di Gabriele Santoro
Gerardo Chiaromonte era colpito
dall'ossessione antimafia di La Torre. Dal consiglio comunale
all'Assemblea regionale fino al parlamento nazionale, dove venne
eletto nel 1972, fu la prerogativa del suo agire. L'antimafia, non
quella delle parole e delle targhe commemorative, era l'unico metodo
per schiudere un orizzonte di progresso al paese: senza una sconfitta
complessiva della cultura mafiosa il resto è sforzo vano. Comprese,
studiando, le evoluzioni del fenomeno: la mafia agricola, quella
della città cementificata, il narcotraffico. La mafia
dell'accumulazione capitalistica, resa sempre più potente dai ricavi
del traffico della droga, ormai indicava i propri interlocutori
istituzionali.
La Torre ammirava molto le qualità
investigative e l'umanità del capo di una vera squadra mobile, che a
Palermo di questo si occupò. Stimava l'acutezza delle analisi e
delle indagini di Giorgio Boris Giuliano, che giungevano fin dentro
alle banche. Giuliano, appassionato di pallacanestro, chiese di
essere trasferito a Palermo, indignato dall'efferatezza della strage
di Ciaculli. Specializzatosi all'Accademia dell'Fbi, a Quantico,
aveva esperienza internazionale. Leggeva molto, anch'egli con il dono
della curiosità. Mappò il territorio con i pedinamenti estenuanti
dei suoi uomini sulla strada senza ausili tecnologici. Senza computer
creò un vasto archivio, formidabile, per schedare le famiglie
mafiose, risalire ad alleanze e ostilità. Giuliano si mise in testa
di risolvere i casi Francese e De Mauro. Lo freddarono il 21 luglio
1979, dieci giorni dopo Giorgio Ambrosoli. Se terrorismo e mafia si
scambiano le tecniche è una testimonianza lucida, che La Torre
articolò sulle pagine di Rinascita il 16 novembre 1979.
«(...) Emerge in maniera
impressionante una estensione e un salto di qualità sia nel
terrorismo politico, sia nell'attività della criminalità
organizzata. Non commetteremo l'errore di appiattire l'analisi dei
vari fenomeni riconducendoli ad uno schema unico. La criminalità
organizzata sta compiendo un salto di qualità molto preoccupante
perché ormai comincia chiaramente a mutuare sistemi, metodi, e anche
taluni obiettivi del terrorismo politico. Accade così che le
modalità di un omicidio mafioso seguano quelle caratteristiche del
terrorismo politico e viceversa».
Giuliano con le proprie intuizioni
seppe configurare lo scenario delle cointeressenze che superavano i
confini isolani. Le strade conducono a Sindona, oggetto di numerose
denunce di La Torre, alla P2 e alla mafia siculo americana. La Torre
vedeva nella presenza dell'anticomunista Sindona in Sicilia
nell'estate del 1979, il momento di raccordo tra la mafia siciliana,
il mondo economico-finanziario e la mafia americana: «È provato che
Sindona si trovava a Palermo nei giorni in cui veniva organizzato e
attuato l'assassinio di Cesare Terranova e pochi mesi dopo si
verificava l'assassinio di Piersanti Mattarella. I gangster siculo
americani, che hanno accompagnato Sindona in Sicilia, hanno affermato
che essi dovevano compiere una missione politica di stampo
anticomunista».
L'estate del '69 è segnata
dall'ingresso di La Torre a Botteghe Oscure, chiamato a Roma alla
Commissione meridionale come vice di Amendola. Il partito fornì una
casa in Via Panisperna. A Pio piaceva la Capitale, seppure non fosse
uomo da salotti o da cenacoli per intellettuali.
«(...) Qualcuno della direzione del
partito un giorno mi disse: “È un uomo rozzo”. E io mi incazzai.
E dovendo discutere dell'ammissione in sezione di uno che era operaio
dissi: “Ammettiamolo, benché operaio”. Di Pio non ho capito la
sua intelligenza. Io non l'avevo capito quell'uomo. L'ho stimato,
apprezzato, ma non l'avevo capito. Un'occasione persa di cui
pentirsi», dice Andrea Camilleri in un passo illuminante della
prefazione del libro Chi ha ucciso Pio La Torre?
