di Gabriele Santoro
Roma – Le luci di Pointe-Noire (66tha2nd, 246 pagine, traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco) è qualcosa di più di un reportage intimo sulla strada del ritorno a casa. Alain Mabanckou restituisce con leggerezza ed emozione tutta la complessità di una vita africana. Tornato dopo molti anni nella sua città natale, su invito dell’Institut Français per un ciclo di conferenze, si dedica alla scrittura di un libro che scava nelle memorie dell’infanzia congolese.
Avvertiamo
la solitudine e il senso di straniamento dell’anima migrante: «Sono
una cicogna nera le cui peregrinazioni sono talmente lunghe che ormai
superano la durata media della vita umana. Mi sforzo di trovare
qualche buona ragione per amare questa città, pur così scomposta e
deformata. E intanto lei, vecchia amante, fedele come il cane di
Ulisse, mi tende le sue lunghe braccia stanche, mi mostra giorno dopo
giorno le sue profonde ferite, come se potessi sanarle con la
bacchetta magica».
Oggi docente di letteratura francofona
a Ucla (Los Angeles), poeta e romanziere (tra gli altri Domani
avrò vent’anni) mostra le radici di un’ispirazione che frantuma
le frontiere: «Io non stacco gli occhi dalla baracca. Ci giro
attorno e inciampo nelle pietre che stanno davanti alla porta
d’ingresso. Sì, io dormivo lì dentro. Ma i miei sogni non erano
angusti. Anzi, quando chiudevo gli occhi, il sonno mi regalava
possenti ali da viaggiatore».
Mabanckou, apre il romanzo descrivendo
il legame immortale con sua madre. Racconta il ritorno all’origine
della vita con un omaggio indiretto alla dignità e al dinamismo
della donna africana. Oggi quale ruolo ricopre nella società?
La società africana poggia sulle
spalle delle donne. Sottovalutiamo spesso questo dato chiave. Della
mia infanzia custodisco il ricordo vivido della presenza materna,
dell’indipendenza di mia madre, delle sue inquietudini riguardo il
mio futuro. Credo che l’Africa sia così mal governata anche perché
non valorizziamo le preziosissime risorse femminili. E soprattutto
concepiamo il potere ancora come un territorio riservato agli uomini.
Nel quaderno del viaggio a
Pointe-Noire, in che modo rimescola l’universo di significati della
sua infanzia con la trasformazione dei luoghi e il peso delle
assenze?
Mi sono affidato all’amore per la
poesia. Nella mia cultura la realtà non si scinde dal mito e dalle
leggende. La mia infanzia si perpetua come un velo di mistero, c’è
la magia, le credenze che ho conservato: ciò mi permette di scrivere
oggi nella condizione di spaesamento intimamente connessa al ritorno.
La nostalgia è un elemento centrale del libro; ho cercato di
trasformarla in creatività.
Lei sembra consentirci di entrare nel
processo creativo che scaturisce dalla riscoperta delle radici.
In effetti questa opera mi ha permesso
di riscoprire le mie radici. Non è un processo semplice, poiché
occorre saper separare l’emozione dalla vera creazione che richiede
la giusta distanza. Ho compiuto l’impresa?
Quale tipo di influenza mantiene la
tradizione orale? Ci trasporta anche nel lato fantastico e magico
della vita in Africa.
La tradizione orale mi ha donato il
senso del ritmo, la maniera di raccontare letterariamente le mie
storie. Ma è limitativo e fuorviante ridurre il patrimonio culturale
del continente all’oralità. A lungo, a torto, è stata considerata
come una forma di esotismo, una pura curiosità. In realtà è
l’anima del popolo, della letteratura popolare. Cerco sempre di non
disperderla nel mio spirito. Faccio letteratura perché vengo dal
popolo, dalle strade congolesi dove tutto è letteratura.
Che cosa significa essere figlio unico, come lei, negli equilibri sociali e familiari africani?
Che cosa significa essere figlio unico, come lei, negli equilibri sociali e familiari africani?
È una situazione delicata, quando
l’unità di misura della ricchezza di una famiglia corrisponde al
numero di figli. Ne ho sofferto, prendendone coscienza e facendo
ricorso all’immaginario nel quale ricostruire un nucleo familiare.
L’incontro con la reggia di sua
madre, nient’altro che una baracca, è estremamente evocativo. Lei
non è uno scrittore a causa dell’emigrazione. In quello spazio
minimo, la sua immaginazione appariva aver già trovato diritto
d’asilo.
Rendere un luogo piccolo un regno
sconfinato è stato uno stimolo creativo straordinario. Da bambino
percepivo immensa la mia casupola. Tornato, a distanza di ventitré
anni, mi si presentava minuscola. Nei miei libri ho sempre sognato
grandi spazi liberi; l’emigrazione mi ha restituito la giusta
misura delle cose.
