di Gabriele Santoro
Lampedusa – Una volta sognai/di
essere una tartaruga gigante/con scheletro d’avorio/che trascinava
bimbi e piccini/e alghe e rifiuti e fiori/e tutti si aggrappavano a
me,/sulla mia scorza dura./Ero una tartaruga che barcollava/sotto il
peso dell’amore/molto lenta a capire/e svelta a benedire./Così
figli miei/una volta vi hanno buttato in acqua/e voi vi siete
aggrappati al mio guscio/e io vi ho portati in salvo perché questa
testuggine marina/è la terra che vi salva/dalla morte dell’acqua.
«Conosci questa poesia che Alda Merini scrisse per Lampedusa?»,
domanda Zakaria Mohamed Ali, mentre lo sguardo si perde nella vastità
del mare. Al Porto Vecchio i pescatori sistemano le reti; gli uomini
della Guardia Costiera preparano la nave Peluso. «Eravamo in
quarantatré sul barcone, trentasette dei quali somali. Arrivammo
alle due di notte, dopo tre giorni (10-13 agosto 2008) di navigazione
da Mişrâtah (Tripoli), con i fari portuali a orientare l’approdo
vicino».
Poi un’ora di pace; sdraiati sulla
banchina a guardare le stelle, prima che un gruppo di giovani in
motorino scorgesse il gruppo di migranti. «Nel 2012 tornai da uomo
libero – dice -. Corsi, senza più sentire il mio corpo, fino alla
punta estrema del molo. Riaffiorarono tutte le emozioni; il pensiero
degli abbracci e dei baci sulla guancia di mia madre prima della
partenza da casa. Rappresentò un luogo di rinascita, non una linea
di confine. Il molo come un essere vivente che ci tese la mano». Non
ha ancora imparato a nuotare, ma il mare l’ha dominato affidandosi
al GPS per portare a destinazione, vivi, tutti i compagni di
traversata: «È strano il mare; all’improvviso si manifesta con
delle brusche salite. In un precedente tentativo (maggio 2008)
rischiammo di andare a picco con il gommone, finché ci trassero in
salvo le autorità tunisine».
Voleva Roma, perché nella sua città
una strada portava quel nome, come retaggio dell’epoca coloniale.
Ottenuta la protezione internazionale (validità quinquennale), vive
in una stanza a Tor Pignattara; ha un lavoro e non ha rinunciato al
proprio sogno di giornalista. Ha firmato un bel documentario (To whom
it may concern, A chiunque possa interessare; visibile su
Youtube) e dà un contributo sostanzioso ai progetti dell’Archivio
delle memorie migranti. Dopo il ricongiungimento, la famiglia si è
sistemata in Svezia. «Sui giornali vedo porre l’attenzione sugli
scafisti – prosegue -. Ma i trafficanti sono a un altro livello.
C’è una precisa scelta politica dalla Libia e nei lidi d’arrivo.
Ai partenti tocca in sorte una forma di selezione naturale, che
prosegue una volta sbarcati in Europa: resisti in mare, fatichi a
sopravvivere qui».
Il trentenne, originario di Mogadiscio, trascorse appena dieci giorni a Lampedusa. «Il Cspa (Centro prima accoglienza e soccorso) è un nonluogo. Una catena di montaggio, distante dall’anima dell’isola. Ricordo quei giorni come un’astrazione dalla realtà, senza avere la minima percezione di cosa sarebbe stato di noi e dei nostri diritti». Ma il legame con questo lembo di scoglio, più vicino all’Africa che all’Europa, è inscindibile. Per lui immergersi in questa bellezza paesaggistica e naturalistica, equivale a rievocare la moltitudine di persone che invece non hanno raggiunto la terraferma. Una volta riconquistata la libertà di movimento, ha voluto incontrare gli abitanti, per guardare oltre le recinzioni del Cspa che innalzano un muro invisibile.
