martedì 14 luglio 2015

«La mafia non può esistere, dove la giustizia per tutti è conquista, è coscienza collettiva»


di Gabriele Santoro

Gerardo Chiaromonte era colpito dall'ossessione antimafia di La Torre. Dal consiglio comunale all'Assemblea regionale fino al parlamento nazionale, dove venne eletto nel 1972, fu la prerogativa del suo agire. L'antimafia, non quella delle parole e delle targhe commemorative, era l'unico metodo per schiudere un orizzonte di progresso al paese: senza una sconfitta complessiva della cultura mafiosa il resto è sforzo vano. Comprese, studiando, le evoluzioni del fenomeno: la mafia agricola, quella della città cementificata, il narcotraffico. La mafia dell'accumulazione capitalistica, resa sempre più potente dai ricavi del traffico della droga, ormai indicava i propri interlocutori istituzionali.

La Torre ammirava molto le qualità investigative e l'umanità del capo di una vera squadra mobile, che a Palermo di questo si occupò. Stimava l'acutezza delle analisi e delle indagini di Giorgio Boris Giuliano, che giungevano fin dentro alle banche. Giuliano, appassionato di pallacanestro, chiese di essere trasferito a Palermo, indignato dall'efferatezza della strage di Ciaculli. Specializzatosi all'Accademia dell'Fbi, a Quantico, aveva esperienza internazionale. Leggeva molto, anch'egli con il dono della curiosità. Mappò il territorio con i pedinamenti estenuanti dei suoi uomini sulla strada senza ausili tecnologici. Senza computer creò un vasto archivio, formidabile, per schedare le famiglie mafiose, risalire ad alleanze e ostilità. Giuliano si mise in testa di risolvere i casi Francese e De Mauro. Lo freddarono il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo Giorgio Ambrosoli. Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche è una testimonianza lucida, che La Torre articolò sulle pagine di Rinascita il 16 novembre 1979.

«(...) Emerge in maniera impressionante una estensione e un salto di qualità sia nel terrorismo politico, sia nell'attività della criminalità organizzata. Non commetteremo l'errore di appiattire l'analisi dei vari fenomeni riconducendoli ad uno schema unico. La criminalità organizzata sta compiendo un salto di qualità molto preoccupante perché ormai comincia chiaramente a mutuare sistemi, metodi, e anche taluni obiettivi del terrorismo politico. Accade così che le modalità di un omicidio mafioso seguano quelle caratteristiche del terrorismo politico e viceversa».

Giuliano con le proprie intuizioni seppe configurare lo scenario delle cointeressenze che superavano i confini isolani. Le strade conducono a Sindona, oggetto di numerose denunce di La Torre, alla P2 e alla mafia siculo americana. La Torre vedeva nella presenza dell'anticomunista Sindona in Sicilia nell'estate del 1979, il momento di raccordo tra la mafia siciliana, il mondo economico-finanziario e la mafia americana: «È provato che Sindona si trovava a Palermo nei giorni in cui veniva organizzato e attuato l'assassinio di Cesare Terranova e pochi mesi dopo si verificava l'assassinio di Piersanti Mattarella. I gangster siculo americani, che hanno accompagnato Sindona in Sicilia, hanno affermato che essi dovevano compiere una missione politica di stampo anticomunista».

L'estate del '69 è segnata dall'ingresso di La Torre a Botteghe Oscure, chiamato a Roma alla Commissione meridionale come vice di Amendola. Il partito fornì una casa in Via Panisperna. A Pio piaceva la Capitale, seppure non fosse uomo da salotti o da cenacoli per intellettuali.

«(...) Qualcuno della direzione del partito un giorno mi disse: “È un uomo rozzo”. E io mi incazzai. E dovendo discutere dell'ammissione in sezione di uno che era operaio dissi: “Ammettiamolo, benché operaio”. Di Pio non ho capito la sua intelligenza. Io non l'avevo capito quell'uomo. L'ho stimato, apprezzato, ma non l'avevo capito. Un'occasione persa di cui pentirsi», dice Andrea Camilleri in un passo illuminante della prefazione del libro Chi ha ucciso Pio La Torre?

Alla sua morte nell'unico conto corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire. Al costume pubblico corrispondeva quello privato. Così bloccò la possibile assunzione del figlio al Formez, Centro studi della Cassa del Mezzogiorno. Enrico Berlinguer, che nell'isola non aveva avamposti elettorali, lo volle nella segreteria con Napolitano, Chiaromonte, Minucci e Natta, apprezzandone la lungimiranza e la praticità. La Torre non era uomo da sconti. Lo estromisero dalla Direzione. Si era opposto al prestito miliardario del Banco Ambrosiano, che avrebbe dovuto salvare Paese Sera dal crack.

