praticavano lo sport per la riabilitazione mi hanno convinto a provare e da allora non ho più smesso con ottimi risultati».
Il bresciano Cavagnini invece è alla seconda stagione al Santa Lucia. «A quattordici anni un incidente in motorino mi ha stravolto l’esistenza con l’amputazione di un arto inferiore. Un dramma che ti toglie la voglia di sudare, di fare, di confrontarti con la gente. Il basket mi ha ridato una vita, mi ha aiutato ad accettare me stesso e la mia condizione. Tutto questo non sarebbe possibile senza l’amore e il supporto di mia moglie e delle mie due figlie».
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