sabato 30 aprile 2016

Quando l'esilio è una scelta di vita, una conversazione con Dubravka Ugreŝić

Pagina 99, sezione Arti, pag. 39
30 aprile 2016

di Gabriele Santoro


http://www.minimaetmoralia.it/wp/leuropa-in-seppia-di-dubravka-ugresic/


lunedì 18 aprile 2016

«Le mafie non hanno diritto ad avere voce». Intervista a Nicola Gratteri


di Gabriele Santoro

Il magistrato Nicola Gratteri dice di commettere sempre lo stesso sbaglio a tavola: promettere di rinunciare ai peccati di gola prima di partire per l’Emilia Romagna. A Correggio dagli uomini della scorta torna indietro una portata di patate al forno, e lui non si fa pregare. Gerace dista cento chilometri da Catanzaro, e Gratteri non si trasferirà all’eventuale ratifica da parte del Plenum del Csm della nomina a Procuratore capo della nevralgica direzione distrettuale di Catanzaro, che cambia la geografia giudiziaria calabrese. Ama il profumo della sua campagna, il legame con la terra da coltivare e i frutti che essa genera da condividere con gli uomini, le famiglie della scorta che nelle ultime settimane si è alzata di livello.


Gratteri, come detto in corsa per la nomina a capo della Procura della Repubblica di Catanzaro, ha trascorso la vigilia di un passaggio professionale cruciale insieme ad Antonio Nicaso, l’amico di una vita. A Reggio Emilia, e dintorni, hanno animato la sesta edizione della rassegna Noi contro le mafie, patrocinata dalla Regione e dalla Provincia emiliana. Qui la domanda vetusta sulla presenza o meno della ‘ndrangheta, delle mafie, non è più all’ordine del giorno. Si è tenuta la prima udienza del maxi processo Aemilia, che vede coinvolti 147 imputati con la contestazione anche del reato di associazione di stampo mafioso, dentro all’aula speciale costruita nel cortile del tribunale di Reggio Emilia, considerata quale epicentro regionale del radicamento ‘ndranghetista.

Le aperture dei giornali locali, le locandine sono dedicate al possibile scioglimento per mafia del Comune di Brescello. Già martedì il Consiglio dei ministri potrebbe dare seguito alla relazione prefettizia concernente le infiltrazioni mafiose all’interno dell’apparato amministrativo.
Gratteri ha incontrato soprattutto i giovani, trasmettendo la consueta determinazione. I due sono stati i primi a denunciare l’assenza di anticorpi economici all’influenza del potere ‘ndranghetista anche nella terra dei Fratelli Cervi, permeabile al contagio mafioso. Minimizzare i costi, massimizzare i profitti con i servizi e la manodopera a basso costo offerti dalla ‘ndrangheta, un invito che alcuni imprenditori non hanno saputo respingere.

Gratteri e Nicaso lavorano a un nuovo libro dopo Oro bianco, che tratterà la connessione fra la corruzione e la ‘ndrangheta. O più precisamente come quest’ultima abbia utilizzato la corruzione per diventare classe dirigente. «La corruzione è sempre stata una strategia ed è stata anche la corruzione che ha portato la ‘ndrangheta ad affermarsi nel nord Italia. La ‘ndrangheta, grazie ai soldi del traffico di cocaina, è riuscita a corrompere pubblici funzionari, a fare eleggere propri rappresentanti e in sostanza a riprodurre gli stessi modelli che avevano garantito il potere ‘ndranghetista in Calabria», dice Nicaso. Nel breviario dal titolo essenziale Mafia (Bollati Boringhieri, 137 pagine, 10 euro) lo studioso canadese di origine calabrese osserva e spiega in maniera precisa come la corruzione sia diventata uno strumento di espansione delle mafie, integrate e intellegibili solo nel quadro delle relazioni, delle cointeressenze interclassiste che hanno sviluppato con il potere politico ed economico. La corruzione apre i varchi. Non c’è mafia senza corruzione e senza l’appoggio della politica.

