giovedì 31 luglio 2014

Lampedusa ritrovata


di Gabriele Santoro

Lampedusa – Una volta sognai/di essere una tartaruga gigante/con scheletro d’avorio/che trascinava bimbi e piccini/e alghe e rifiuti e fiori/e tutti si aggrappavano a me,/sulla mia scorza dura./Ero una tartaruga che barcollava/sotto il peso dell’amore/molto lenta a capire/e svelta a benedire./Così figli miei/una volta vi hanno buttato in acqua/e voi vi siete aggrappati al mio guscio/e io vi ho portati in salvo perché questa testuggine marina/è la terra che vi salva/dalla morte dell’acqua. «Conosci questa poesia che Alda Merini scrisse per Lampedusa?», domanda Zakaria Mohamed Ali, mentre lo sguardo si perde nella vastità del mare. Al Porto Vecchio i pescatori sistemano le reti; gli uomini della Guardia Costiera preparano la nave Peluso. «Eravamo in quarantatré sul barcone, trentasette dei quali somali. Arrivammo alle due di notte, dopo tre giorni (10-13 agosto 2008) di navigazione da Mişrâtah (Tripoli), con i fari portuali a orientare l’approdo vicino».

Poi un’ora di pace; sdraiati sulla banchina a guardare le stelle, prima che un gruppo di giovani in motorino scorgesse il gruppo di migranti. «Nel 2012 tornai da uomo libero – dice -. Corsi, senza più sentire il mio corpo, fino alla punta estrema del molo. Riaffiorarono tutte le emozioni; il pensiero degli abbracci e dei baci sulla guancia di mia madre prima della partenza da casa. Rappresentò un luogo di rinascita, non una linea di confine. Il molo come un essere vivente che ci tese la mano». Non ha ancora imparato a nuotare, ma il mare l’ha dominato affidandosi al GPS per portare a destinazione, vivi, tutti i compagni di traversata: «È strano il mare; all’improvviso si manifesta con delle brusche salite. In un precedente tentativo (maggio 2008) rischiammo di andare a picco con il gommone, finché ci trassero in salvo le autorità tunisine».


Voleva Roma, perché nella sua città una strada portava quel nome, come retaggio dell’epoca coloniale. Ottenuta la protezione internazionale (validità quinquennale), vive in una stanza a Tor Pignattara; ha un lavoro e non ha rinunciato al proprio sogno di giornalista. Ha firmato un bel documentario (To whom it may concern, A chiunque possa interessare; visibile su Youtube) e dà un contributo sostanzioso ai progetti dell’Archivio delle memorie migranti. Dopo il ricongiungimento, la famiglia si è sistemata in Svezia. «Sui giornali vedo porre l’attenzione sugli scafisti – prosegue -. Ma i trafficanti sono a un altro livello. C’è una precisa scelta politica dalla Libia e nei lidi d’arrivo. Ai partenti tocca in sorte una forma di selezione naturale, che prosegue una volta sbarcati in Europa: resisti in mare, fatichi a sopravvivere qui».

Il trentenne, originario di Mogadiscio, trascorse appena dieci giorni a Lampedusa. «Il Cspa (Centro prima accoglienza e soccorso) è un nonluogo. Una catena di montaggio, distante dall’anima dell’isola. Ricordo quei giorni come un’astrazione dalla realtà, senza avere la minima percezione di cosa sarebbe stato di noi e dei nostri diritti». Ma il legame con questo lembo di scoglio, più vicino all’Africa che all’Europa, è inscindibile. Per lui immergersi in questa bellezza paesaggistica e naturalistica, equivale a rievocare la moltitudine di persone che invece non hanno raggiunto la terraferma. Una volta riconquistata la libertà di movimento, ha voluto incontrare gli abitanti, per guardare oltre le recinzioni del Cspa che innalzano un muro invisibile.