Il trentenne, originario di Mogadiscio, trascorse appena dieci giorni a Lampedusa. «Il Cspa (Centro prima accoglienza e soccorso) è un nonluogo. Una catena di montaggio, distante dall’anima dell’isola. Ricordo quei giorni come un’astrazione dalla realtà, senza avere la minima percezione di cosa sarebbe stato di noi e dei nostri diritti». Ma il legame con questo lembo di scoglio, più vicino all’Africa che all’Europa, è inscindibile. Per lui immergersi in questa bellezza paesaggistica e naturalistica, equivale a rievocare la moltitudine di persone che invece non hanno raggiunto la terraferma. Una volta riconquistata la libertà di movimento, ha voluto incontrare gli abitanti, per guardare oltre le recinzioni del Cspa che innalzano un muro invisibile.
Dietro ai numeri (tra gli altri: nel
2013 28mila richiedenti asilo politico in Italia; 14088 migranti
approdati a Lampedusa; decuplicato dall’anno precedente l’arrivo
di minori accompagnati e salito da 1841 a 4954 quello dei non
accompagnati), che in questi giorni d’estate tengono accesi i
riflettori e dunque il dibattito pubblico, ci sono le storie
individuali. Nomi e cognomi, riconoscimenti dei defunti che non
vengono compiuti. «Qui riposa in pace un immigrato non identificato,
etnia africana, colorito nero, rinvenuto in data (…) peso tra 90 e
130 chilogrammi», si poteva leggere fino a qualche tempo fa sulle
lapidi anonime che popolano il cimitero cittadino. Paola La Rosa, tra
le promotrici del Comitato 3 Ottobre, con l’attenzione del
sindaco Giusi Nicolini, si è presa cura di restituire un segno di
civiltà, riscrivendole. Prega sempre su quelle tombe distinguibili
solo dal numero in vernice, Zakaria.
In paese conoscono bene quest’uomo
cresciuto al vento; perché ha creato legami di senso. La prima
settimana di ottobre, sarà nuovamente qui per la commemorazione
della strage dello scorso 3 ottobre, quando a poche miglia dal porto
di Lampedusa morirono 366 persone. «Stiamo preparando una giornata
importante – spiega Paola La Rosa – per riportare nell’isola i
superstiti del naufragio e i familiari. La parola andrà a loro,
mentre invochiamo il silenzio degli altri. Non è stata celebrata
neanche una funzione funebre, in quasi un anno è cambiato poco.
Piuttosto sembra in atto un tentativo, inutile, di far scomparire
Lampedusa dalla carta geografica (un punto sul 35° parallelo, 26
chilometri di perimetro costiero, Agrigento dista 205 chilometri,
mentre Ras Kaboudja, Tunisia, appena 167) delle migrazioni, con la
conseguenza di perdere un patrimonio culturale di buone pratiche
dell’accoglienza incise nel dna del luogo». Leggenda narra, come
riporta Ivanna Rossi nella bella Guida per un turismo umano e
responsabile, che due romiti (eremiti del deserto) abbiano soccorso
amorevolmente due povere naufraghe palermitane e abbiano dismesso il
saio, dando così origine al popolo lampedusano.
«La gran parte delle operazioni di
soccorso vengono effettuate a sud di Lampedusa. È il porto sicuro
più vicino. La struttura di Contrada Imbriacole deve restare un
presidio: non possiamo restare sguarniti dell’assistenza primaria
con la strategia dei trasferimenti immediati, che sottopone ad
ulteriore stress chi arriva», conclude La Rosa. Il centro di prima
accoglienza isolano, apparentemente chiuso, all’occorrenza continua
a funzionare. I lavori di ristrutturazione interna, cominciati circa
nove mesi fa, quando i migranti erano arrangiati nelle tende sotto la
pioggia, procedono molto a rilento. Assenza di fondi o scelta
politica? «Sono due i compound da ristrutturare, uno dei quali era
andato completamente distrutto – sottolinea Viviana Valastro,
responsabile della protezione minori migranti per Save the children –
. In quello meno danneggiato siamo ancora a metà dell’impresa,
mentre ha cominciato a muoversi qualcosa nell’altro. Non si ha la
percezione di un obiettivo cantieristico chiaro. Sono impiegati pochi
operai, forse due. Monitoriamo le condizioni di accoglienza anche
dentro al centro, al fine di evitare promiscuità con gli adulti:
difficilissimo farlo nelle condizioni in cui si presenta adesso il
centro».