Gratteri, molti, di fronte al dilagare della corruzione, rievocano la stagione mai sopita di Tangentopoli. All’epoca l’incesto appariva grosso modo riservato alla politica e all’imprenditoria. In che modo le mafie hanno scalato il mercato della corruzione?
«Nel corso dei decenni le mafie sono diventate sempre più ricche e quindi sempre più arroganti, soprattutto con i soldi provenienti dal traffico di cocaina. Questa grande disponibilità economica le ha portate a entrare, a occupare la cosa pubblica. Trent’anni fa i mafiosi andavano dai politici a chiedere favori. Oggi i politici vanno a chiedere i pacchetti di voti alle mafie. Questo vuol dire che le mafie nel panorama nazionale sono più credibili, più forti rispetto ai politici. Questa doppia combinazione le rende molto più forti rispetto ad alcuni decenni fa».

Quando la mafia è silenziosa vuol dire che si alza il livello della permeabilità?
«Le mafie, in particolar modo la ‘ndrangheta, hanno grande disponibilità di denaro soprattutto come abbiamo detto proveniente dal traffico di droga. Con questi soldi anziché sparare possono benissimo corrompere. Nell’ultimo ventennio c’è stato un abbattimento della morale, dell’etica. Oltre all’avvento del consumismo, oltre al dato che tutti tendiamo a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Combinazione di fattori portano a rendere la corruttela molto più facile. La ‘ndrangheta preferisce corrompere l’impiegato pubblico anziché minacciarlo, bruciargli la macchina o sparargli. Corrompendolo fa meno rumore e ottiene lo stesso beneficio. Si tende a porsi il problema della mafia solo quando spara. Purtroppo bisognerebbe rendersi conto che le mafie esistono e prosperano anche quando non si fanno notare, ma continuano a fare affari».

È quel che avviene anche nel resto d’Europa?
«L’élite della polizia giudiziaria italiana è la migliore al mondo. Lo dico perché ho potuto fare indagini con tutti i paesi delle Americhe e in Europa. Non siamo compratori di notizie, c’è ancora la cultura dell’investigazione. In Europa non c’è la cultura del controllo del territorio, non c’è una legislazione antimafia. Pur con le critiche che muoviamo il punto di partenza dovrebbe essere la legislazione antimafia italiana, la nostra cultura dell’investigazione che preserviamo. Purtroppo l’idea di cosa non c’è ce l’hanno ben presente le mafie, perché i paesi europei sono pieni di ‘ndranghetisti, camorristi e uomini di Cosa nostra.

Compiono soprattutto due tipologie di reati che non destano allarme sociale, che non richiedono il morto a terra o lo sparo sulla saracinesca, e dunque non incalzano la politica: vendono la cocaina e con quei soldi comprano immobili, attività commerciali. Per tutto ciò che è in vendita loro sono presenti. Andare e costituire locali di ‘ndrangheta cloni di quelli della provincia di Reggio Calabria. Nelle ultime indagini che ho coordinato in un’ambientale due capi locali in Svizzera: siamo qui da 40 anni. In Svizzera, sottolineo. La strage di Duisburg è stata un errore. Consumata il 15 agosto del 2007, il 2 settembre in occasione della festa della Madonna di Polsi nella montagna di San Luca, l’élite della ‘ndrangheta ha chiamato le quattro famiglie, divise su due fronti e coinvolte nella faida, imponendo la pace».

Negli ultimi vent’anni, osservando la media nazionale, nel distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria ci sono state due sole condanne per corruzione. Non esiste una ricetta contro la corruzione?
«No, esiste una ricetta per far funzionare il processo penale, per contrastare le mafie. Intanto dovremmo creare un sistema processuale che consenta di celebrare i processi, per evitare che tutti i reati contro la pubblica amministrazione si prescrivano nella fase delle indagini preliminari o in primo grado, in appello, molti raramente arrivano in Cassazione. Risolvere il problema della celebrazione del processo penale, informatizzandolo al massimo. Pensare a tutte quelle modifiche delle quali spesso abbiamo parlato per velocizzarlo. Archiviare il problema della prescrizione. In questo modo avremmo molte più condanne e saremmo molto più credibili, diverrebbe molto meno conveniente delinquere».