Alla sua morte nell'unico conto
corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire. Al
costume pubblico corrispondeva quello privato. Così bloccò la
possibile assunzione del figlio al Formez, Centro studi della Cassa
del Mezzogiorno. Enrico Berlinguer, che nell'isola non aveva
avamposti elettorali, lo volle nella segreteria con Napolitano,
Chiaromonte, Minucci e Natta, apprezzandone la lungimiranza e la
praticità. La Torre non era uomo da sconti. Lo estromisero dalla
Direzione. Si era opposto al prestito miliardario del Banco
Ambrosiano, che avrebbe dovuto salvare Paese Sera dal crack.
Pressò il partito quando sottostimava
e declassava a fatto di periferia l'intelligenza della violenza
mafiosa. Appartenne alla destra del partito, vicino a Giorgio
Napolitano, ma non fu uomo condizionabile dalle correnti. Lo schema
destra-sinistra nel suo caso non funziona. «Quando doveva gridare,
gridava anche col capo, anche perché non aveva bisogno di adulare
per potersi fare avanti, perché è andato avanti con la sua onestà,
il suo coraggio, la sua asprezza anche», ricorda Girolamo Scaturro
nel libro di interviste curato da Giovanni Burgio.
E si distinse dalla concezione
paternalistica del fenomeno mafioso come frutto avvelenato della
miseria. La Torre non si stancò mai di classificarlo quale un
fenomeno di classi dirigenti, delle indicibili alleanze
transnazionali col mondo della finanza e della politica: «La
compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un
incontro, che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti
(mafia e potere politico). I membri della mafia rappresentano una
sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui
interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento
dei fatti con aspetti dell'attività della mafia stessa».
L'antimafia doveva dunque essere una questione economica, politica,
sociale e culturale; un aspetto della più generale battaglia di
risanamento democratico della società italiana.
Nel 1979 il Pci organizzò la prima
conferenza sulla mafia. Un convegno importante al quale prese parte
Rocco Chinnici. Il quadro legislativo antimafia palesava la propria
inadeguatezza. La legge 31/5/1965 n. 565, che prevedeva il soggiorno
obbligato dei criminali fuori dalle rispettive aree d'influenza, si
rivelò controproducente, allargando il contagio mafioso. La legge
22/5/1975 n. 152, che all'articolo 22 ingiungeva la sospensione
provvisoria dalla amministrazione di beni illecitamente accumulati,
rimase inapplicata per la difficoltà di accertare le situazioni
patrimoniali.
Alla fine di quell'anno tragico La
Torre confidò all'amico giornalista Alfonso Madeo di avere in mente
una legge, che rendesse reato la sola appartenenza a un'associazione
a delinquere di stampo mafioso, consentisse indagini patrimoniali e
l'obbligatoria confisca dei beni riconducibili agli illeciti
perpetrati. Dagli atti di un convegno internazionale, svoltosi a
Messina nell'ottobre 1981, le parole dello stesso Chinnici danno il
senso del grave ritardo, dell'insufficienza dell'articolo 416:
«(...) Non ignoriamo le difficoltà
che insorgono ogni qualvolta si tenta di dar vita al delitto di
associazione di tipo mafioso, come nuova o diversa ipotesi delittuosa
rispetto all'associazione per delinquere prevista dal codice; poiché,
però, la mafia esiste come realtà criminosa e criminogena, non può
il legislatore non prenderne atto e creare una nuova figura di reato.
La mafia è una realtà assai complessa, una associazione sempre e
comunque più pericolosa dell'associazione per delinquere prevista
dall'art. 416. Associazione strapotente, destabilizzante, con campo
di azione in tutto il territorio della Nazione con collegamenti
all'estero, non vediamo come la stessa possa ancora oggi essere
considerata alla stregua di una qualsiasi e comune associazione per
delinquere. È difficile rendersi conto del perché di tale
incongruenza.
L'insuccesso nella lotta contro le
associazioni mafiose va ricercato nella inadeguatezza dello strumento
legislativo. La mafia ha mutuato metodi propri del terrorismo di
diversa matrice. Si deve stabilire che la mafia non solo è
associazione per delinquere, ma associazione certamente più
pericolosa e diversa da quella prevista dall'art. 416 CP e che
pertanto, essendo di per sé per la sua sola esistenza un pericolo
per la collettività, deve essere colpita con apposita norma
sanzionatoria, anche indipendentemente dalla prova diretta che gli
associati mafiosi abbiano specificatamente programmato crimini. La
proposta che intendiamo formulare è di introdurre nella nostra
legislazione penale la figura autonoma del reato di associazione
mafiosa».
