Il frutto che era proibito raccogliere si trovava sull'Albero della Conoscenza. Il significato è che tutte le sofferenze sono dovute al tuo desiderio di capire com'è che vanno le cose. Saresti potuto rimanere nel Giardino dell'Eden se solo avessi tenuto chiusa la tua fottuta bocca e non avessi fatto alcuna domanda.
Frank Zappa - Playboy, 2 maggio 1993
L’INTERVISTA
Il padre di Simon
Critchley, un lattoniere, sognava per il figlio un posto di lavoro
sicuro in fabbrica, in quella terra desolata che era il sobborgo
proletario di Letchworth Garden City, trenta miglia a nord di Londra.
Ha scoperto un filosofo, oggi docente presso la New School for Social
Research di New York, che si è avvicinato alla materia a causa di un
brutto incidente nell'azienda farmaceutica dove era impiegato.
Tornato sui banchi di scuola ventenne, ha poi intrapreso una rapida e
brillante carriera accademica dall'Università di Essex.
Mondadori
pubblica ora Come smettere di vivere e iniziare a
preoccuparsi(132 pagine, 12 euro). Un saggio intervista con il
collega Carl Cederström, nel quale Critchley intreccia il vissuto
personale con la propria riflessione filosofica. «Sì, non è possibile separare lo
spirito della filosofia dal corpo del filosofo. La filosofia era un
modo di vivere e i filosofi oggetti stessi di studio. Nel mio caso la
vita si confonde completamente con l'opera. Per molti professori
rappresenta invece una forma di protezione spesso fittizia. Io
prediligo l'esposizione e il rischio che questo linguaggio mette a
disposizione», dice. Ha tenuto una lectio
magistralis, «Il pericolo delle certezze», nell'ambito del Festival
delle scienze presso l'Auditorium Parco della musica.
In un'epoca in
cui anche la distinzione tra paura e angoscia sembra svanire e si
coagula su scala globale in una grande inquietudine forse sarebbe
utile recuperare una lezione dei filosofi antichi riassumibile nel
smetti di preoccuparti e inizia a vivere. Lei invece,
ribaltando il titolo di un manuale di auto-aiuto, indica la strada
opposta?
«Nel 1948, quel primo libro del genere ebbe un successo
incredibile: l'autore dava consigli per una vita felice. Oggi
definirei quella del benessere una maschera ideologica. È vero siamo
impauriti da moltissime minacce, ma evitiamo accuratamente di capire
fino in fondo le cose. Sfuggiamo dall'analisi delle ragioni della
paura».
L'attentato terroristico a Charlie Hebdo ha acceso un
dibattito sull'eventuale limite della satira. Lei ha dedicato un
ampio lavoro allo humour, asserendo che la cosa più difficile da
comprendere in una società è la sua struttura umoristica. In quale
delle categorie in cui articola lo humour rientra il giornale
satirico parigino?
«È una domanda molto difficile. Parlerò
della pericolosità delle certezze e della presunta superiorità di
alcune verità, da quella religiosa a quella politica o razziale. Ciò
può permettere di giustificare qualsiasi tipo di azione e
d'intolleranza verso gli altri. La certezza di possedere la verità
assoluta è spesso basata sull'ignoranza, che è un viatico alla
manipolazione. Gli assassini di Charlie Hebdo probabilmente avevano
una propria certezza, che li ha spinti a un'azione violenta
intollerabile. Mi dispiace che la stampa anglosassone in larga parte
non abbia ripreso quelle vignette. La satira non ha limiti e nel loro
humour non ho mai intravisto cattiveria. Quando inizi a proibire
qualcosa, poi non sai dove fermarti. E rilevo però una certa
ipocrisia occidentale sulla promozione a cadenza alternata della
libertà d'espressione». Il mondo si caratterizza sempre più
dalla disuguaglianza. Ritorna l'attualità di Rousseau, a cui lei
sovente si rifà.