Nei giorni di Mafia capitale abbiamo ascoltato la politica argomentare la sostanziale ingovernabilità della macchina burocratica amministrativa. È così?
«C’entra più la burocrazia che la politica. Il politico cambia, il burocrate è lì da vent’anni come un convitato di pietra. Ha costruito nel suo ufficio una macchina da guerra, mangiasoldi. Viene prima la corruttela, lo sfascio, il degrado della pubblica amministrazione, rispetto a quello della politica».

Piercamillo Davigo, che lei stima, in una lectio dal titolo Corruzione, anticamera della mafia al Nord ha messo in discussione l’utilità delle autorità amministrative, dell’autorità nazionale anti corruzione. Lei è d’accordo?
«L’Autorità anti corruzione è anche importante. È presieduta da Raffaele Cantone, che è un magistrato molto serio, preparato e che si impegna. Sta dando il suo contributo ad accendere i riflettori sulla piaga della corruzione. Ovviamente non basta. La necessità corrisponde all’avere la contemporaneità di modifiche a tutto il sistema penale, processuale e detentivo».

Oggi come si tengono insieme la ricchezza della mafia e la povertà dei territori che presidia?
«La maggiore presenza delle mafie sul territorio produce una maggiore povertà. Solo l’élite, pochi mafiosi si arricchiscono veramente, la ricchezza non è uniformemente distribuita fra i membri. Benessere di pochi non si traduce in economia prodotta. Dove ci sono le mafie non c’è sviluppo. C’è parassitismo, al massimo riciclaggio che non è la stessa cosa che produrre, fare impresa. E le mafie quando si muovono sul territorio cercano di investire da Roma in su, in Europa per mimetizzarsi meglio. È ovvio che le mafie qui tendono a comprare tutto ciò che è in vendita e quindi drogano il mercato. Saltano le regole della libera concorrenza e quindi della democrazia. Penso che se questa gente oltre a comprarsi l’albergo, il ristorante, la pizzeria o le azioni societarie si mette a comprare pezzi di un giornale o di televisione è preoccupante. Comincia a controllare l’informazione e dunque a indirizzare il modo di pensare della gente attraverso i mass media».

Isaia Sales, fra le molte cose interessanti che scrive in Storia dell’Italia mafiosa, dice che il radicamento delle mafie al nord deve essere una presa d’atto del loro essere il prodotto di una comune e complessa storia nazionale: «Le mafie non sono isolabili in una dimensione periferica della costruzione della nazione».
«Concordo con quanto sostiene Sales, che è uno studioso molto serio e produce analisi altrettanto serie. Da decenni il problema mafia non riguarda più l’Italia meridionale, ma l’Europa, gli Stati Uniti, l’Australia e il Sudamerica. Quando le mafie, calabresi in particolare, si sono presentate, a esempio qui in Emilia Romagna, la classe imprenditoriale, la collettività non era attrezzata. Non c’erano gli anticorpi economici. Lo ‘ndranghetista offre servizi ed è quello che arriva vestito esattamente come noi, con una macchina di lusso piena di soldi e che compra tutto ciò che è in vendita. Se uno ‘ndranghetista è venuto qui con tanti soldi da investire qualcuno gli ha aperto la porta, qualcuno lo ha accolto. Non può dire non sapevo. Quando in un momento di crisi, in cui nessuno ha soldi, ti arriva un tizio, che non è il figlio di un industriale, con così tanta liquidità».

L’economia del vizio è Pil, parte integrante dell’economia nazionale. I nostri quartieri si riempiono, si macchiano di macchinette succhia soldi ed esistenze. Anche questo è un monopolio della criminalità organizzata?
«Sono preoccupato dal gioco d’azzardo, considerando che la collettività è debole. Percepisco la fragilità sociale. Vedo in giro poco carattere, poca personalità. Facilmente si cade e quindi avere la disponibilità di queste macchinette a ogni angolo di strada, di bar porta alla perdizione. Rovina queste persone, le rispettive famiglie, e crea una dipendenza come quella della droga. Questo business sta diventando ad appannaggio della ‘ndrangheta, di Cosa nostra e della camorra. Andiamo a ingrassare ulteriormente le mafie».