Pressò il partito quando sottostimava e declassava a fatto di periferia l'intelligenza della violenza mafiosa. Appartenne alla destra del partito, vicino a Giorgio Napolitano, ma non fu uomo condizionabile dalle correnti. Lo schema destra-sinistra nel suo caso non funziona. «Quando doveva gridare, gridava anche col capo, anche perché non aveva bisogno di adulare per potersi fare avanti, perché è andato avanti con la sua onestà, il suo coraggio, la sua asprezza anche», ricorda Girolamo Scaturro nel libro di interviste curato da Giovanni Burgio.

E si distinse dalla concezione paternalistica del fenomeno mafioso come frutto avvelenato della miseria. La Torre non si stancò mai di classificarlo quale un fenomeno di classi dirigenti, delle indicibili alleanze transnazionali col mondo della finanza e della politica: «La compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro, che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). I membri della mafia rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento dei fatti con aspetti dell'attività della mafia stessa». L'antimafia doveva dunque essere una questione economica, politica, sociale e culturale; un aspetto della più generale battaglia di risanamento democratico della società italiana.

Nel 1979 il Pci organizzò la prima conferenza sulla mafia. Un convegno importante al quale prese parte Rocco Chinnici. Il quadro legislativo antimafia palesava la propria inadeguatezza. La legge 31/5/1965 n. 565, che prevedeva il soggiorno obbligato dei criminali fuori dalle rispettive aree d'influenza, si rivelò controproducente, allargando il contagio mafioso. La legge 22/5/1975 n. 152, che all'articolo 22 ingiungeva la sospensione provvisoria dalla amministrazione di beni illecitamente accumulati, rimase inapplicata per la difficoltà di accertare le situazioni patrimoniali.

Alla fine di quell'anno tragico La Torre confidò all'amico giornalista Alfonso Madeo di avere in mente una legge, che rendesse reato la sola appartenenza a un'associazione a delinquere di stampo mafioso, consentisse indagini patrimoniali e l'obbligatoria confisca dei beni riconducibili agli illeciti perpetrati. Dagli atti di un convegno internazionale, svoltosi a Messina nell'ottobre 1981, le parole dello stesso Chinnici danno il senso del grave ritardo, dell'insufficienza dell'articolo 416:

«(...) Non ignoriamo le difficoltà che insorgono ogni qualvolta si tenta di dar vita al delitto di associazione di tipo mafioso, come nuova o diversa ipotesi delittuosa rispetto all'associazione per delinquere prevista dal codice; poiché, però, la mafia esiste come realtà criminosa e criminogena, non può il legislatore non prenderne atto e creare una nuova figura di reato. La mafia è una realtà assai complessa, una associazione sempre e comunque più pericolosa dell'associazione per delinquere prevista dall'art. 416. Associazione strapotente, destabilizzante, con campo di azione in tutto il territorio della Nazione con collegamenti all'estero, non vediamo come la stessa possa ancora oggi essere considerata alla stregua di una qualsiasi e comune associazione per delinquere. È difficile rendersi conto del perché di tale incongruenza.

L'insuccesso nella lotta contro le associazioni mafiose va ricercato nella inadeguatezza dello strumento legislativo. La mafia ha mutuato metodi propri del terrorismo di diversa matrice. Si deve stabilire che la mafia non solo è associazione per delinquere, ma associazione certamente più pericolosa e diversa da quella prevista dall'art. 416 CP e che pertanto, essendo di per sé per la sua sola esistenza un pericolo per la collettività, deve essere colpita con apposita norma sanzionatoria, anche indipendentemente dalla prova diretta che gli associati mafiosi abbiano specificatamente programmato crimini. La proposta che intendiamo formulare è di introdurre nella nostra legislazione penale la figura autonoma del reato di associazione mafiosa».

In quell'occasione Chinnici fece intravedere l'istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che oggi ancora arranca. All'epoca immaginò che i beni confiscati non potessero essere venduti o affidati a privati professionisti, in qualche maniera influenzabili, ma gestiti per esempio dall'Avvocatura dello Stato.

Nel frattempo, il 31 marzo 1980, Pio La Torre aveva già depositato alla Camera insieme ad altri firmatari la proposta di legge numero 1581, Norme di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso e costituzione di una commissione parlamentare permanente di vigilanza e controllo.
Quella che diverrà il primo serio strumento di lotta contro la mafia. Nell'esperienza di La Torre la separazione dei poteri statuali è stata sempre ben evidente, però i poteri distinti dovevano parlarsi. In nome di ciò costruì un dialogo produttivo con la magistratura più illuminata.