Dietro ai numeri (tra gli altri: nel 2013 28mila richiedenti asilo politico in Italia; 14088 migranti approdati a Lampedusa; decuplicato dall’anno precedente l’arrivo di minori accompagnati e salito da 1841 a 4954 quello dei non accompagnati), che in questi giorni d’estate tengono accesi i riflettori e dunque il dibattito pubblico, ci sono le storie individuali. Nomi e cognomi, riconoscimenti dei defunti che non vengono compiuti. «Qui riposa in pace un immigrato non identificato, etnia africana, colorito nero, rinvenuto in data (…) peso tra 90 e 130 chilogrammi», si poteva leggere fino a qualche tempo fa sulle lapidi anonime che popolano il cimitero cittadino. Paola La Rosa, tra le promotrici del Comitato 3 Ottobre, con l’attenzione del sindaco Giusi Nicolini, si è presa cura di restituire un segno di civiltà, riscrivendole. Prega sempre su quelle tombe distinguibili solo dal numero in vernice, Zakaria.


Un divieto d’accesso annuncia l’ammasso di barconi derelitti. Il paninaro antistante chiede di essere intervistato: «Mi ascolti, veglio qui da dieci anni». Zakaria sembra provare un’attrazione per quella discarica di una storia sbagliata. Vanamente rimossa. Sul lato opposto dell’ingresso principale si apre un varco visivo impervio. Gli insetti infestano l’area. Tra il legno marcio, le prue sfasciate, i chiodi arrugginiti, affiorano jeans, foulard, magliette, pelouche di infanzie straziate. Dalla stiva di un’imbarcazione appare una lattina di 7UP, adagiata su cuscini putridi. «Avverto la necessità costante di scandagliare questo posto – confessa -. Il ritrovamento più importante è stata una lettera d’accompagnamento in arabo. Toccante e straziante. Perché tra dieci, vent’anni dobbiamo dimenticare ciò che è stato? Dovremmo onorare almeno la memoria, per tornare umani».

In paese conoscono bene quest’uomo cresciuto al vento; perché ha creato legami di senso. La prima settimana di ottobre, sarà nuovamente qui per la commemorazione della strage dello scorso 3 ottobre, quando a poche miglia dal porto di Lampedusa morirono 366 persone. «Stiamo preparando una giornata importante – spiega Paola La Rosa – per riportare nell’isola i superstiti del naufragio e i familiari. La parola andrà a loro, mentre invochiamo il silenzio degli altri. Non è stata celebrata neanche una funzione funebre, in quasi un anno è cambiato poco. Piuttosto sembra in atto un tentativo, inutile, di far scomparire Lampedusa dalla carta geografica (un punto sul 35° parallelo, 26 chilometri di perimetro costiero, Agrigento dista 205 chilometri, mentre Ras Kaboudja, Tunisia, appena 167) delle migrazioni, con la conseguenza di perdere un patrimonio culturale di buone pratiche dell’accoglienza incise nel dna del luogo». Leggenda narra, come riporta Ivanna Rossi nella bella Guida per un turismo umano e responsabile, che due romiti (eremiti del deserto) abbiano soccorso amorevolmente due povere naufraghe palermitane e abbiano dismesso il saio, dando così origine al popolo lampedusano.

«La gran parte delle operazioni di soccorso vengono effettuate a sud di Lampedusa. È il porto sicuro più vicino. La struttura di Contrada Imbriacole deve restare un presidio: non possiamo restare sguarniti dell’assistenza primaria con la strategia dei trasferimenti immediati, che sottopone ad ulteriore stress chi arriva», conclude La Rosa. Il centro di prima accoglienza isolano, apparentemente chiuso, all’occorrenza continua a funzionare. I lavori di ristrutturazione interna, cominciati circa nove mesi fa, quando i migranti erano arrangiati nelle tende sotto la pioggia, procedono molto a rilento. Assenza di fondi o scelta politica? «Sono due i compound da ristrutturare, uno dei quali era andato completamente distrutto – sottolinea Viviana Valastro, responsabile della protezione minori migranti per Save the children – . In quello meno danneggiato siamo ancora a metà dell’impresa, mentre ha cominciato a muoversi qualcosa nell’altro. Non si ha la percezione di un obiettivo cantieristico chiaro. Sono impiegati pochi operai, forse due. Monitoriamo le condizioni di accoglienza anche dentro al centro, al fine di evitare promiscuità con gli adulti: difficilissimo farlo nelle condizioni in cui si presenta adesso il centro».