«Credo che il Discorso sull'ineguaglianza di
Rousseau sia il più rilevante dell'era moderna. Racconta la storia
dell'essere umano nei termini della crescita della disuguaglianza,
che culmina in uno stato di guerra. Oggi la disparità fra ricchi e
poveri sta aumentando. Il problema è capire quanta ne possiamo
sopportare. Non vogliamo e sappiamo più rispondere a questa domanda:
quanta disuguaglianza è legittima?» Se come sostiene la
filosofia è una pratica finalizzata alla messa in discussione
dell'attuale status-quo socio-politico, il filosofo mantiene il
dovere di produrre crisi, intesa come una trasformazione decisiva
della vita sociale?
«Per come intendo la filosofia, è
un'attività che tenta di destabilizzare certezze acquisite. Socrate
induceva alla crisi il proprio interlocutore, lo induceva a porsi
delle domande. Ciò che pensavano fosse vero in realtà non lo era.
La crisi propriamente intesa è un'esperienza di responsabilità,
richiede di assumere una scelta. Il filosofo dovrebbe stimolare
questa attitudine. L'effetto che la filosofia può produrre è
emancipatorio a livello individuale ma anche collettivo. Nel mito
della caverna di Platone l'uomo liberato dalla conoscenza torna nella
grotta per liberare anche gli altri».
Sugli spalti della palestra della
Daniel High School sedevano meno di novanta spettatori, quando il
dodicenne Pete Maravich iniziò a mettere in scena il proprio
destino. Non fu un contropiede banale. In campo aperto la palla
viaggiò al ritmo di una vita che avrebbe riscritto le regole del
gioco. Calcolò l'infinitesimale frazione di tempo esatta per
scagliare un passaggio da dietro la schiena che, dopo aver beffato la
fessura fra le gambe del difensore, si concretizzò in un appoggio
morbido al tabellone del compagno.
Toni Kukoc si domandava se non
fosse meglio ammirare da fuori Dražen Petrović, anziché distrarsi
dallo spettacolo correndo al suo fianco. Donna Sibenka, che generò
il Mozart di Sebenico, si emoziona, mentre ricorda i risvegli
all'alba del figlio per lunghissime, solitarie sedute di allenamento.
Danny Ainge, che l'affrontò nell'esibizione di lusso Jugoslavia -
Boston Celtics (torneo targato McDonald's, dicembre 1988), ha
ragione: «È un atleta esaltante. Posso compararlo soltanto al mio
idolo Pistol Pete. Ho incrociato la mia strada con quella
di Larry Bird. Conosciamo Michael Jordan. Ma nessuno è stato in
grado di concepire le magie del giocatore più puro, Maravich». Il
Muro di Berlino doveva ancora crollare, portando con sé la
disgregazione balcanica. Era quasi estate a Zagabria. Le
individualità della generazione d'oro dell'ultima Jugo, forgiata da
Dušan Ivković, divennero corpo e anima della squadra campione
d'Europa, e poi mondiale. Lo showtime non era una prerogativa
americana. Vlade Divac, Dino Radja e Dražen Petrović lo
illustrarono al mondo.
L'altra sponda dell'Atlantico non
era mai stata così vicina. «È lunga la strada da Belgrado a
Hollywood. L'America è la terra delle opportunità anche per questo
pivot jugoslavo», disse il giornalista Craig Sager, qualche
settimana dopo la consacrazione continentale a proposito dell'approdo
di Divac ai Lakers. Agli albori del Novecento Vajo Maravich e Sarah
Radulovich coprirono invece, come milioni di altri europei, la
medesima distanza per la sopravvivenza. Partirono dal villaggio serbo
di Drežnica direzione Pennsylvania, dove la vorace industria
dell'acciaio e le miniere richiedevano masse di lavoratori
instancabili.
Abitarono in una baracca ad
Aliquippa, sobborgo industriale di Pittsburgh, che dalla collina
s'affacciava sull'acciaieria. Il cielo, color arancio, dipinto dalle
polveri sbuffate dalle ciminiere. Vajo non ancora quarantenne morì
sulla via del loro progresso, vittima di un terribile incidente in
fabbrica. A causa di un'epidemia influenzale devastante, dei dieci
figli dati alla luce ne sopravvisse uno. Chiamarono Press l'energico
Petar Maravich: un visionario, fra i padri rivoluzionari della
meraviglia ideata da James Naismith. Non ne voleva sapere di suonare
il banjo. Sbarcava il lunario come strillone: «Pittsburgh Press,
Pittsburgh Press!», urlava. Convinse il presbitero ortodosso ad
appendere un canestro sull'albero antistante la chiesa di riferimento
dell'enclave di migranti. Fu nient'altro che il prologo della storia
di una passione infantile, che si trasformò in emancipazione.