Per la stesura tecnica consultò due giovani magistrati della Procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si resero disponibili a fornire le proprie competenze al fine di redigere un progetto di legge efficace. Il legame nell'interesse generale con Chinnici fu stretto. Tante idee in comune (pool antimafia, banca dati, etc), urgenze, lo sgomento proprio dell'onestà e la solitudine. A Palermo La Torre lavorò con lui per migliorare la norma sul sequestro dei beni ai mafiosi e su quello che diverrà nel codice penale, sull'onda emotiva dell'omicidio di Dalla Chiesa, la fattispecie di reato riconosciuta e descritta dall'articolo 416 bis:

«(...) L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».


Già la prima fase dell'impegno parlamentare di La Torre si era caratterizzata dalla vivace partecipazione ai lavori della Commissione Antimafia. Istituita nel 1962, e rimasta in carica per quattordici anni, partorì un rapporto finale deludente. Di quella inchiesta sopravvive una mole di documenti significativi e la Relazione di minoranza che, come evidenziato in precedenza, ripercorre i legami tra mafia e politica, in particolare nella Dc, e porta anche la firma del deputato Cesare Terranova.

«La mafia non può esistere dove la giustizia per tutti è conquista, è costume, è coscienza collettiva», sosteneva il magistrato che trascorse due legislature in Parlamento. Nella sua ottica per dare un apporto concreto alla lotta contro la mafia, era indispensabile ripristinare la fiducia nelle istituzioni, cominciando dall'allontanamento dai posti di potere di coloro che siano stati in qualche misura compromessi o invischiati con la mafia.

Uomo cordiale e colto, ottimo giocatore di bridge, che comunista non era. Alle elezioni del 7 maggio 1971, su invito di Emanuele Macaluso, si candidò e venne eletto come indipendente di sinistra nelle liste Pci. Un borghese intellettuale, in rivolta contro la concezione clientelare e mafiosesca del potere, alla quale non si rassegnava. In un'intervista all'Ora, sette mesi dopo l'elezione, esternò il disincanto romano: «(...) Il primo contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Avevo la sgradevole sensazione dell'inutilità. Un'impressione iniziale deludente che si prolunga sulla Commissione. Mi aspettavo un ritmo di lavoro piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione funziona da ben nove anni, ma non può dirsi che abbia se non in piccola parte corrisposto all'attesa dei cittadini. Si procede in modo dispersivo».

Venticinquenne, nell'aprile del 1946, era entrato in magistratura appena ritornato dalla guerra e dalla prigionia. Assegnato dal 1958 al Tribunale di Palermo presso l'ufficio dell'istruzione penale. Dal 1963 con lui un autista speciale, il maresciallo cosentino Lenin Mancuso: «(...) L'onestà in uno scambio comunicativo lo unì al giudice Terranova, suo grande amico e modello di operato sociale sempre per fini di giustizia. Per nostro padre il Giudice divenne presto un mito e lo colmò di un'ammirazione non comune», nel ricordo della famiglia Mancuso. Nel 1971 il trasferimento alla Procura della Repubblica a Marsala. Istruì con lavoro metodico i primi processi di mafia, dai “corleonesi” alla strage di Via Lazio, ricostruendone la struttura organica. Fece processare e condannare all'ergastolo Luciano Liggio, latitante fino al 1974, per associazione a delinquere e per l'assassinio di Michele Navarra. «Paura? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono ammazzare. Sì, lo so che Liggio ce l'ha con me. È una vecchia storia: risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene responsabile esclusivo della sua fine. E in effetti è così», dichiarò a Il Giornale di Sicilia.

Rifuggiva l'etichetta di eroe. Renato Guttuso riecheggiò l'amore del giudice per la vita, le sue passioni per Tamerlano e Gengis Khan, lo spirito eroico che metteva nelle azioni più piccole. In un'intervista a Diario, pochi giorni prima di essere ammazzato, Terranova preconizzò: «(...) La più grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli appalti. L'appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c'è dietro. L'argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni futuri». Lo uccisero il 25 settembre 1979, una volta lasciato il Parlamento, prima che potesse indossare ancora la toga all'Ufficio istruzione di Palermo. Si delineò come un vero e proprio omicidio preventivo, affinché non riversasse sulle indagini l'imponente documentazione e conoscenza sull'intreccio di collusioni maturata durante l'attività in Commissione.

