giovedì 30 ottobre 2014

«Chi spezza er pane dell'istruzione». Intervista a Eraldo Affinati


di Gabriele Santoro


La scuola d'italiano per migranti Penny Wirton, che ha trovato la nuova sede romana presso l’Acrobax, è il luogo ideale dove incontrare Eraldo Affinati. I figli dell'emigrazione arrivano lì da tutta la città per prendere in mano libri e penna. Lo scrittore e i tanti volontari, che animano la struttura, riescono ad attirare l'attenzione di fanciulli esuberanti, fiori di campo sradicati dalla propria terra, e la lezione può cominciare.

Il vulcano interiore di questi adolescenti feriti costituisce il corpus della letteratura di Affinati. Nel romanzo Vita di Vita (Mondadori, 168 pagine, 16 euro) si spinge fino in Gambia per non tradire la necessità del proprio studente Khaliq, che intende ritrovare la relazione primigenia con la madre. «A professo', che cce vai a ffà! Lì so' tutti negri e so' pure poveracci!», incalza Kenan, alunno congolese di Acilia. 

Nel viaggio il professore mette in gioco anche il proprio vissuto, fa i conti con la memoria quale opportunità di conoscenza. Rivela nell'atto concreto e vitale della scrittura le motivazioni che l’hanno avvicinato al mestiere. Nel testo, come osserva l'autore, si rimescolano paternità, maternità, libero arbitrio, pedagogia, bene e male, i sogni perduti e rinati nella voglia di esistere e resistere di Khaliq. Il profugo, originario della Sierra Leone, oggi è diventato un eccellente barista. La strada polverosa non ha scalfito la sua innocenza. «Vita compra vita, vita costa troppo, vita bela, no devi butare via», dice il giovane.


Affinati, questo romanzo, che trae valore dall'essenzialità, è una promessa mantenuta. Ha portato a ulteriore maturazione la sua esigenza letteraria e sociale di autenticità, di ricerca delle radici. Ci presenta Khaliq?
«L'avevo incontrato sui banchi di scuola, alla Città dei Ragazzi. Quando leggevo Jack London in classe, lui alzava i suoi occhioni grandi, stupefatto nel sentire le avventure del cane Buck. A un certo punto mi disse: "Porof, quel cane sono io! Però non ho conosciuto i ghiacci dell’Alaska, ma la sabbia del deserto!" Siamo diventati amici, come può esserlo chi, come me, è figlio di due orfani e fa l’insegnante e chi, come lui, fu costretto ad abbandonare sua madre a soli sette anni e del padre conserva soltanto un debole ricordo. Veniva dalla Sierra Leone. Era sopravvissuto a esperienze estreme. Stava imparando l’italiano. Non sapeva se sua madre fosse ancora viva. Decidemmo insieme che, se lui l’avesse ritrovata, io sarei andato a conoscerla. E così è stato».

Lei stravolge le regole della scena dialettica. Reinventa la distanza pedagogica maestro-allievo. È un equilibrio che, tra successi e sconfitte, chiede di essere costruito e decostruito di volta in volta?
«Credo sia proprio così. Ogni rapporto umano è un evento nuovo, perché entrano in gioco le nostre sensibilità. Storie che non appartengono soltanto a noi stessi, ma di cui noi siamo il frutto. In particolare nell'incontro fra maestro e allievo viene chiamata in causa la tradizione culturale, il senso che dobbiamo attribuire al passato. È come se tutta la storia umana tornasse a rivivere ogni volta che un professore parla coi suoi scolari. Si attraversano mondi: prati fioriti e paludi infestate».

I registri linguistici adottati e la struttura del testo ci consentono di entrare con intimo rispetto nell'esistenza complessa dei suoi studenti.

«In questo romanzo ce ne sono tre: la lingua sporca di Khaliq, il dialetto romanesco dei miei alunni italiani che mi telefonavano durante il viaggio africano e la lingua, diciamo letteraria, alla quale affido il diario e la riflessione. Era una scelta obbligata, perché non avrei mai potuto trasformare la potenza del racconto orale di Khaliq in un belletto, in una cosmesi. Dovevo lasciare il suo resoconto così come lui me lo aveva consegnato: alla medesima stregua di un diamante grezzo».