L’espressione zona grigia sembra fuori tempo massimo. Che cosa è oggi la borghesia mafiosa?
«Parlerei di laureati, di professionisti che fanno parte della ‘ndrangheta. Ci sono molti figli di capimafia. Si sono laureati negli anni Settanta e Ottanta. Spesso sono incensurati: medici, ingegneri, avvocati e al contempo sono ‘ndranghetisti. Gestiscono la cosa pubblica in modo mafioso. Questa categoria di persone non sta più nella definizione di zona grigia, ma sono pienamente organici all’organizzazione ‘ndranghetista».

Le polemiche sull’utilizzo delle intercettazioni si ripresentano ciclicamente. Sulla strada non ci sono più i Cassarà, i Giuliano e i Montana. Esiste uno strumento d’indagine alternativo?
«L’intercettazione è uno strumento fondamentale e indispensabile senza il quale non è possibile fare nulla. Non abbiamo più gli uomini per fare i pedinamenti o per altri tipi di indagini, ma anche avendoli ci sarebbe il grosso rischio magari di essere scoperti durante un pedinamento, quando  basta essere bravi a intercettare un telefono cellulare o inserire una microspia in un luogo dove ci si incontra».

Un mezzo rapido, economico e ad alto valore di prova. Quali i suoi limiti che lo mettono in discussione?
«Sì, intanto è il mezzo più economico. Consente di seguire tutti i movimenti di un indagato a un prezzo conveniente. È prezioso e richiede prudenza agli investigatori nelle fasi delle indagini per non esporre alla gogna mediatica l’intercettato soprattutto quando risultasse estraneo alle stesse. Il problema sostanziale è l’uso strumentale delle parti di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con il corpo del capo di imputazione».

Che cosa pensa dell’attuale rappresentazione cinematografica, televisiva e mediatica in generale delle mafie e della droga?
«Il più grande favore che la cinematografia mondiale abbia potuto fare alle mafie resta Il padrino. La storia de Il padrino non esiste, è stata inventata di sana pianta. Non è che esista una famiglia che possa venire rappresentata ne Il padrino. Il linguaggio delle fiction televisive sul genere, riguardanti per esempio Riina o Provenzano, è una rovina soprattutto per i più giovani perché non gli si fa vedere quanto siano vigliacchi, che sparano solo alle spalle, che sanno solo creare falsità, disvalori, tradimenti fra di loro. Le regole che ci sono nelle mafie servono affinché gli altri le osservino, non il capo mafia. Come scriviamo in Oro bianco, al rafforzamento delle mafie con il traffico di droga non corrisponde una risposta della società, dell’intellighenzia culturale. Il narcotraffico si moltiplica, mentre la condanna della cultura si affievolisce. Il dramma della droga non si racconta quasi più o lo si anestetizza. La droga patinata de La grande bellezza, dove sono finite pellicole me Christiane F., Noi i ragazzi dello zoo di Berlino o Trainspotting? Nel mondo globalizzato del perbenismo neoborghese cocaina ed eroina sono i vizi dei ricchi o la condanna dei poveri. Di droga si muore ancora. E tanto».

L’ha fatta arrabbiare l’ospitata di Salvo Riina a Porta a Porta?
«Mi ha contrariato questa intervista al figlio di Riina, perché ovunque non penso sia il caso di dare voce alla filosofia criminale delle mafie. Non ritengo che le mafie abbiano diritto ad avere voce, a difendersi attraverso una televisione, dando la parola a un mafioso. È ovvio che ha trasmesso un messaggio giustificazionista per quello che hanno commesso i suoi accoliti, suo padre prima di tutto. Sono morte centinaia, migliaia di persone innocenti. Ci sono figli che non vedono più il padre, perché ucciso da Riina e si consente ancora, dai quel proscenio a uno come il figlio di Riina: a quale scopo, quale contributo culturale alla crescita dell’Italia vuoi dare? Non è possibile che passino di questi messaggi».