«È certo comunque che si presenta ai nostri occhi un fenomeno nuovo che ha il carattere di una azione terroristica vera e propria e che porta lo stesso marchio in tutti e due i casi (Terranova e Giuliano). C'è poi un altro collegamento fra i due delitti, ed è rappresentato dal sempre saldo nesso fra mafia e potere politico. Nel caso di Boris Giuliano, il vicequestore stava indagando sulle incredibili fortune finanziarie di certi personaggi politici democristiani e sugli intrecci fra costoro e l'affare Sindona. (…) Qui intendo sottolineare che gli assassinii di Reina, Giuliano e Terranova hanno tutti e tre una matrice politica. Bisogna quindi cercare di individuare il gruppo politico mafioso che sta portando avanti quello che si configura come un vero e proprio disegno terroristico», La Torre a Il Mondo (26 ottobre 1979)

Berlinguer lo soprannominò un “siciliano all'estero”. La Torre da Roma non smise di seguire le vicende del partito a Palermo. Dopo l'impetuosa crescita, sancita dalla tornata elettorale del 1976 (dall'11% al 21% nell'isola), in Sicilia come nella Capitale si percepì la stanchezza dello slancio che aveva consentito al partito di ottenere il massimo storico. Dal '79, quando alle politiche nel capoluogo il Pci ottenne il 16,86% dei voti mentre la Dc toccò il 47,91%, all'81 il Pci registrò numerose flessioni.

Pio sentì l'urgenza di tornare sul campo nella sua terra all'apice della violenza terroristica mafiosa. «Ero anche consapevole del fatto che mio padre avesse valutato il rischio e lo avesse ritenuto accettabile, in nome dell'obiettivo che voleva raggiungere. Non considerava il suo un atto di eroismo, ma una scelta politica, rispondente alla sua natura, perché questo era il suo modo di dare un senso alla sua vita», scrive Franco. Pio volle solo la scorta politica del partito e si ritrovò Rosario Di Salvo, amico e militante coraggioso, che condivise il martirio.

venerdì 10 luglio 2015

«Palermo come Roma». Berlinguer, La Torre e il Compromesso storico


di Gabriele Santoro

In numerosi scritti e interviste, alcune delle quali selezionate da Franco nell'appendice del libro, La Torre offre la personale e composita valutazione della Democrazia cristiana. Nell'ambito del Seminario sulla Dc, tenutosi dal 7 all'11 maggio 1973, produsse uno sguardo d'insieme paradigmatico sui caratteri e sulle contraddizioni del partito che nel dopoguerra prese le redini del Paese. Ventidue pagine dattiloscritte che anticiparono di qualche mese le conseguenze politiche italiane del golpe cileno, che decretò la fine del governo di Unidad Popular del presidente Salvador Allende, e i tre articoli di Enrico Berlinguer pubblicati su Rinascita fra il 28 settembre e il 12 ottobre 1973. L'analisi di La Torre precorreva la dinamica del Compromesso storico, che in Sicilia si attuò prima che a Roma.

Già nel 1972 l'insediamento in segreteria regionale di Achille Occhetto inaugurò una nuova fase, che possiamo recuperare nei ragionamenti di La Torre. Nell'articolo Le sinistre di fronte alla crisi del Sud (Rinascita, 29 settembre 1972) diagnosticò il malessere, cavalcato dalla destra missina (alle Regionali del 13 giugno 1971 schizzò dal 6.55% al 16.33%; la Dc scese dal 40% al 33%), del sistema prosperato sulla discriminazione anticomunista e sulla dissennata spesa pubblica, la crisi dell'edilizia che aveva finanziato il blocco sociale e politico democristiano. Individuò nei piani regionali di sviluppo il terreno di aggregazione di un vasto schieramento di forze sociali disponibili a uno sbocco democratico dell'impasse italiana.

Evocativa una fotografia del 1974, che ritrae Berlinguer a fianco di La Torre, il quale sembra sussurrargli qualcosa. La scattarono durante la Conferenza economica per lo sviluppo della Sicilia, in previsione del “Progetto Sicilia”, che divenne la base programmatica a sostegno della politica delle larghe intese. Il preludio a maggioranze di governo che comprendessero il Pci. Nel dicembre 1974 durante i lavori di preparazione del XIV Congresso del Pci, La Torre nel dibattito sulla relazione di Berlinguer:

«(...) In questa situazione anche di fronte al traguardo delle elezioni regionali è necessario che il partito faccia uno sforzo per corrispondere sempre più concretamente al suo ruolo di portavoce degli interessi generali del paese. È anche così che daremo un contributo decisivo anche alla formazione di nuovi schieramenti di maggioranza all'interno della Dc che, battendo posizioni integraliste e antioperaie, permettano l'ulteriore sviluppo del processo unitario e quell'incontro fra le grandi componenti delle masse popolari italiane che abbiamo definito Compromesso storico».