Già in passato si era preso la briga di narrare la spaventosa libertà degli orfani. In Vita di vita intravediamo un esplicito atto di denuncia della condizione dell'infanzia contemporanea, a cominciare da quella delle migliaia dei giovani migranti in fuga. L'indignazione consapevole per le iniquità non è dunque passata di moda?
«Hemingway diceva che la campana del morto suona sempre per tutti noi. Di fronte a quello che sta succedendo nel Mar Mediterraneo è difficile non sentirsi coinvolti. Per un Khaliq che è riuscito non solo a salvarsi, ma a capire il senso di quello che gli è accaduto, quanti ragazzi, morti lungo il cammino, distrattamente dimentichiamo?»
Via Tasso, le Fosse Ardeatine: la Roma resistente e il Novecento penetrano nella pelle di Khaliq e degli altri. Quale legame, tra il disagio dei ragazzi di allora e di oggi, saldano le lettere dal fronte e dalle prigioni nazifasciste che ha scelto di inserire nella narrazione?
«L’insegnante protagonista del romanzo, prima di partire per il viaggio in Gambia, insieme a lui e a Gerry, l’amico avvocato che si era prodigato per ritrovare la madre del ragazzo, aveva assegnato ai suoi scolari italiani una serie di letture sui giovani martiri della Prima e della Seconda guerra mondiale: adolescenti morti per la causa della democrazia. Queste lettere tornano come un refrain durante l’avventura africana: secoli di gioventù, per usare un altro mio titolo. Gli scolari, secondo le intenzioni del loro insegnante, sarebbero dovuti andare da soli alle Fosse Ardeatine (e a via Tasso, alla stazione Tiburtina). Ma loro aspettano che lui torni dall'Africa. E così ci vanno tutti insieme, compreso Khaliq. Come se il cielo sopra l’ingiustizia, la morte, ma anche la voglia di riscatto delle nuove generazioni, fosse sempre lo stesso».
Ha mai avvertito il rischio di raffigurare la consueta Africa con il cappello in mano?
«Ho cercato di superare gli stereotipi, concentrando lo sguardo sui dettagli, senza visioni precostituite».
La destinazione del viaggio per entrambi i protagonisti si vivifica nella scrittura?
«Sì, rappresenta la stazione finale di tutti i miei viaggi. Soltanto scrivendo si dà senso all'esperienza. E questa penso sia anche la ragione profonda per cui Khaliq ha voluto che andassi in Africa: per rendere vera la sua vita. Ai suoi occhi dovevo essere colui che ripristina la fede nella realtà nell'unico modo possibile: raccontando ad altri ciò che gli era capitato. Scrivere è certificare la verità. Apporre il timbro di conferma. I giovani, non è la prima volta che lo scopro, sono molto più tradizionalisti dei loro padri. Vogliono certezze. Hanno bisogno di punti saldi. Altrimenti non potrebbero andare avanti».
La bestemmia di Santino ricorda quelle di Peppino nella Città dei ragazzi. La potente drammaturgia della bocciatura manifesta un fallimento, che chiama in causa tutti a raccogliere i cocci con una visione più lungimirante.
«Quella bestemmia finale richiama il senso del prologo. Mia nonna Rosina diceva che bisogna vivere a fondo perduto. Così anche l’insegnante, ma riguarda tutti noi, deve riuscire a poter fare a meno del riscontro, perlomeno immediato, della sua azione. Lo so che è difficile, ma chi ce la fa alla fine vive meglio. Agire senza pensare al beneficio che potremmo ottenere. E soprattutto bisogna restare con le tasche vuote. Senza conservare neppure uno spicciolo».
Nelle scorse settimane le cronache giornalistiche, riguardanti l'ennesima riforma della scuola, hanno abusato spesso della parola rivoluzione, di carta almeno per il momento. Lei sostanzia una rifondazione possibile del patto educativo. «Chi spezza er pane dell'istruzione», per dirla alla Kenan?
«È vero: se riuscissimo a rifondare il patto educativo, avremmo fatto la vera rivoluzione. Cosa significa in concreto? Ci sono una serie di passaggi che, nell'Italia di oggi, assomigliano a cerchi di fuoco: ridare entusiasmo ai docenti, fiducia ai genitori, nuovi stimoli agli studenti. Si dice spesso che mancano i soldi. Ma per spezzare il pane dell’istruzione bisogna prima accendere le passioni».

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