venerdì 25 luglio 2014

Il viaggio di Riccardo Dalisi: design ultrapoverissimo a colori e le città da reinventare

Napoli – «La mattina guardo sempre per qualche minuto il mare. Poi, appena chiudo le finestre dello studio, immagino di riuscire a trattenere la bellezza di questa terra e l’anima antica di Napoli». Riccardo Dalisi si trova a proprio agio in mezzo a una miriade di oggetti, che emanano una luce inconfondibile. Prepara la tavolozza e i pennelli. L’irruenza della fantasia appare l’unico criterio ordinatore del suo luogo creativo, che dal Vomero ammira Capri. Superati gli ottanta anni, rimane un sognatore magnifico; un impagabile narratore di storie fiabesche che vivificano materia ultra poverissima.

«Ho scritto e fatto tanto, forse troppo - dice Dalisi, sorridendo -. A volte succede che mi senta stanco. Ma quando disegno o coloro, si scatena un mondo di energia, che ha nel cuore il proprio epicentro». La sua è una rivoluzione formale, estetica, sociale senza tempo; in grado di unire linguaggi artistici e varie modalità espressive. Ha messo, e continua a farlo, al centro dell’arte una periferia culturale dalle potenzialità inestimabili. Coerentemente radicale nell’amore per la vita, e nella concezione dell’architettura, del design, sottratti alla mera logica del funzionalismo e del profitto. Il prodotto è un pretesto per dare sostanza a un universo di significati. «La società ci chiede una nuova efficienza, nuovi progetti ecosostenibili – prosegue -. L’arte deve disvelare le questioni poste dalla contemporaneità e fornire risposte. Occorre ripensare i modi della produzione, scostandoci dal consumo usa e getta».

Gli errori restano il terreno più fertile dove seminare: «L’ossessione per l’imperfezione deriva da una cultura schiacciata sulla razionalità. Da professore scrissi Progettare senza pensare, gettando scandalo tra i miei colleghi. «Non dovete cominciare dal disegno, bensì dalle analisi, dalle verifiche, dagli esempi…», dicevano agli studenti. E rispondevo: «Insomma, quando sei stufo, devi dedicarti alla cosa più impegnativa? No, creare innanzitutto. Spostare l’attenzione dalla razionalità al sentire le cose, sperimentando senza inibizioni, con una visione concreta dei bisogni sociali e la necessaria ricerca teorica. Ero molto studioso, cercavo di applicare. Poi un giorno, disegnando, intuii quanto la mia libertà, che si irradia dal plesso solare, fosse altrove».

La poetica del design ultra poverissimo, ultima frontiera della tecnica povera che ha caratterizzato la produzione di Dalisi, accolta nei più prestigiosi spazi espositivi mondiali (dal MoMa alla Triennale di Milano; oggi sue mostre sono in corso in Cina, a Seul e alla collettiva Il design italiano oltre la crisi, autarchia e autoproduzione alla Triennale), manifesta una miniera di personaggi fantastici. L’artista ha coinvolto, quasi sfidando e al contempo traendo ispirazione, un “povero organizzato”, il questuante Gennaro Cozzuto. Gli ha affidato disegni di uccellini, lamierino, forbici e fil di ferro. Ed è sbocciato un talento. «Ho una dignità nuova!», esclama Gennaro.

S’impone la manualità, quale forza generatrice di valore aggiunto, che avversa l’omologazione. Si nega la ricchezza esteriore, per rispondere a una domanda di autenticità con la semplificazione delle linee e un ritorno alla figurazione. I materiali poveri (cartapesta, latta, legno abbandonato, rame, ferro grezzo) assumono una comunicatività dirompente. La materia, costantemente rivalutata, ha vita propria, una voce. Dalisi dedica poi particolare cura alla pittura degli oggetti.

Paradigmatico dell’avventura radicale del maestro designer, tra i fondatori nei Settanta del laboratorio di ricerca e condivisione Global Tools, è stato il rapporto con i numerosissimi committenti industriali. Capovolse la dinamica: loro correvano appresso alle sue ricerche sul campo, e innovazioni, nel segno di un’alleanza tra la sapienza artigianale dei vicoli di Napoli e l’alta tecnologia. Il libro La caffettiera e pulcinella restituisce bene l’intensità dell’impresa della progettazione della caffettiera Alessi, che gli valse il Compasso d’oro. Ci affidiamo alle parole dell’imprenditore Alberto Alessi Anghini: «Non faceva molto per infondere sicurezza nell’establishment, anzi mise in crisi le certezze. Progettista così diverso da quelli abituali. Giunse a un risultato assoluto con una lunga e intensa dialettica tra mondo industriale e artigianale».

E ancora, Alessandro Mendini ricorda il principio dalisiano della Geometria generativa: «Un tentativo di controllare il gioco delle trasformazioni nello spazio, di registrarle in senso progressivo, di dirottarle, di tradurre le pressioni che vengono da altri tipi di processi in opportunità creative dello spazio; è la metodologia delle progettazioni interpersonali. L’interlocutore di questa progettualità molteplice è ora il bambino del sottoproletariato, ora il vecchio artigiano». Come quella figura mitica del lattoniere Don Vincenzo, che per timidezza mai volle conoscere Dalisi, ma che a distanza diede corpo ai prototipi della caffettiera napoletana.



Il viaggio di Dalisi è una ricerca antropologica, che costruisce legami, dà vita ai quartieri. Indica la rotta per l’emancipazione dal degrado e dall’inferno, al quale spesso finiamo per abituarci. La sua utopia si sostanzia nei ragazzi di Napoli salvati dalla strada. Gli occhi azzurri si velano di commozione, quando parla di loro. Ieri ai rioni Traiano e Sanità, oggi a Scampia e al carcere minorile di Nisida. «Negli anni Settanta portavo gli studenti di architettura fuori dalle aule a scoprire gli scugnizzi. Attraevamo tutto il quartiere con l’animazione. I bambini mi hanno spiegato la poesia e la libertà nella progettazione. Le regole derivano dalla poesia. Oggi, durante i laboratori, ai giovani reclusi di Nisida ripeto: “Prendete un pennello, non pulitelo mai, anche se i colori si mescolano, il gesto è decisivo: la vera ribellione alla realtà”». E ora, in cantiere, c’è l’elaborazione teorica dell’esperienza di arte terapia, da lui ispirata, nella ludoteca dell’ospedale Santissima Annunziata a Forcella.

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