Il basket gli avrebbe consentito
l'accesso altrimenti precluso al college. La guerra, servendo da
aviatore l'esercito americano sullo scenario del Pacifico, gli
sottrasse però gli anni della vigoria fisica. S'aprì un varco da
maestro - allenatore innovativo. Teorizzò il moderno sistema di
scouting dei cestisti con una pubblicazione scientifica sul tema. Il
suo staff per il reclutamento contava già su uno psicologo e sul
dietologo. «La componente decisiva del talento è il desiderio. Sono
l'uomo del contropiede. Mi aspetto che Clemson mostri una
pallacanestro interessante, capace di attirare la gente», spiegò.
Quelle idee si sarebbero dovute incarnare nel figlio maschio, Pete
Maravich.
Il 22 giugno 1947, in una stanza del
Jewickley Valley Hospital, la giovane moglie Helena, sulla quale
torneremo più avanti, partorì un essere speciale, che per tutta
l'esistenza ricercò la felicità. «Milioni di persone s'interrogano
sul senso profondo di un obiettivo. Sono fra loro. Con i trofei, i
soldi e la fama non ho mai trovato la pace con la mia essenza». Un
po' come quella volta a Houston quando, dopo aver messo a referto 35
punti all'intervallo, Pete mandò in subbuglio tutti con la minaccia
di non rientrare sul parquet. «Che cosa sto facendo qui?», arringò
sovente davanti alle ipocrisie del gran carrozzone che lo stressava.
È l'amata Jackie a riportarlo con i piedi sulla terra. Jackie che a
notte fonda lo recuperava nei bar, dove con il fratello Ronnie
scolavano bottiglie fino all'ultima goccia. Uno per distrarre l'ombra
dei vuoti, l'altro, un reduce, per esteriorizzare l'orrore del
Vietnam.
Dopo un dissidio in culla (lui voleva
la trombetta, il padre gli diede un pallone) le due vite corsero in
parallelo con frizioni fisiologiche per quell'ossessione. In età
prescolare gli fece respirare l'aria dello spogliatoio e della
palestra, dove palleggiare e dribblare ostacoli per giornate intere.
La fantasia caratterizzò il metodo di allenamento
dell'anticonformista Press. Il quaderno Homework
Basketball conteneva quarantaquattro esercizi, quarantaquattro
figure da creare con l'arancia in mano: ogni particella del talento
di Pete andava coltivata con un'estenuante applicazione quotidiana.
Al più vincente dei coach della
vecchia scuola, e non solo, non piacevano le invenzioni del
ragazzino. «Qualunque fra i miei giocatori si azzarda a pensare un
passaggio dietro la schiena, o immagini di schiacciare, si accomoda
in panchina. Non intendo vedere quella roba», ammoniva John Wooden.
«Lo sai, insegnandogli queste stravaganze, lo rovinerai. Sono
principi contrari alla disciplina», così Wooden criticava
l'ambizione dell'amico Press, verso cui però nutriva stima sincera.
«Aspetta e vedrai. Sarà un professionista milionario», la
risposta. Qualche anno dopo Red Auerbach sentenzierà: «Molti atleti
sovvertono le leggi della gravità. Pete ruppe quelle della fisica».
L'America della segregazione razziale
non contagiò Press, che mai deviò dai propri obiettivi. Negli anni
Cinquanta, quando allenò all'High school (Aliquippa, Baldwin) la
maggioranza degli atleti a cui impartire i fondamentali aveva la
pelle nera. Li preferiva, poiché interpretavano l'utopia di una
pallacanestro intensa che abbandonava la staticità. Il 28 agosto
1963 il reverendo King pronunciò la frase I have a dream. Giù,
al Sud, nel 1966 si accese un bagliore di luce alla prestigiosa
università di Vanderbilt. Immatricolarono Perry Wallace: il primo
cestista afroamericano nella Southeastern Conference. Sfidò
l'ostilità nei ginnasi del profondo sud per un trattamento
egualitario nel campus, fino all'elezione quale studente più
rappresentativo.
