domenica 23 novembre 2014

C'erano bei cani ma molto seri: storia di mio fratello Giovanni Spampinato

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 20,
23 novembre 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Giovanni Spampinato non era un abusivo, seppure il tesserino di pubblicista l'abbiano consegnato solo ai familiari, una volta morto ammazzato. Amava il mestiere, osservandone la regola fondamentale: scrivere una notizia, quando è tale, senza l'autocensura propria dei calcoli d'opportunità. «Assassinato perché cercava la verità», titolò L'Ora. Il fratello Alberto inizia da una vecchia fotografia a raccontare la storia dolorosa della famiglia, che ha cercato di sopravvivere alla tragedia. C'erano bei cani ma molto seri (Melampo, 276 pagine, 15 euro) è qualcosa di più della cronaca della fine, quasi annunciata, di un giovane cronista in una città di provincia, apparentemente ai confini dell'impero.

L'ALTRO GIORNALE
Il memoriale sviluppa tre tracce fondamentali. Innanzitutto ritroviamo il senso dell'avventura editoriale del quotidiano pomeridiano palermitano, animato da un gruppo di giornalisti non riconducibili a poteri particolari. «Giovanni restò incantato da quella redazione che viveva una stagione speciale. Il suo sogno fu di trasferirsi a Palermo per lavorare con quei matti che si divertivano a fare un giornale di denuncia duro come una roccia», ricorda Alberto.

LA SOLITUDINE
Un desiderio che si impose pezzo su pezzo dopo gli studi universitari. Un cammino solitario, cominciato nel 1969, da collaboratore di frontiera, isolato e privo di tutele economiche quanto di coperture redazionali. Figlio di un partigiano, poi divenuto militante attivo del Pci, mantenne quella matrice politica, sapendo però rifuggire l'ortodossia dell'adesione acritica. Aveva puntato tutto sul giornalismo, Giovanni. Lottava affinché si avverasse quel sogno. Dotato di una scrittura fluida e brillante, batteva veloce i polpastrelli sui tasti della Valentina rosso fuoco. Le sue corrispondenze squarciarono il velo della commistione politico affaristica, propria delle mafie, a Ragusa e non solo dove si coagularono personaggi e miasmi dell'eversione fascista.

SICILIA NERA
«Il grande tema con il quale il cronista fu chiamato a confrontarsi fu quello del fascismo che risorgeva intorno a lui. In tutta la Sicilia, e in gran parte del Mezzogiorno, il fascismo era rimasto endemico. Di faccende più serie riguardanti ai fascisti cominciò a occuparsi dopo la strage di Piazza Fontana, chiedendosi se ci fosse un disegno unico che collegava la strage di Milano e gli strani movimenti dei circoli fascisti siciliani», sostiene Alberto. Un cadavere eccellente scosse Ragusa, appena destatasi dall'illusione petrolifera. La divulgazione della notizia dei pesanti sospetti degli investigatori su Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale ragusano, nell'ambito delle indagini inerenti l'omicidio del costruttore Angelo Tumino, legato a missini di stretto raccordo con Junio Valerio Borghese, segnò lo spartiacque dell'esistenza di Spampinato.

Volle accendere una luce su un'inchiesta mica male insabbiata e un palese conflitto di interessi. Firmò sull'Ora: «Le indagini a quattro mesi dal delitto sono al punto di partenza. Sembra impossibile che la macchina della giustizia, altre volte così efficiente, si sia inceppata in questo caso. Ad accrescere gli interrogativi è poi la delicata situazione in cui è venuto a trovarsi Roberto Campria, figlio di Salvatore, presidente del Tribunale e oggetto di una relazione della Commissione parlamentare antimafia, all'inizio interrogato per chiarire circostanze poco comprensibili», e che sono rimaste misteriose. Lo fece con la propria penna coraggiosa, fino a pagarne l'estrema conseguenza. Il 27 ottobre 1972 venne crivellato di colpi di pistola dallo stesso giovane Campria.

MEMORIA
Sappiamo bene quanto fatichino i familiari delle vittime della mafia, come gli Spampinato, a esternare pubblicamente vicende e ferite che spesso in assenza di giustizia scivolano nell'oblio. A volte possono servire anche decenni per rompere il silenzio luttuoso. Almeno citare con costanza ad alta voce i loro nomi e cognomi è un esercizio di civiltà necessario.


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