Napoli – «La mattina guardo sempre
per qualche minuto il mare. Poi, appena chiudo le finestre dello
studio, immagino di riuscire a trattenere la bellezza di questa terra
e l’anima antica di Napoli». Riccardo Dalisi si trova a proprio
agio in mezzo a una miriade di oggetti, che emanano una luce
inconfondibile. Prepara la tavolozza e i pennelli. L’irruenza della
fantasia appare l’unico criterio ordinatore del suo luogo creativo,
che dal Vomero ammira Capri. Superati gli ottanta anni, rimane un
sognatore magnifico; un impagabile narratore di storie fiabesche che
vivificano materia ultra poverissima.
«Ho scritto e fatto tanto, forse
troppo - dice Dalisi, sorridendo -. A volte succede che mi senta
stanco. Ma quando disegno o coloro, si scatena un mondo di energia,
che ha nel cuore il proprio epicentro». La sua è una rivoluzione
formale, estetica, sociale senza tempo; in grado di unire linguaggi
artistici e varie modalità espressive. Ha messo, e continua a farlo,
al centro dell’arte una periferia culturale dalle potenzialità
inestimabili. Coerentemente radicale nell’amore per la vita, e
nella concezione dell’architettura, del design, sottratti alla mera
logica del funzionalismo e del profitto. Il prodotto è un pretesto
per dare sostanza a un universo di significati. «La società ci
chiede una nuova efficienza, nuovi progetti ecosostenibili –
prosegue -. L’arte deve disvelare le questioni poste dalla
contemporaneità e fornire risposte. Occorre ripensare i modi della
produzione, scostandoci dal consumo usa e getta».
Gli errori restano il terreno più
fertile dove seminare: «L’ossessione per l’imperfezione deriva
da una cultura schiacciata sulla razionalità. Da professore scrissi
Progettare senza pensare, gettando scandalo tra i miei colleghi. «Non
dovete cominciare dal disegno, bensì dalle analisi, dalle verifiche,
dagli esempi…», dicevano agli studenti. E rispondevo: «Insomma,
quando sei stufo, devi dedicarti alla cosa più impegnativa? No,
creare innanzitutto. Spostare l’attenzione dalla razionalità al
sentire le cose, sperimentando senza inibizioni, con una visione
concreta dei bisogni sociali e la necessaria ricerca teorica. Ero
molto studioso, cercavo di applicare. Poi un giorno, disegnando,
intuii quanto la mia libertà, che si irradia dal plesso solare,
fosse altrove».
La poetica del design ultra
poverissimo, ultima frontiera della tecnica povera che ha
caratterizzato la produzione di Dalisi, accolta nei più prestigiosi
spazi espositivi mondiali (dal MoMa alla Triennale di Milano; oggi
sue mostre sono in corso in Cina, a Seul e alla collettiva Il design
italiano oltre la crisi, autarchia e autoproduzione alla Triennale),
manifesta una miniera di personaggi fantastici. L’artista ha
coinvolto, quasi sfidando e al contempo traendo ispirazione, un
“povero organizzato”, il questuante Gennaro Cozzuto. Gli ha
affidato disegni di uccellini, lamierino, forbici e fil di ferro. Ed
è sbocciato un talento. «Ho una dignità nuova!», esclama
Gennaro.
S’impone la manualità, quale forza
generatrice di valore aggiunto, che avversa l’omologazione. Si nega
la ricchezza esteriore, per rispondere a una domanda di autenticità
con la semplificazione delle linee e un ritorno alla figurazione. I
materiali poveri (cartapesta, latta, legno abbandonato, rame, ferro
grezzo) assumono una comunicatività dirompente. La materia,
costantemente rivalutata, ha vita propria, una voce. Dalisi dedica
poi particolare cura alla pittura degli oggetti.
Paradigmatico dell’avventura radicale
del maestro designer, tra i fondatori nei Settanta del laboratorio di
ricerca e condivisione Global Tools, è stato il rapporto con i
numerosissimi committenti industriali. Capovolse la dinamica: loro
correvano appresso alle sue ricerche sul campo, e innovazioni, nel
segno di un’alleanza tra la sapienza artigianale dei vicoli di
Napoli e l’alta tecnologia. Il libro La caffettiera e pulcinella
restituisce bene l’intensità dell’impresa della progettazione
della caffettiera Alessi, che gli valse il Compasso d’oro. Ci
affidiamo alle parole dell’imprenditore Alberto Alessi Anghini:
«Non faceva molto per infondere sicurezza nell’establishment, anzi
mise in crisi le certezze. Progettista così diverso da quelli
abituali. Giunse a un risultato assoluto con una lunga e intensa
dialettica tra mondo industriale e artigianale».
E ancora, Alessandro Mendini ricorda il
principio dalisiano della Geometria generativa: «Un tentativo di
controllare il gioco delle trasformazioni nello spazio, di
registrarle in senso progressivo, di dirottarle, di tradurre le
pressioni che vengono da altri tipi di processi in opportunità
creative dello spazio; è la metodologia delle progettazioni
interpersonali. L’interlocutore di questa progettualità molteplice
è ora il bambino del sottoproletariato, ora il vecchio artigiano».
Come quella figura mitica del lattoniere Don Vincenzo, che per
timidezza mai volle conoscere Dalisi, ma che a distanza diede corpo
ai prototipi della caffettiera napoletana.
Il viaggio di Dalisi è una ricerca
antropologica, che costruisce legami, dà vita ai quartieri. Indica
la rotta per l’emancipazione dal degrado e dall’inferno, al quale
spesso finiamo per abituarci. La sua utopia si sostanzia nei ragazzi
di Napoli salvati dalla strada. Gli occhi azzurri si velano di
commozione, quando parla di loro. Ieri ai rioni Traiano e Sanità,
oggi a Scampia e al carcere minorile di Nisida. «Negli anni Settanta
portavo gli studenti di architettura fuori dalle aule a scoprire gli
scugnizzi. Attraevamo tutto il quartiere con l’animazione. I
bambini mi hanno spiegato la poesia e la libertà nella
progettazione. Le regole derivano dalla poesia. Oggi, durante i
laboratori, ai giovani reclusi di Nisida ripeto: “Prendete un
pennello, non pulitelo mai, anche se i colori si mescolano, il gesto
è decisivo: la vera ribellione alla realtà”». E ora, in
cantiere, c’è l’elaborazione teorica dell’esperienza di arte
terapia, da lui ispirata, nella ludoteca dell’ospedale Santissima
Annunziata a Forcella.
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