Al Civil Rights Act del 1964, l'NCAA
reagì con la messa al bando delle schiacciate. Un tentativo vano di
arginare il fiume in piena: l'epoca della modestia atletica di Bill
Bradley della bianca Princeton era al tramonto. L'ultimo canestro
della carriera al college del pioniere Wallace fu proprio una
schiacciata liberatoria. Nel 1966 coach Don Haskins con un quintetto
di afroamericani trascinò Texas Western Miners al trionfo nella
finale NCAA contro i quotati “Wildcats” di Kentucky. Imporranno
la rotta: «Eravamo la miglior difesa opposta all'attacco più
prolifico. E prevalemmo. Il successo contribuì a velocizzare i tempi
dell'integrazione scolastica senza barriere. Ciò mi inorgoglisce»,
dice Haskins. Press, durante la presentazione alla stampa in veste di
capo allenatore, annunciò la volontà di arruolare, per gettare le
fondamenta del nuovo progetto di Louisiana State University, diversi
prospetti senza badare alla pelle. A stretto giro giunse la smentita
del rettore: «È stato evidentemente frainteso».
Louisiana State University vendeva non
più di quaranta abbonamenti per la stagione dei canestri.
L'intuizione di Jim Corbett, direttore della divisione sportiva
universitaria, fu lungimirante. Press Maravich, che a Clemson pur di
compiere un salto di qualità professionale accettò un ingaggio da
96 dollari al mese, era intenzionato a monetizzare l'esperienza a
North Carolina State nell'ACC, dove raccolse il testimone dall'icona
Everett Case. Ma soprattutto intendeva riunire la famiglia, allenando
direttamente il figlio ormai maggiorenne. LSU, monopolizzata dalla
passione per il football, aveva già pianificato la costruzione di
una nuova arena. Corbett accontentò le richieste esose (quinquennale
al doppio dell'ingaggio di NC) a una condizione: Pete, di cui si
parlava già molto, sarebbe dovuto divenire il perno del progetto.
All'esordio Pete portò gli abbonamenti a quota quattromila.
Nell'estate del 1966 i Maravich si
stabilirono dunque a Baton Rouge. Dopo una stagione interlocutoria
per questioni d'anagrafe, nel 1967-'68 Pete si presentò con 48 punti
nella retina di Tampa. «Lasciatelo tirare», ripeteva Press. Nei tre
anni a Louisiana State combinerà ciò che su un campo di basket non
si era mai visto. Era veloce. Fosse mano destra o sinistra maneggiava
con assoluta padronanza la palla. L'impatto più eclatante che si
ricordi in questo sport. Fece registrare il tutto esaurito in
qualunque campo, mille autografi a sera da evadere. Dalle sneakers ai
floppy socks si distingueva nell'abbigliamento. Un pomeriggio
sprovvisto dei calzettoni, che diverranno una moda, li rubò
dall'armadietto del compagno Bob Sandorf. Erano ampi, tanto da
mitigare l'aspetto di quei piedi così lunghi, e poi divennero un
fattore psicologico.
Resiste il suo record di 3667 punti
(44.2 la media a serata nel triennio LSU); 28 partite oltre i 50.
Solo Oscar Robertson e Larry Bird segneranno almeno 900 punti in
ciascuna delle tre annate NCAA. Curiosità: l'8% dei tiri sarebbero
stati da 3 punti (l'arco non era stato delineato). Quando gli
avversari frustrati passavano alle cattive maniere, come nella caccia
all'uomo di Oregon State, lui era perfetto dalla lunetta: 30 su 31
nell'occasione. Il 21 febbraio 1970, contro Kentucky, lo showtime
penetrò nell'immaginario collettivo grazie alla trasmissione
televisiva.
Per capire qualcosa di Maravich forse
dobbiamo partire dalla fine. Dall'autopsia effettuata in seguito
all'infarto che lo uccise a Pasadena nel 1988, all'età di quaranta
anni. Il dottor Joseph H. Choi rivelò che l'arteria sinistra di un
cuore apparentemente sano non si era mai formata, per colpa di una
rarissima malformazione congenita complessa da diagnosticare. Nel dna
dei Maravich è inscritto il dolore, quanto la capacità di reazione.