Il Pci voleva distinguersi di fronte a vasti strati delle popolazioni meridionali come forza responsabile, come partito di governo. Il Pci spinse per l'unità delle forze autonomiste, che aveva l'obiettivo di superare il difficile momento a livello nazionale (nel '75 il Pil segnò - 2.1% e l'inflazione volò all'11%) e nella vita della Regione, mediante l'interlocuzione con la Dc. Una strategia che pagò con l'inversione di tendenza del 1975 e il balzo in avanti elettorale del 1976. In Sicilia l'attenzione democristiana per la proposta comunista si materializzò nel 1974 con la segreteria di Rosario Nicoletti, leader di una minoranza che guardava a sinistra, oltre il Psi. Due accordi legislativi segnarono l'avvicinamento: il «Piano regionale di interventi per il periodo 1975-1980» e il «Programma di fine legislatura», approvato il 20 novembre del 1975.

Piersanti Mattarella, che nel 1971 aveva assunto la carica di assessore al bilancio, ricoperta poi per sette anni, era elemento proattivo nell'intento di affermare una nuova linea politica meridionalistica, che non poteva prescindere da una Democrazia cristiana diversa. Tre le priorità: smantellare il metodo dell'intervento speciale; attuare il decentramento delle funzioni regionali agli enti locali; salvare il partito dal degrado (congressi illegali, tesseramento falso, atti di sopruso continui) documentato dal Libro bianco del 17 novembre 1970, firmato tra gli altri da Reina, Nicoletti e inviato a Roma. «Rivolta contro Gioia nella Dc, si chiede alla Direzione di sciogliere gli organi locali», titolò L'Ora. Sulla questione comunista seguì in modo organico l'orma del proprio maestro, Aldo Moro, accogliendo la richiesta di ascolto delle istanze del Pci e si accostò alle posizioni di Nicoletti. La Torre ne La questione comunista e la Sicilia (L'Ora, 20 settembre 1974) sottolineò la preparazione, l'intelligenza e le aperture di Mattarella, nonché gli ostacoli:

«(...) Per uscire dalla crisi data la sua estrema gravità e profondità si impone una energica azione di risanamento e di vita nazionale. Tutti ormai riconoscono (ecco un punto acquisito nel dibattito) che a tale azione di risanamento e rinnovamento debbono contribuire tutte le forze che si riconoscono nel patto costituzionale. L'onorevole Mattarella per esempio è d'accordo fino a questo punto. Il dissenso nasce quando si tratta di precisare cosa si intende per contribuire e sui modi di contribuire. Ma noi non intendiamo affatto appiattire la dialettica facendo sparire i confini tra maggioranza e opposizione. Proponiamo di dare vita a una nuova più ampia e rappresentativa maggioranza a cui certamente si contrapporrebbe un altro schieramento di opposizione, di destra».

A Palermo nel 1970 era cambiato qualcosa anche nella Chiesa con l'ascesa di Salvatore Pappalardo, nominato cardinale nel marzo del 1973, inequivocabile nella condanna senza appello della mafia e delle sue propaggini. Nella relazione del maggio '73 sopracitata, La Dc e il Mezzogiorno, La Torre fece notare la contraddizione primigenia di un partito che, pur richiamandosi all'ispirazione popolare contadina sturziana, difese il clientelismo e il trasformismo del blocco agrario. Anch'essa, come gli articoli di Berlinguer, va collocata nella gravità del contesto internazionale, delle ingerenze convergenti dei due blocchi, e nel quadro dell'eversione stragista interna. A distanza di pochi giorni, il 17 maggio 1973, si consumò la strage alla Questura di Milano. E già nel 1971 l'omicidio del magistrato Pietro Scaglione fu sintomo del disequilibrio del sistema e della stagione di delitti eccellenti a venire.