In quell'occasione Chinnici fece
intravedere l'istituzione dell'Agenzia nazionale per
l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalità organizzata, che oggi ancora arranca. All'epoca
immaginò che i beni confiscati non potessero essere venduti o
affidati a privati professionisti, in qualche maniera influenzabili,
ma gestiti per esempio dall'Avvocatura dello Stato.
Nel frattempo, il 31 marzo 1980, Pio La
Torre aveva già depositato alla Camera insieme ad altri firmatari la
proposta di legge numero 1581, Norme di prevenzione e repressione del
fenomeno mafioso e costituzione di una commissione parlamentare
permanente di vigilanza e controllo.
Quella che diverrà il primo serio
strumento di lotta contro la mafia. Nell'esperienza di La Torre la
separazione dei poteri statuali è stata sempre ben evidente, però i
poteri distinti dovevano parlarsi. In nome di ciò costruì un
dialogo produttivo con la magistratura più illuminata.
Per la stesura tecnica consultò due giovani magistrati della Procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si resero disponibili a fornire le proprie competenze al fine di redigere un progetto di legge efficace. Il legame nell'interesse generale con Chinnici fu stretto. Tante idee in comune (pool antimafia, banca dati, etc), urgenze, lo sgomento proprio dell'onestà e la solitudine. A Palermo La Torre lavorò con lui per migliorare la norma sul sequestro dei beni ai mafiosi e su quello che diverrà nel codice penale, sull'onda emotiva dell'omicidio di Dalla Chiesa, la fattispecie di reato riconosciuta e descritta dall'articolo 416 bis:
Per la stesura tecnica consultò due giovani magistrati della Procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si resero disponibili a fornire le proprie competenze al fine di redigere un progetto di legge efficace. Il legame nell'interesse generale con Chinnici fu stretto. Tante idee in comune (pool antimafia, banca dati, etc), urgenze, lo sgomento proprio dell'onestà e la solitudine. A Palermo La Torre lavorò con lui per migliorare la norma sul sequestro dei beni ai mafiosi e su quello che diverrà nel codice penale, sull'onda emotiva dell'omicidio di Dalla Chiesa, la fattispecie di reato riconosciuta e descritta dall'articolo 416 bis:
«(...) L'associazione è di tipo
mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri».
Già la prima fase dell'impegno
parlamentare di La Torre si era caratterizzata dalla vivace
partecipazione ai lavori della Commissione Antimafia. Istituita nel
1962, e rimasta in carica per quattordici anni, partorì un rapporto
finale deludente. Di quella inchiesta sopravvive una mole di
documenti significativi e la Relazione di minoranza che, come
evidenziato in precedenza, ripercorre i legami tra mafia e politica,
in particolare nella Dc, e porta anche la firma del deputato Cesare
Terranova.
«La mafia non può esistere dove la
giustizia per tutti è conquista, è costume, è coscienza
collettiva», sosteneva il magistrato che trascorse due legislature
in Parlamento. Nella sua ottica per dare un apporto concreto alla
lotta contro la mafia, era indispensabile ripristinare la fiducia
nelle istituzioni, cominciando dall'allontanamento dai posti di
potere di coloro che siano stati in qualche misura compromessi o
invischiati con la mafia.
Uomo cordiale e colto, ottimo giocatore
di bridge, che comunista non era. Alle elezioni del 7 maggio 1971, su
invito di Emanuele Macaluso, si candidò e venne eletto come
indipendente di sinistra nelle liste Pci. Un borghese intellettuale,
in rivolta contro la concezione clientelare e mafiosesca del potere,
alla quale non si rassegnava. In un'intervista all'Ora, sette mesi
dopo l'elezione, esternò il disincanto romano: «(...) Il primo
contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Avevo la
sgradevole sensazione dell'inutilità. Un'impressione iniziale
deludente che si prolunga sulla Commissione. Mi aspettavo un ritmo di
lavoro piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione
funziona da ben nove anni, ma non può dirsi che abbia se non in
piccola parte corrisposto all'attesa dei cittadini. Si procede in
modo dispersivo».