L'organismo di Pete rispose alla malformazione vascolare, costituendo
dall'arteria coronarica destra dei circoli collaterali
particolarmente resistenti per il nutrimento e l'ossigenazione
dell'area. Una neoangiogenesi in grado di sostenere incredibilmente
vent'anni di sforzo fisico al livello massimo. In due occasioni gli
riscontrarono delle anomalie cardiache. Evitò ulteriori indagini
strumentali: lui e il gioco erano indivisibili.
Non sappiamo quanta gioia animasse la
rincorsa alla perfezione tecnica ed estetica del gesto. La
pallacanestro era un atto di esistenza e resistenza: «Smettere è
stato come disintossicarsi dall'eroina». Il manifesto politico del
ragazzo era chiaro: osare per inventare ciò che l'establishment
politico sportivo allora temeva. Gliela fecero pagare con
un'ingenerosa esclusione dalla squadra olimpica. I puristi
impazzivano fin dal riscaldamento, quando li scherniva con gli
appunti dello showtime. L'altra politica, i palazzinari e le
televisioni fiutarono l'affare della prima rock star in canotta e
calzoncini. Il presidente Nixon, in piena crisi di consenso
soprattutto fra i giovani, si sperticò in elogi per la Great
Hope bianca. Il governatore della Louisiana John McKeithen si
scoprì tifoso fervente. E le pratiche burocratiche per la
costruzione di un impianto in grado di soddisfare la Maravich mania
viaggiarono su corsie preferenziali.
«Nei quattro anni trascorsi
all'Università della Georgia ho assistito a una partita. Non ne
capisco nulla, ma se c'è un'opportunità, voglio quel Pete», disse
il proprietario Tom Cousins al management degli Atlanta Hawks. Per
l'immobiliarista l'auditorium municipale, classe 1906, era un reperto
archeologico, quanto insoddisfacenti gli ottomila posti a sedere del
Georgia Tech's Alexander Memorial Coliseum. Acquistò la squadra con
un cantiere pronto a brulicare. Alla Cousins Properties Inc.
l'amministrazione cittadina assegnò l'appalto da diciassette milioni
di dollari per un'arena da oltre sedicimila posti. Come per
l'Assembly Center di LSU e l'immenso Superdome di New Orleans, dove
ritroveremo l'autostrada politica McKeithen, a riempirli di tifosi ci
avrebbe pensato la star.
Ad Atlanta, terza scelta nel Draft Nba
1970, spiegò a coach Richie Guerin che era qualcosa di più di un
«good business». Guerin avrebbe voluto piuttosto un centro
dominante, di quelli che non vendono i biglietti, ma vincono i
campionati. Appena ventitreenne si avverò la profezia di Press. Pete
firmò il contratto (quinquennale da 1.5 milioni di dollari
complessivi) sportivo professionistico più ricco dell'epoca. Dai
produttori di calzini a quelli di gelati se lo contesero per gli spot
pubblicitari. Pete rappresentò un investimento a lungo e breve
termine: nell'anno da rookie i ricavi della franchigia schizzarono
del 50%. L'emittente ABC, che nel 1971 quadruplicò il valore
dell'accordo (17 milioni di dollari) sui diritti di trasmissione
dell'Nba, si fiondò sul giovane fenomeno con un assegno da 75mila
dollari per l'esclusiva del debutto con gli Hawks. La crescita del
movimento era ormai intrinsecamente dipendente dall'evento
televisivo. Dal 1965 al 1970, mentre l'Aba indebitata affogava, le
squadre Nba aumentarono da 9 a 17.
Alla Daniel High School i compagni di
tre, quattro anni più grandi lo tenevano ai margini. Quando gli
regalò due vittorie con altrettanti canestri allo scadere,
cambiarono opinione. Agli Hawks la situazione si ripropose. Stavolta
il problema era razziale: come inserirlo, con uno stile così fuori
regime, negli equilibri di una squadra all black con due stelle già
rodate? Assaggiò tanta panchina: «Senza la palla le mani si
raffreddano». Archiviò comunque l'annata da debuttante con 23 punti
di media, 33 nell'ultimo mese.