Nelle parole di La Torre intorno alla riforma agraria si concretizzò il ricatto da destra. Analizzò i flussi elettorali democristiani, che nel Mezzogiorno si rigonfiavano quando l'occhio strizzava a destra, verso gli interessi dei ceti possidenti. Nella sua lettura restò poco del programma avanzato di riforme con cui la Dc si era presentata all'Assemblea Costituente. La direzione degasperiana si limitò a farsi garante della restaurazione capitalistica sotto l'ombrello statunitense e degli interessi della borghesia. Un passaggio che coincide nell'argomentazione berlingueriana dell'autunno '73:

«(...) Sappiamo bene che la politica di rottura dell'unità delle forze popolari e antifasciste perseguita dai gruppi conservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia cristiana – una politica che il paese ha pagato duramente – ha interrotto il processo di rinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a chiuderlo. Un esteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle coscienze a tutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi anni, ha ripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme nuove, certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si erano unite nella Resistenza. Il compito nostro essenziale – ed è un compito che può essere assolto – è dunque quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento e rinnovamento democratico dell'intera società e dello Stato la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. Solo questa linea e nessun'altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori e reazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile».

Al tramonto dell'era De Gasperi il clientelismo degli apparati pubblici, foraggiato dalla politica dell'intervento straordinario per fronteggiare l'arretratezza meridionale, soppiantò l'influenza dei vecchi notabili. La Torre riepilogò i numeri spaventosi della colossale e improduttiva spesa pubblica, dissipata dagli strumenti (dalla Cassa del Mezzogiorno in giù) atti a determinare la progressiva compenetrazione della Dc con l'apparato dello Stato. Alla Dc lanciò una sfida costruttiva per uscire dalla crisi, identificando nella matrice popolare democristiana l'opportunità di un dialogo senza cedimenti su un terreno costituzionale e antifascista. Alla Dc, che pretendeva ancora di essere l'unica architrave della democrazia italiana, chiesero di rimediare alla negazione di quel processo di rinnovamento, che si sarebbe realizzato mediante l'incontro con le masse guidate dai comunisti e dai socialisti.

L'obiettivo era duplice: continuare a lavorare per mutare il rapporto di forza elettorale e al contempo condurre una battaglia politica per far prevalere certe posizioni dentro alla Dc. L'orizzonte di un La Torre guardingo non era un accordo di vertice, ma mettere insieme le basi popolari dei due partiti. Come gli riuscì poi a Comiso, un'alleanza trasversale avversa l'installazione dei 112 missili Cruise.

«(...) Dobbiamo operare perché all'interno della Dc si determinino schieramenti che tendano a isolare i gruppi collegati alle posizioni più retrive, per suscitare in quel partito una tensione antifascista. Noi diciamo che occorre determinare ed accelerare l'incontro, nel senso di partecipazione della componente comunista alla gestione del potere regionale nel Mezzogiorno, come esigenza vitale per la democrazia. Farsi carico della crisi e degli sbocchi a tutte le questioni aperte. Dichiariamo di volerlo fare con gli altri, con tutte le forze democratiche e antifasciste e perciò ricerchiamo l'intesa con la Dc. Per uscire dalla crisi crediamo che ci voglia la partecipazione delle forze democratiche della Dc. Occorre avere il convincimento che per portare avanti il processo di sviluppo della democrazia nel nostro Paese, per realizzare le trasformazioni sociali, per andare avanti sulla via italiana al socialismo, dobbiamo avere una grande componente cattolica e questa componente cattolica si traduce in forze decisive della Dc come partito politico», da La Dc e il Mezzogiorno.

(continua a leggere qui)

mercoledì 8 luglio 2015

Pio La Torre è stato una storia diversa


Pubblichiamo la prima parte di un lungo ritratto di Pio La Torre realizzato da Gabriele Santoro a partire dal libro Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia, scritto dal figlio Franco per Melampo.  

di Gabriele Santoro

«Due di maggio, bandiere al vento. Son morti due compagni, ne nascono altri cento», urlarono dal cuore del corteo. In fondo però sapevano anche loro che la morte violenta di Pio La Torre e Rosario Di Salvo non era una ferita suturabile. A Enrico Berlinguer, e soprattutto al Paese, il terrorismo politico mafioso, che ha dettato parte cospicua dell'agenda dei giorni nostri, aveva sottratto due uomini valorosi. «(...) Perché hanno ucciso La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo. Era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie alleanze con forze e uomini sani, democratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpivano nel segno», scandì il segretario del Partito Comunista Italiano durante l'orazione funebre.