L’impegno complesso di salvataggio in mare aperto degli uomini e delle donne della Marina Militare, nell’ambito di Mare Nostrum (920 militari coinvolti, 11 navi, elicotteri, 9.3 milioni di euro il costo mensile, oltre 80mila persone tratte in salvo da inizio anno), fronteggia una richiesta pressante di partenze dalle coste libiche, derivante anche dalla scompaginazione mediorientale. Twitter è diventato il canale di comunicazione istituzionale principale, con la narrazione fotografica in diretta delle azioni d’intervento. In attesa di un impegno europeo, il governo, per voce del ministro della Difesa Pinotti, ne ha annunciato il rifinanziamento, nel quadro del ddl Assestamento 2014, con sessanta milioni di euro per la copertura delle spese. A bordo opera anche personale medico del Ministero della salute: 15mila visitati dal 21 giugno.

Il 18 luglio tra i 1278 migranti approdati a Lampedusa, sono stati identificati quarantaquattro minori non accompagnati già trasferiti dal Cspa in altre strutture. A esclusione dei tunisini (è in vigore con Tunisi un accordo bilaterale per il rimpatrio), restano tutti in ogni caso qui. Siria ed Eritrea (al 31 maggio erano già 1700 i bambini sbarcati, e sulla frontiera con l’Etiopia premono a migliaia) costituiscono i fronti principali: in fuga dalla guerra e dalla dittatura che prevede la coscrizione militare anche per i giovanissimi. Affrontano viaggi, attraverso Sudan e Libia, che possono durare anche due anni. Save the children, presente a Lampedusa dal 2008 con il protocollo Presidium, svolge un’importante azione di supporto tecnico delle autorità e di monitoraggio. Denuncia la cronica assenza di un sistema integrato specifico per i minori. Segue il percorso complesso degli adolescenti, alle prese con il secondo tempo del viaggio. Spiegano loro i diritti di cui godono, garantendo uno staff legale e la mediazione culturale per vederli rispettati. Prova a costruire una strada.

«Tempi e modalità del trasferimento dei minori dalla prima accoglienza sono più lunghi rispetto agli adulti – afferma Valastro -. Purtroppo non c’è una normativa chiara e specifica in grado di gestire la loro situazione: si applica per analogia quella dedicata ai minori italiani fuori dalla famiglia. I posti per loro vanno trovati nelle comunità ad hoc. Qui ne ha competenza l’ufficio minori della Questura di Agrigento, che non dispone neanche di un database per verificare le disponibilità alloggiativa. Ma si tratta di una carenza nazionale. Spesso il turnover in comunità si realizza, quando i minori si allontanano volontariamente». E poi che cosa accade? «I trafficanti tentano di entrare in contatto con loro, offrendogli il raggiungimento dell’obiettivo agognato – conclude -. E sono molto più veloci di noi con le nostre procedure burocratiche. Fino ad adesso ci hanno superato. Dovremmo dare piena attuazione a Dublino 3 e permettere a chi ha i requisiti di andare regolarmente in Germania o Svezia, come sovente richiedono. Al posto delle comunità, occorrerebbe promuovere il ricongiungimento con i parenti in altri paesi europei o l’affido familiare. Molti accusano psicologicamente il fallimento del progetto migratorio, ma a casa raccontano successi».

Al Santuario della Madonna di Porto Salvo è l’ora del tramonto. Il sole piomba sul mare, e Zakaria ha appena concluso di parlare a un gruppo di giovani di Amnesty International. Gli si avvicina Said, un ragazzino altissimo, dagli occhi grandi e sperduti: «Mi lasci il tuo numero di telefono? Ho la tua stessa storia, mi hai acceso una luce. Voglio farcela».

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