Quattro anni dopo fu oggetto di uno
scambio con New Orleans, landa inospitale per lo sport business:
pochi spettatori e non appetibile per il mercato televisivo. Lì
anche Pistol Pete suonò il jazz. Tanto quanto Petrović il suo
movimento era musicale. Come al college eseguì uno spartito
sconosciuto ai più: il faro in formazioni prive dell'adeguato cast
di supporto. «Datemi Jabbar o Baylor. Qua manca la materia umana per
vincere. Mi ferisce stare dal lato scuro della storia», incalzò il
front office Jazz. «Onestamente, ora, che cosa importa in quale
squadra militi o se vinca o perda Maravich? Lui si esibisce. È la
ventunesima franchigia dell'Nba», chiosò il giornalista Curry
Kirkpatrick.
Lo definirono un talento perdente e
individualista. Oppure Peter Pan. Pat Riley e Jerry Colangelo,
personaggi tutt'oggi influenti, lo bocciarono senza appello. L'ex
Lakers: «Lo considero la star più sopravvalutata. Qualsiasi guardia
dell'Nba lo manderebbe a prendere con una limousine all'aeroporto per
affrontare la sua difesa morbida». Il secondo: «L'eccentricità
nella gestione della palla distrae i compagni. È un attentato
all'unità della squadra». Ci vengono in soccorso le statistiche Nba
del perdente: 15.948 punti (24.2 di media), miglior marcatore nel
1976-'77 (31.1 a uscita, i Knicks rammentano i 68 del 25 febbraio
1977), davanti a Michael Jordan e Allen Iverson nella percentuale di
vittorie consegnate alla propria squadra mettendo nel cesto più di
40 punti. «Julius Erving è il più creativo. Con lui tutto è
semplice. Devo disegnare un piccolo arcobaleno, e lo intuisce».
Erving contraccambia: «Pete? Genius». Agli Hawks dialogarono col
linguaggio comune ai fuoriclasse solo qualche settimana per beghe
contrattuali e pastoie burocratiche avverse. Con Doctor J avrebbe
zittito le penne avvelenate? Ai Jazz diede in solitudine il secondo
miglior record vittorie/sconfitte per una franchigia esordiente,
sopportando il macigno della morte della madre. Helena Gavor si sparò
in testa. Da anni il sorriso della bella cheerleader, figlia di
operai serbi, che nella primavera del 1946 ad Aliquippa incontrò
Press al Bill Green's Nightclub per poi sposarlo, era sfumato nella
depressione e nell'alcool.
Il nome Maravich di per sé nobilitava
l'impresa del padrone dei New Orleans Sam Battistone, titolare di una
catena di fast food. I tifosi ululavano “French fries, French
fries” al Superdome. Qualora i Jazz avessero raggiunto i 100 punti,
il tagliando d'ingresso si sarebbe tramutato in uno sconto valido per
il burger king. Immaginiamo lo sguardo e il conflitto interiore del
vegetariano e poi vegano Pete, che accusò l'industria alimentare
statunitense di essere la principale causa di malattia della
popolazione. Sul web si può leggere la copia del contratto siglato
il 19 dicembre 1975 con la Pepsi-Cola (Gulf South Beverages, Inc).
Diecimila dollari per associare quella capigliatura rassicurante, da
Beatles, al soft drink. Poi non lo rinnovò: «Le bevande gassate e
zuccherate sono dannose per i bambini».
Sports Illustrated, che il 4 marzo 1968
lo promosse in copertina (Lsu's Pistol Pete – The Hottest shot),
dieci anni dopo (4 dicembre 1978) intonò il de profundis: «Per
coloro che misurano il trascorrere del tempo con le icone della
cultura pop, è difficile realizzare che Pete Maravich, quello dei
floppy socks, dei tiri e dei passaggi oltraggiosi, l'uomo dei record,
della gioia, colui che ha reso il basket divertentissimo per molti di
noi, ha ormai compiuto trent'anni. E non si diverte più». Un grave
incidente al ginocchio destro, per uno con quel primo passo e con
quei cambi direzione, fa la differenza. Come nei bilanci dei Jazz che
per l'infortunio registrarono un calo drastico dell'affluenza di
tifosi.