Il 2 maggio 1982 a Palermo, in piazza Politeama, centomila persone tennero la rabbia, le lacrime e i pugni fuori dalle tasche. La Banda di Altofonte fece risuonare le note dell'Inno dei lavoratori e dell'Internazionale. La medesima colonna sonora del matrimonio con rito civile che, il 29 ottobre del 1949 al Municipio di Palermo, celebrò l'unione con Giuseppina Zacco. Sandro Pertini con la voce rotta dell'emozione accarezzò il viso di quella donna coraggiosa, sempre e per sempre al fianco di un uomo che amava la libertà. In quel giorno di lutto e di lotta, senza vessilli della Democrazia cristiana, sfilò anche Sergio Mattarella, futuro Presidente della Repubblica. Una fotografia ritrae una signora dei vicoli stretti. Sotto a un balcone con le lenzuola stese, s'inginocchia con le mani giunte e piange senza consolazione. Con il caschetto da lavoro in testa c'erano i minatori di Pasquasia. Issarono sulle spalle il feretro e scortarono i carri funebri. Fu sincera la commozione popolare per quelle due vite spese al solo fine della giustizia sociale.

Nell'agguato del 30 aprile del 1982 Franco La Torre perse il padre, non ancora cinquantacinquenne. Sceglie con cura le parole, quando lo rievoca, avvertendo il peso di un'eredità preziosa, al confine tra pubblico e privato. È la memoria diretta di una storia bella. Negli anni ha gestito e se possibile rieducato il dolore, i suoi segni, anche mediante l'impegno nell'associazione Libera. Dopo un tempo lungo e faticoso ha varcato la soglia di una riservatezza pudica, che accomuna migliaia di parenti delle vittime innocenti delle mafie, per scrivere Sulle ginocchia, Pio La Torre una storia (Melampo, 204 pagine, 15 euro). La narrazione si muove da uno scatto in bianco e in nero: il padre tiene in braccio il figlio. La prima immagine insieme. Appaiono felici e sorridenti all'inaugurazione di una sede del Pci. «Nella nostra casa palermitana mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe per raccontare storie concepite durante il periodo di studio alle Frattocchie. Di solito il protagonista, che aveva subito una prevaricazione o era stato vittima di un'ingiustizia, trovava conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere l'arroganza del più forte», annota.

La vicenda di Pio suggerisce una riflessione su almeno quattro temi di attualità stringente: la sorte dei corpi intermedi (su tutti partito e sindacato), sui quali lui confidò e ai quali affidò il riscatto dalla subalternità delle proprie origini umili; l'elaborazione politica che si fa corpo e non può prescindere dalla lotta; l'antimafia tradita e il principio di diversità del partito, che nella sua interpretazione equivaleva pure a guardarsi dentro con onestà. Il testo invita ad approfondire tre architravi dell'attività di La Torre: il movimento contadino, la sponda fra Roma e Palermo nella fase del Compromesso storico, il retaggio legislativo antimafia.

Il libro pone interrogativi al Partito Democratico, che rivendica l'appartenenza alla storia di La Torre. «(...) Riguardando indietro, lungo i trentatré anni che ci separano dall'omicidio, quella parte politica non ha fatto buon uso del lascito. Il Pci nelle sue evoluzioni è andato indebolendo il fattore genetico antimafia», ammonisce l'autore. Nella ricorrenza del trentesimo anniversario della morte i democratici si accontentarono dell'intitolazione della sala dibattiti all'ex Festa dell'Unità nazionale. «(...) Il motivo sono i soldi. Quest'anno il bilancio della festa è ridotto all'osso e non si farà niente di particolare, tranne i dibattiti. Pensa che non si farà neanche quanto era stato deciso di dedicare a Nilde Iotti, che a Reggio Emilia era nata!», risposero con aria desolata a Franco La Torre, che aveva stilato un programma di commemorazione e rilancio di un patrimonio ideale.

Un foglio conserva un ritratto, appassionato e ricco di sgrammaticature meravigliose, dal quale è giusto iniziare. Lo scrisse e lesse l'allora ottantenne Rosolino Cottone, qualcosa di più e diverso da una guardia del corpo di Li Causi e poi di La Torre. Il suo nome di battaglia sull'Appennino tosco-emiliano era Esempio, in quanto partigiano dalla condotta esemplare. Guidò la trentunesima Brigata Garibaldi, in prima fila all'ingresso a Parma, liberata. Poi fu un militante instancabile, della vecchia scuola, pilastro del Pci palermitano.

«(...) Con Pio abbiamo cresciuto insieme. Io gli andavo sempre dietro. Ero armato, certo, ma l'arma non me la vedevano mai. Con La Torre eravamo due fratelli. Lui era uguale a noi, era un combattente.