Qualifica come anarchica
l’urbanizzazione di Pointe-Noire, capitale economica del
Congo-Brazzaville. Entro il 2030, 730 milioni di africani vivranno in
città (oggi sono circa la metà). Ciò rappresenta una delle
nuove sfide per il continente.
Sì, l’urbanizzazione è in piena
deflagrazione. Quando arrivi a Lagos, Kinshasa o Johannesburg
comprendi quanto la città abbia creato delle culture, che ormai
vanno prese in considerazione. Ho avuto la fortuna di vivere bene sia
nel villaggio sia nell’agglomerato urbano. Ciò mi aiuta a
differenziare le cose. In città si gioca la sfida cosmopolita. Si
sta affermando una lingua urbana, che ben ritroviamo negli autori
africani della nuova generazione.
Nel romanzo svela la passione per il
cinema italiano. Ma oggi quel luogo mistico della sala Rex non c’è
più a Pointe-Noire.
Amiamo il vostro cinema. Allora però
non sapevamo neanche da dove provenissero le pellicole. Andavamo in
sala, dicendoci che avremmo viaggiato in Europa. Oggi sono triste,
perché moltissimi giovani non godranno di questo piacere. Stanno
sparendo i cinema in Congo, con le chiese pentecostali a occupare il
loro posto!
Le cronache giornalistiche ci
restituiscono ormai quasi quotidianamente il dramma dei migranti che
non sopravvivono al viaggio. Che cosa raffigura ancora questa Europa
indifferente?
Tuttora affascina gli africani, quale
terra promessa di benessere e felicità. Per questa ragione
assistiamo al dramma della diaspora di cui è vittima un’altra
generazione promettente. Senza governo, la situazione rischia di
aggravarsi. Non dimentichiamo che se i giovani africani mettono a
repentaglio la propria esistenza, è anche per l’incessante
depredazione delle ricchezze del continente, messa in atto dai grandi
potentati economici sovranazionali.
La facciata del suo vecchio liceo manifesta tutta la contraddittorietà del periodo post coloniale. La questione dell’identità, anche linguistica, è sempre d’attualità. Come d’altra parte lo sono i conflitti etnici e d’interesse geopolitico, la fragilità culturale delle entità statuali, la corruzione, l’influenza di vecchi e nuovi colonizzatori.
La facciata del suo vecchio liceo manifesta tutta la contraddittorietà del periodo post coloniale. La questione dell’identità, anche linguistica, è sempre d’attualità. Come d’altra parte lo sono i conflitti etnici e d’interesse geopolitico, la fragilità culturale delle entità statuali, la corruzione, l’influenza di vecchi e nuovi colonizzatori.
Le tracce della colonizzazione sono ben
riconoscibili dagli edifici, dai nomi delle strade. È la nostra
storia, e non vorrei che fosse banalmente rimossa. Richiede invece
comprensione e analisi, al fine di cogliere come le vecchie potenze
coloniali siano tuttora presenti nel continente. Lottiamo affinché
il patrimonio linguistico africano sia valorizzato. E che la storia
dell’Africa sia scritta e studiata dagli africani. Un processo
fondamentale frenato anche dall’interno. È deplorevole
l’attitudine delle classi dirigenti africane a comportarsi da
monarchi, dittatori, instaurando regimi fondati sulla corruzione.
Esistono davvero modelli di società e
sviluppo economico importabili?
Scordiamoci d’imporre dall’alto un
modello all’Africa. Abbiamo perso molti eroi, per la paura di
tornare all’essenziale: società libere e autonome. Sankara,
Lumumba Nkrumah, mantengono la forza dirompente dell’esempio.
L’Africa ha bisogno di riappropriarsi della conoscenza delle
proprie radici e della trasparenza nella gestione economica.
L’elezione di Barack Obama aveva
suscitato speranze anche nella terra del padre. Tuttavia la relazione
è rimasta molto fredda e labile il segno politico.
Obama è un americano, non africano
come l’hanno sognato per errore molti africani, che credevano che
questo presidente avrebbe aggiustato i guasti dell’Africa. È
finito il tempo di valutare le relazioni tra esseri umani nella
prospettiva del colore della pelle. Tocca ai presidenti africani
rendere felici i rispettivi popoli. Obama non è che un presidente
americano, come tutti quelli che l’hanno preceduto.
A Pointe-Noire ha ritrovato la gioia, gli sprazzi di luce che i bambini sanno scovare anche in mezzo alle più aspre difficoltà.
L’accumulazione delle ricchezze non
garantisce libertà e indipendenza. Eravamo bambini felici con il
poco a disposizione. L’unico consiglio che mi sento di dispensare
ai giovani africani: la felicità è in Africa, bisogna ricercarla e
riconquistarla là.
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