Red Auerbach, che il senso per la
vittoria lo ebbe sempre ben presente, lo volle ai Celtics per la
coppia da sogno con l'astro nascente Larry Bird. Il 22 gennaio 1980
Pete ammise: «Da dieci anni provavo ad arrivare qui». Coach Fitch
in quintetto gli preferì però Chris Ford. Maravich non può partire
dalla panchina. Dopo i playoff le scarpette rimasero nello
spogliatoio. Rinunciò all'agognato titolo e si congedò
laconicamente dalla compagnia per telefono: «Ho tirato una volta di
troppo a canestro, Red». Ritiratosi dall'agonismo si affidò alla
fede, svelando a Jackie di aver udito la voce di Gesù Cristo: «Sii
forte e innalza il tuo cuore». Numerose biografie (la prima
addirittura stampata nel 1969) si sono soffermate sulla depressione,
tradita dagli occhi, e sull'abuso di alcool. In campo, la sua patria
vera, era il sole e obbediva a un istinto vitale. Lontano da esso
spesso prevalse il buio. Dall'High School all'Nba l'amarono per la
sfrontata coerenza di essere con il proprio stile la voce contro,
dentro al sistema. Press, stroncato dal cancro, non riuscì
per poche settimane ad assistere all'ingresso del figlio nella
Basketball Hall of Fame. Correva l'anno 1987. “Sweet-Lou” Hudson,
a chi vinceva i campionati, sussurrava: «Tranquillo, non sarai mai
abbastanza bravo quanto me». Da star designata degli Hawks convisse
con lo scomodo ragazzo prodigio. Poi nella vita, oltre al jump shot,
è riuscito anche in altro: nel 1993 è il primo afroamericano eletto
nello Stato di Utah. Attingendo alla propria profonda umanità, forse
è lui ad aver trovato le parole giuste: «Non è mai sembrato facile
essere Pete Maravich».
«La fantasia è un ponte che riesce a
collegare l'irrealtà con la realtà. Ti consente di esteriorizzare
sentimenti e idee. È una visione del mondo, che sfugge
all'osservatore che vi è troppo immerso per riuscire a percepirne le
sfumature. Ricordo di aver iniziato a intuire le infinite possibilità
della scrittura fantastica dalle prime pagine de Le notti bianche di
Dostoevskij», dice il giovanissimo Filippo Torrini.
All'età di otto anni si è cimentato
con racconti brevi. A dodici ha mandato un manoscritto all'editore
Polistampa, che decise di investire sul primo episodio del fantasy La
Porta dei misteri - La Leggenda. Con oltre cinquemila copie vendute è
divenuto un piccolo caso editoriale. Da qualche giorno, il
quindicenne fiorentino è di nuovo in libreria con un volume (La
Porta dei Misteri - I colori della Magia e Ai confini del bene,
Polistampa, 360 pagine, 18 euro) che completa la trilogia.
Torrini evade mediante la scrittura
dalle sicurezze della bellissima casa in cui abita, immersa nel
verde, che mira dall'alto la cattedrale Santa Maria del Fiore.
Nell'avventura di un gruppo di amici, che devono salvare la Terra da
un disastro incombente, riconsidera la plastica contrapposizione
bene/male. «La storia è un'occasione per costruire e raccontare il
mio punto di vista adolescenziale sulla vita - spiega -. Frey con i
propri compagni propone un'idea di futuro del mondo, le cui sorti
dipendono dalla capacità della mia generazione di prendersene cura». Si misura con l'ombra della solitudine,
immedesimandosi nel personaggio principale, Frey (diminutivo di
Ferrante, secondo nome dell'autore). «La solitudine è il suo grande
nemico - sottolinea -. Uno stato d'animo che avverto molto diffuso
tra i miei coetanei. Alimentiamo l'illusione di essere uniti tramite
i mezzi di comunicazione e socializzazione, per renderci poi conto
che non è così vero. La condizione della solitudine è connaturata
all'essere umano, ma non l'individualismo imperante». Riscopre il
valore dell'amicizia e della solidarietà, che da piccoli gesti
origina orizzonti di senso con una potenza fuori dalle norme.