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venerdì 15 aprile 2016

Leggere lentamente. Storia di José Pinho, libraio sovversivo


di Gabriele Santoro

José Pinho è un libraio portoghese di mezz’età, che lavora duro e ha dalla sua parte una dote preziosa: la fantasia che incontra la concretezza. Se corrisponde al vero che i luoghi hanno un’anima, non è una coincidenza che Ler Devagar, libreria educatamente sovversiva, sia sorta negli spazi di una tipografia che nei giorni della rivoluzione stampava fogli ostili alla dittatura. Pinho è nato in una casa con pochi libri. Nel paese natio non c’era una biblioteca. Nell’entroterra portoghese, nel suo piccolo villaggio non arrivavano neanche le biblioteche itineranti. Giunto in città per il liceo ha imparato a distinguere fra le letture consigliate, obbligatorie, e a scegliere il proprio percorso. A sedici, diciassette anni ha cominciato a leggere soprattutto altro dal programma scolastico.

Ler Devagar a Lisbona
Questa è una storia di resistenza, amicizia e creatività capace di stare sul mercato, oltre la crisi, perché offre quello che altri non danno. Si differenzia nella capacità di non farsi dettare i tempi, di restituire, dopo un’accurata selezione presso le case editrici, esistenza a libri necessari che finirebbero al macero. Leggere lentamente (Ler Devagar) non è a caso il nome dell’impresa, che circa vent’anni fa ha visto il convergere d’interesse di venti amici, i quali amavano trascorrere insieme il periodo delle vacanze nel sud del Portogallo. Pinho, che possiede il 62% delle quote, è l’anima del gruppo. Nel 1998, stanco della propria occupazione in una multinazionale di comunicazione e pubblicità nordamericana, prese la buonuscita e salutò la compagnia. S’iscrisse all’università per un corso di perfezionamento sulle professioni nell’ambito editoriale.

José sostiene di fumare poco, ma la raucedine lo tradisce. Si accende una sigaretta, gli occhi si illuminano della sua vitalità e racconta: «I compagni universitari, all’epoca ben più calati di me in questo contesto professionale, si lamentavano soprattutto della quantità di libri pubblicati che tornavano sistematicamente indietro e finivano sotto la ghigliottina». Pinho, che ha trascorso tre giorni in Italia su invito dell’amico editore di Marcos y Marcos Marco Zapparoli, promuovendo la nuova edizione di Letti di notte, dice che il copy and paste, il copia e incolla è anche una questione artistica: prendere dagli altri modelli da rendere poi pezzi unici come Ler Devagar. Lui ama viaggiare, visitando le librerie del mondo. Si avventura nei fondi degli editori, va a caccia dei tesori fra le giacenze.

Proprio dall’assenza sul mercato portoghese di una libreria di fondi è nata l’idea embrionale, che ha unito le risorse culturali ed economiche di venti amici. Pinho ha conservato intatta la buonuscita fino a quando non è stato trovato il luogo più adatto per iniziare: a Bairro Alto, uno stabile di 2500 mq nel quale destinare 300mq alla libreria. Centoventimila euro il capitale iniziale stanziato dai soci: «Non avevamo idea se avrebbe funzionato o meno. Nella peggiore delle ipotesi si sarebbe trattato di un salotto per letture fra amici».

A porte aperte la risposta è stata una crescita esponenziale. Al sesto anno di attività, con i conti arrivati in equilibrio, il proprietario dello stabile, attratto da un’operazione finanziaria immobiliare, propose l’acquisto dello spazio per una cifra esorbitante, pari a circa tre milioni di euro. Un costo inaccessibile per i soci che nel frattempo erano già raddoppiati. Sotto sfratto sorgeva la domanda angosciosa: dove sistemare i circa quarantamila volumi che animavano la libreria? «Quando abbiamo dovuto fermare l’attività, poiché non avevamo la liquidità per acquistare l’immobile, è stato il momento più difficile. Anzi è stato un dramma collettivo vissuto da tutti gli associati, all’epoca eravamo già quaranta persone. Molti piangevano. Ho sempre detto: la vita è dura, come ho imparato in Francia, ma non bisogna mollare. Occorre essere persistenti, resistenti».