L’impegno complesso di salvataggio in
mare aperto degli uomini e delle donne della Marina Militare,
nell’ambito di Mare Nostrum (920 militari coinvolti, 11 navi,
elicotteri, 9.3 milioni di euro il costo mensile, oltre 80mila
persone tratte in salvo da inizio anno), fronteggia una richiesta
pressante di partenze dalle coste libiche, derivante anche dalla
scompaginazione mediorientale. Twitter è diventato il canale di
comunicazione istituzionale principale, con la narrazione fotografica
in diretta delle azioni d’intervento. In attesa di un impegno
europeo, il governo, per voce del ministro della Difesa Pinotti, ne
ha annunciato il rifinanziamento, nel quadro del ddl Assestamento
2014, con sessanta milioni di euro per la copertura delle spese. A
bordo opera anche personale medico del Ministero della salute: 15mila
visitati dal 21 giugno.
Il 18 luglio tra i 1278 migranti
approdati a Lampedusa, sono stati identificati quarantaquattro minori
non accompagnati già trasferiti dal Cspa in altre strutture. A
esclusione dei tunisini (è in vigore con Tunisi un accordo
bilaterale per il rimpatrio), restano tutti in ogni caso qui. Siria
ed Eritrea (al 31 maggio erano già 1700 i bambini sbarcati, e sulla
frontiera con l’Etiopia premono a migliaia) costituiscono i fronti
principali: in fuga dalla guerra e dalla dittatura che prevede la
coscrizione militare anche per i giovanissimi. Affrontano viaggi,
attraverso Sudan e Libia, che possono durare anche due anni. Save the
children, presente a Lampedusa dal 2008 con il protocollo Presidium,
svolge un’importante azione di supporto tecnico delle autorità e
di monitoraggio. Denuncia la cronica assenza di un sistema integrato
specifico per i minori. Segue il percorso complesso degli
adolescenti, alle prese con il secondo tempo del viaggio. Spiegano
loro i diritti di cui godono, garantendo uno staff legale e la
mediazione culturale per vederli rispettati. Prova a costruire una
strada.
«Tempi e modalità del trasferimento
dei minori dalla prima accoglienza sono più lunghi rispetto agli
adulti – afferma Valastro -. Purtroppo non c’è una normativa
chiara e specifica in grado di gestire la loro situazione: si applica
per analogia quella dedicata ai minori italiani fuori dalla famiglia.
I posti per loro vanno trovati nelle comunità ad hoc. Qui ne ha
competenza l’ufficio minori della Questura di Agrigento, che non
dispone neanche di un database per verificare le disponibilità
alloggiativa. Ma si tratta di una carenza nazionale. Spesso il
turnover in comunità si realizza, quando i minori si allontanano
volontariamente». E poi che cosa accade? «I trafficanti tentano di
entrare in contatto con loro, offrendogli il raggiungimento
dell’obiettivo agognato – conclude -. E sono molto più veloci di
noi con le nostre procedure burocratiche. Fino ad adesso ci hanno
superato. Dovremmo dare piena attuazione a Dublino 3 e permettere a
chi ha i requisiti di andare regolarmente in Germania o Svezia, come
sovente richiedono. Al posto delle comunità, occorrerebbe promuovere
il ricongiungimento con i parenti in altri paesi europei o l’affido
familiare. Molti accusano psicologicamente il fallimento del progetto
migratorio, ma a casa raccontano successi».
Al Santuario della Madonna di Porto
Salvo è l’ora del tramonto. Il sole piomba sul mare, e Zakaria ha
appena concluso di parlare a un gruppo di giovani di Amnesty
International. Gli si avvicina Said, un ragazzino altissimo, dagli
occhi grandi e sperduti: «Mi lasci il tuo numero di telefono? Ho la
tua stessa storia, mi hai acceso una luce. Voglio farcela».
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