Tenendo presente l'età, la scrittura è
audace, onesta e mostra un bagaglio di creatività ricco. Nel testo
rintracciamo molteplici riferimenti (da Platone ai 25 lettori di
Manzoni con atmosfere del Piccolo Principe), che testimoniano letture
importanti già sedimentate. È interessante il legame di un nativo
digitale, consumatore accanito di videogames, con l'oggetto libro
cartaceo e la scuola novecentesca, lavagna e gessetto. «Il libro
mantiene un fascino incredibile - aggiunge -. L'aspetto ha qualcosa
di magico: soltanto a vederlo sembra già un'avventura. Colpisce una
persona nel profondo come poche altre cose. Siamo sempre più
proiettati verso l'immagine. La rappresentazione del reale si ferma
però alla superficie. Il libro riesce ad arrivare dove le immagini
non possono. La scuola? Ci lascia troppo poco tempo, però schiude
universi inesplorati e segna l'evoluzione del linguaggio».
La novità e promessa Torrini
s'inserisce in un quadro di interesse crescente verso il fantasy.
Benché nella storia della letteratura italiana si rinvengano tracce
caratteristiche del genere (pensiamo a come Rustichello da Pisa ne Il
Milione adattò le narrazioni di Marco Polo, all'Orlando innamorato e
all'Orlando furioso, alla fiaba barocca, al Pinocchio di Collodi fino
alla trilogia I nostri antenati di Calvino), non si è mai radicato
nella nostra matrice culturale. Il successo è dovuto
all'importazione, anche tardiva, e ai vasi comunicanti con cinema (le
trasposizioni di Peter Jackson, Harry Potter, Hunger Games),
televisione (Il trono di spade) e del ludico. Solo nel 1970 il
fantasy moderno irruppe in Italia con l'editore Rusconi, che pubblicò
il primo romanzo della trilogia Il signore degli anelli.
«È indubbio che i lettori
preferiscano gli autori stranieri - spiegano dalla casa editrice
specializzata Asengard -. Ciò rende ancora più difficile promuovere
nel panorama editoriale autori del nostro Paese. Questo spiega anche
lo squilibrio tra titoli italiani e tradotti. Ma i nostri lettori
sanno riconoscere un talento. La difficoltà sta nel trovarlo». La
romana Licia Troisi, classe 1980, regina del fantasy nostrano nella
scuderia Mondadori, è l'eccezione. Con le avventure dell'eroina
Nihal ha venduto tre milioni di copie in venti Paesi. Il saggio Difendere la Terra di Mezzo(Odoya, 275 pagine, 18 euro), niente a che spartire con il Mondo di
mezzo fasciomafioso emerso dalle intercettazioni di Carminati,
suggerisce spunti significativi di riflessione sullo stato dell'arte
e sull'eredità tolkieniana. «Molto del fantasy che vende, anche in
Italia, è fatto di narrazioni abbastanza convenzionali - evidenzia
l'autore Wu Ming 4 (all'anagrafe Federico Guglielmi) -. Gli editori e
gli autori non si pongono il problema di fare uscire il fantasy dalla
nicchia e trattarlo per quello che è o dovrebbe essere, cioè
letteratura. Tendono piuttosto a dare a un certo tipo di lettori
quello che vogliono. Di conseguenza lo standard tende a livellarsi
verso il basso e a dare ragione ai critici snob».
Il fantasy in Italia sconta anche
l'appropriazione simbolica e la strumentalizzazione politica
dell'opera di Tolkien, cominciata nel cuore degli anni Settanta.
«L'estrema destra italiana prese a leggere Tolkien in chiave
ideologica, mentre i critici letterari e gli studiosi rimanevano a
guardare perché non consideravano Tolkien degno di nota. La verità
è che Tolkien è sempre stato letto da milioni di persone, dei più
svariati orientamenti politico-culturali. Il racconto tolkieniano
affronta alcuni temi universali, come fa la grande letteratura: la
morte, la scoperta di sé, il coraggio, l'amicizia, il potere.
Declina quei temi all'interno del proprio tempo, confrontandoli con
le grandi questioni etiche ed estetiche della contemporaneità»,
conclude.