Nella vicinanza della sede sfrattata di Ler Devagar esisteva una piccola libreria, che vendeva libri di filosofia di seconda mano. Il fratello del proprietario lavorava in una fabbrica di armi, Braccio d’argento, in dismissione nella parte orientale di Lisbona. Un’area del tutto abbandonata da reinventare.

Ler Devagar e le migliaia di libri avevano trovato una seconda casa senza chiedere un euro alle banche: «La banca soprattutto nei periodi di crisi vuole guadagnare più soldi. Se hai una struttura finanziaria non compatibile con le grandi catene, se devi pagare gli interessi molto alti, vuol dire che passi tutte le possibilità di guadagnare qualcosa agli altri. Non è fattibile appoggiarsi a loro. In una sola occasione ci siamo rivolti a un ente per il credito, dovendo coprire una parte dell’investimento iniziale per la città letteraria di Óbidos. Ventimila euro che abbiamo restituito in tre mesi».

Nel 2009 è arrivata la terza svolta nell’adolescenza di Ler Devagar, ora localizzata nella periferia deindustrializzata a ovest della città. Un immobiliarista, che Pinho qualifica come illuminato, invece che sfruttare un’area amplissima destinata alla speculazione edilizia ha dato in affitto, per appena mille euro al mese più il 20% dei ricavi sulle attività che non dipendono dai libri e dal bar, agli attuali 120 soci (400mila euro di capitale) una tipografia dismessa pari a 650mq che oggi contiene 70mila volumi. «La macchina tipografica è la vera creatrice della libreria, non io. L’identità, quanto l’ottima suddivisione degli spazi, osserva le caratteristiche della struttura preesistente. Il bar non confligge con i libri», sottolinea il libraio che insieme ai soci ha messo 130mila euro per la riqualificazione dello stabile.

Il fatturato è così ripartito: 70% dai libri, 15% dalla gastronomia e il restante dall’affitto delle sale per conferenze che non hanno scopi culturali. Gli eventi legati ai libri e alle arti invece sono ospitati gratuitamente. Dopo i primi sei mesi, durante i quali poche decine di clienti l’hanno visitata, Ler Devagar è diventata il cuore pulsante del quartiere, decuplicando il valore immobiliare dell’area. La libreria apre da mezzogiorno alla mezzanotte, che nei festivi diventa le due. Vi lavorano sette persone al 75% dell’orario e vengono retribuite meglio che alla Fnac, dice Pinho.

Il basso costo dell’acquisto dei volumi, quanto quello della relativa minore distribuzione e del canone d’affitto, e il margine sulla rivendita consentono di gestire la lunga vita dello stock di libri sugli scaffali. La domanda sorge spontanea: Pinho manda sul lastrico i già inguaiati editori? «No, desidero stabilire un rapporto equo con gli editori e i distributori, basato sulla fiducia e sul rispetto, che ti permetta di avere condizioni almeno uguali a quelle che i distributori garantiscono alle grandi catene librarie. E questo non è facile. Non ho mai pensato di arricchirmi con questo mestiere».

La società con i conti in ordine non redistribuisce dividendi ai soci. Chi investe sa che non guadagna, ma neanche perde nulla. Pinho lo chiama investimento emotivo, al posto della speculazione. Gli utili per statuto si rinvestono nell’acquisto di libri e nelle librerie. C’è un’assemblea generale che delibera. Per avere diritto di voto l’investimento minimo è pari a mille euro e il voto vale uno quanto quello di Pinho che detiene il 62% delle quote.