La cosa che più ricordo di lui quella mattina a Palermo, che lui non si meritava di morire. In che senso mi ricordo? Alle otto ero lì, ma che ne sapevamo che gli assassini erano già lì anche loro? Erano giù. In casa La Torre dice a Di Salvo: “Fai il caffè a Rosolino, che deve andarmi a fare delle commissioni”. Io ho preso il caffè e sono andato. Arrivo in Federazione verso le nove e mezzo e il portiere appena mi vede mi urla: “Cottone! Ammazzarono a La Torre e Di Salvo”. “Ma cosa dici?”, urlai io, ma corsi via come un dannato, la polizia cercò di bloccarmi, ma urlavo dalla rabbia e mi fecero passare e arrivai alla macchina tutta insanguinata.

Era un bravissimo compagno, duro e forte. Mi dice a me, eravamo a Comiso, la mattina del grande comizio. C'erano tanti contadini, tanti operai venuti a Comiso per il discorso di La Torre, erano più di cinquemila anche dai paesi attorno. Allora La Torre mi dice a me: “Comandante ma pecchè sono accussì poco?”, così mi parlava, e io gli faccio: “Scusa La Torre, sono più di cinquemila. Tu quanti ne vuoi?”, ci faccio a lui. Non si contentava mai, voleva sempre di più nella lotta popolare».

Pio La Torre, a proprio agio fra gli agrumeti, amava stropicciarsi le mani con le foglie di limone. Aveva un legame irrisolvibile con la terra e i suoi profumi. Finanche nelle espressioni e nella cadenza condensava la fatica della sua lavorazione. Non dimenticò mai le condizioni patite dai braccianti. Vincenzo Consolo lo definì l'orgoglio della Sicilia: «(...) Abbiamo citato le parole del principe di Salina per concludere ora che i veri nobili non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita per il rispetto della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino».

Angela Melucci, figlia di pastori e contadini lucani, cullò in grembo un seme fecondo e ribelle. Ad Altarello di Baida non c'è mai stato nulla di agevole. La luce elettrica illuminò la borgata solo nel 1935 e per l'acqua occorreva risalire alla fonte. La famiglia abitava un casolare spoglio e viveva di un'agricoltura di sussistenza. Si accorsero però presto che Pio, classe 1927, era un'altra storia. Impose al padre il proprio diritto allo studio, perché era certo che il destino di subalternità, con la schiena curvata su un appezzamento di terra scadente, non fosse ineluttabile. Cambiò il destino con la passione per lo studio e il dono della curiosità. Nella nota autobiografica, a margine della tesi La classe operaia e la questione siciliana, discussa il 25 ottobre 1954 a conclusione della scuola di partito, omaggiò così Angela: «(...) Mia madre era analfabeta e si pose il problema di istruire i figli facendo di ciò l'obiettivo primo della sua esistenza, sacrificata a questo scopo».

La sveglia suonava alle 4 per pulire la stalla, prima di recarsi a scuola. Ad Altarello era l'unico figlio di contadini ad accedere all'istruzione pubblica. Ripagò con la dedizione fino alla laurea in Scienze Politiche. Il fratello Filippo nelle lettere dal fronte si premurava: «(...) Pio sta studiando? Mamma, papà, mi raccomando non fatelo lavorare in campagna. Lui deve studiare. Il suo futuro sono i libri».

Dopo l'avviamento, promosso con il massimo dei voti, si iscrisse all'Istituto tecnico industriale Vittorio Emanuele III. «Nei primi anni a scuola riuscirono a inculcarmi gli ideali del fascismo. “Il fascismo darà al popolo la vera giustizia sociale”, dicevano. A sedici anni mi trovai in uno stato di disillusione». Ricercò un partito che “avesse per programma di trasformare la società”, di creare “una vera giustizia sociale”. Lì il fiore di campo germogliò la coscienza politica. Franco Scaglione, professore di lettere e filosofia, assistette alla scoperta, perché la sua arte dell'insegnamento era piena di idee. Antifascista e marxista assecondò la sua sete di conoscenza, aprendogli la biblioteca di casa. Lo sostenne nella doppia maturità: quella tecnica e quella scientifica da privatista.

«(...) La Torre partiva dalle cose per arrivare alle idee. Quindi l'esperienza di natura sociale è basilare nella sua formazione. Non era il tipo competitivo, era un tipo collaborativo. La sua intelligenza lo portava alla centralizzazione del nucleo problematico. E il problema non è individuale ma di classe. Partecipa alla realizzazione del piano educativo senza rinunciare mai alla propria originalità. La Torre resta sempre un logico, un ragazzo riflessivo fortemente impegnato nel suo rapporto con il reale. Si preoccupa soprattutto di osservare se gli uomini siano oppressi o in qualche modo alienati. È estraneo alla neutralità, all'indifferenza. Per lui la liberazione era un valore da realizzare e per il quale combattere», appuntò Scaglione.

(continua a leggere qui)