Venticinquenne, nell'aprile del 1946,
era entrato in magistratura appena ritornato dalla guerra e dalla
prigionia. Assegnato dal 1958 al Tribunale di Palermo presso
l'ufficio dell'istruzione penale. Dal 1963 con lui un autista
speciale, il maresciallo cosentino Lenin Mancuso: «(...) L'onestà
in uno scambio comunicativo lo unì al giudice Terranova, suo grande
amico e modello di operato sociale sempre per fini di giustizia. Per
nostro padre il Giudice divenne presto un mito e lo colmò di
un'ammirazione non comune», nel ricordo della famiglia Mancuso. Nel
1971 il trasferimento alla Procura della Repubblica a Marsala. Istruì
con lavoro metodico i primi processi di mafia, dai “corleonesi”
alla strage di Via Lazio, ricostruendone la struttura organica. Fece
processare e condannare all'ergastolo Luciano Liggio, latitante fino
al 1974, per associazione a delinquere e per l'assassinio di Michele
Navarra. «Paura? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono
ammazzare. Sì, lo so che Liggio ce l'ha con me. È una vecchia
storia: risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene
responsabile esclusivo della sua fine. E in effetti è così»,
dichiarò a Il Giornale di Sicilia.
Rifuggiva l'etichetta di eroe. Renato
Guttuso riecheggiò l'amore del giudice per la vita, le sue passioni
per Tamerlano e Gengis Khan, lo spirito eroico che metteva nelle
azioni più piccole. In un'intervista a Diario, pochi giorni
prima di essere ammazzato, Terranova preconizzò: «(...) La più
grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli
appalti. L'appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c'è dietro.
L'argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni
futuri». Lo uccisero il 25 settembre 1979, una volta lasciato il
Parlamento, prima che potesse indossare ancora la toga all'Ufficio
istruzione di Palermo. Si delineò come un vero e proprio omicidio
preventivo, affinché non riversasse sulle indagini l'imponente
documentazione e conoscenza sull'intreccio di collusioni maturata
durante l'attività in Commissione.
«È certo comunque che si presenta ai
nostri occhi un fenomeno nuovo che ha il carattere di una azione
terroristica vera e propria e che porta lo stesso marchio in tutti e
due i casi (Terranova e Giuliano). C'è poi un altro collegamento fra
i due delitti, ed è rappresentato dal sempre saldo nesso fra mafia e
potere politico. Nel caso di Boris Giuliano, il vicequestore stava
indagando sulle incredibili fortune finanziarie di certi personaggi
politici democristiani e sugli intrecci fra costoro e l'affare
Sindona. (…) Qui intendo sottolineare che gli assassinii di Reina,
Giuliano e Terranova hanno tutti e tre una matrice politica. Bisogna
quindi cercare di individuare il gruppo politico mafioso che sta
portando avanti quello che si configura come un vero e proprio
disegno terroristico», La Torre a Il Mondo (26 ottobre 1979)
Berlinguer lo soprannominò un
“siciliano all'estero”. La Torre da Roma non smise di seguire le
vicende del partito a Palermo. Dopo l'impetuosa crescita, sancita
dalla tornata elettorale del 1976 (dall'11% al 21% nell'isola), in
Sicilia come nella Capitale si percepì la stanchezza dello slancio
che aveva consentito al partito di ottenere il massimo storico. Dal
'79, quando alle politiche nel capoluogo il Pci ottenne il 16,86% dei
voti mentre la Dc toccò il 47,91%, all'81 il Pci registrò numerose
flessioni.
Pio sentì l'urgenza di tornare sul
campo nella sua terra all'apice della violenza terroristica mafiosa.
«Ero anche consapevole del fatto che mio padre avesse valutato il
rischio e lo avesse ritenuto accettabile, in nome dell'obiettivo che
voleva raggiungere. Non considerava il suo un atto di eroismo, ma una
scelta politica, rispondente alla sua natura, perché questo era il
suo modo di dare un senso alla sua vita», scrive Franco. Pio volle
solo la scorta politica del partito e si ritrovò Rosario Di Salvo,
amico e militante coraggioso, che condivise il martirio.