Nel 2012 Ler Devagar ha cominciato a produrre utili prontamente dirottati su un esperimento che ha ottenuto il timbro dell’Unesco. A Óbidos, borgo medievale che dista circa ottanta chilometri da Lisbona, l’amministrazione comunale presentò un bando per aprire una libreria di grandi dimensioni. I soci di Ler Devagar ne hanno aperte sette di piccola taglia, trasformando la zona in un ecosistema, una cittadina letteraria che attira migliaia di turisti per il festival internazionale della letteratura di Óbidos.

Pinho si accende quando pronunci la parola atmosfera, che si deve respirare dentro a una libreria a misura di persona. I recensori del Guardian e del New York Times hanno speso elogi sull’argomento in riferimento a Ler Devagar: «Ho maturato una grande esperienza nel creare questo clima. Intanto abbiamo sempre la musica anche a volume alto. Entri, ascolti, leggi e conversi. La musica a volte è scelta da chi lavora o dai clienti. Qualcuno non lo ama magari, ma finisce per essere un elemento di socializzazione. Poi avere degli spazi affinché la gente si possa sedere, restare per bere un caffè o un bicchiere di vino. C’è la musica dal vivo, le esposizioni artistiche. La gente che entra a Ler Devagar sa che può restare, anche senza consumare, quante ore desidera leggendo come dentro a una biblioteca. Lavorando in una società di comunicazione ho imparato due cose: la comunicazione non è altro che relazione pubblica, la migliore forma di comunicazione è il passaparola, il member get member, che funziona quando hai qualcosa di buono da proporre. Ler Devagar è stata riconosciuta prima all’estero che in Portogallo grazie ai social network».

Pinho considera replicabile la propria esperienza, indicando almeno tre priorità. Innanzitutto la scelta del luogo in cui sviluppare la propria idea senza essere penalizzati da un affitto esoso. Dopo la riconversione della fabbrica d’armi e della tipografa, a Óbidos è stata trasformata in un tempio di libri una chiesa barocca sconsacrata. C’è una libreria dentro al mercato ortofrutticolo, dentro all’enoteca del paese: dunque saper maneggiare la fantasia. Trovare un posto dove i potenziali clienti passino, che sia un luogo vistoso come Ler Devagar o più appartato.

«Per attirare i clienti serve il tempo – sottolinea –. Nel secondo trasloco a Lisbona Ovest siamo rimasti sei mesi senza clienti. Abbiamo resistito con la previsione finanziaria e la flessibilità della struttura. Durante quel periodo hanno percepito compensi solo gli impiegati dentro alla libreria. Occorre mettere insieme una squadra di tre, quattro persone che conoscano davvero i libri, che siano curiose e non aspettarsi di diventare ricco entro il primo mese. Bisogna aspettare, lavorare bene, avere dei bei libri e non è detto che i risultati arrivino».

L’American Booksellers Association ha rilanciato un interessante studio condotto con Civic Economics dal titolo Amazon & Empty Storefronts: The Fiscal and Land Use Impacts of Online Retail, che fornisce dei numeri sull’impatto negativo di Amazon sui negozi al dettaglio che chiudono e più in generale sulla sottrazione delle risorse a disposizione della comunità, a causa del minor introito di tasse. Circa la metà degli stati americani ancora non raccoglie introiti fiscali dalle vendite di Amazon e gli altri solo parzialmente. L’offerta di Amazon avrebbe provocato una netta riduzione della domanda al dettaglio sulla strada equivalente alla sparizione di oltre 30mila negozi.

Nel 2014 Amazon ha venduto beni per un valore di 44 miliardi, mentre evitava di pagare 625 milioni di dollari in tasse statali e locali. L’equivalente di 31mila negozi al dettaglio che avrebbero dovuto saldare 420 milioni di $ solo in tasse per la proprietà dello spazio fisico commerciale.

Un miliardo e più di ritorni fiscali persi dallo Stato e dai governi locali. Civic Economics calcola 8.48 dollari a famiglia americana. Negli States Amazon opera su 65 milioni di ft2 di spazio per la distribuzione, impiegando 30mila lavoratori full-time e 104mila fra stagionali e part time. Anche conteggiando tutti gli occupati nella distribuzione Amazon, il volume delle vendite avrebbe causato la perdita netta di 135.973 posti di lavoro.

L’ABA propone un kit di istruzioni per la sensibilizzazione al New localism, affinché si tuteli la vita della comunità locali anche mediante la qualità dei servizi al quartiere, qual è l’attività di una buona libreria. La fioritura di un movimento per il consumo locale è segnalato dai dati dell’inizio 2015, che segnalano una crescita del 27% rispetto al 2009 con 440 nuove librerie indipendenti attive nel paese.

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domenica 10 aprile 2016

Kiyoshi Nagai, il papà di Goldrake e Mazinga: «Ispirato dai miti greci e latini»

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda, pag. 59
9 aprile 2016


di Gabriele Santoro

L'INTERVISTA

Kiyoshi Nagai è l'anima creativa della storia moderna degli anime robot, da Mazinga a Goldrake, che entrò nel vivo nel cuore degli anni Settanta. La tavola del suo Mazinger, correva l'anno 1972, apparsa inizialmente sulla rivista Shonen Jump, segnò una svolta. Il maestro giapponese, genio della matita, si trova nella Capitale per la rassegna Romics. Si tratterrà fino a domenica quando, oltre a ricevere un premio alla carriera, incontrerà per un dibattito alle 12 presso la Fiera di Roma il Ministro della Cultura Dario Franceschini, Gabriele Mainetti e Claudio Santamaria, regista e protagonista del film Lo chiamavano Jeeg Robot.

Nagai, è d'accordo con chi sostiene che la sua intuizione geniale, epocale sia stata quella di mettere l'uomo a bordo, precisamente nella testa, di enormi giganti meccanici inabili senza la componente umana?
«Sì, assolutamente. Quando mi è venuta in mente l'idea ero consapevole che si trattava di qualcosa che avrebbe potuto rivoluzionare la concezione del robot. È stata con questa consapevolezza che ho portato avanti le mie opere e il mio paradigma del rapporto uomo e tecnologia. Negli anni Settanta, quando cominciò la mia epopea dei super robot, gli sviluppi della tecnologia consentivano ancora di sognare. C'era molto da inventare. Ecco, ora dovremmo ricominciare a sognare qualcosa e avere coscienza nell'utilizzo delle tecnologie».

Osamu Tezuka, capostipite della modernità dei manga, nel 1947 con le tavole di Shin Takarajima incantò i giovani lettori. Si è ispirato, soprattutto nella maniera di rapportarsi al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, a colui che lei considera un maestro?
«Ho seguito senz'altro i suoi passi. Lui era affascinato dalla complessità della natura umana. La dualità del bene e del male sulla quale giocare la profondità psicologica dei personaggi. I suoi manga assomigliavano anche alla letteratura russa. I miei lavori non hanno mai nascosto ai bambini le difficoltà del mondo. Li ho considerati una spinta ad affacciarsi con coraggio sulle cose del mondo. Si cerca di proteggere i bambini, chiuderli in una sorta di prigione personale. Una scusa che gli adulti usano per non ascoltare. Ho consentito al mio pubblico di mettersi alla guida di un robot, di dimostrarsi più grande e più forte di un adulto. Non è vero che gli adolescenti rifuggano le responsabilità e dargli questa sensazione è stato straordinario».

Dopo la II guerra mondiale, i sette anni dell'occupazione americana hanno portato in dote anche la traduzione e dunque introduzione in Giappone dei cartoons made in Usa. Qual è stata l'influenza della cultura statunitense nella sua formazione?
«È vero mi hanno fatto sognare con Batman e Superman. Sono personaggi che avrei voluto creare. Diciamo che da quell'epoca la compenetrazione culturale è stata significativa. Per me anche la cultura europea è stata fondamentale. Amo moltissimo i miti greci e latini che ritengo molto interessanti anche a livello iconografico. Del legame e dello sviluppo del mio immaginario grazie alla Divina Commedia ho raccontato spesso».

Amava il sottogenere filmico degli spaghetti western?
«Sì, molto! Ho amato molto le interpretazioni di Franco Nero. Il cinema per me è stato fondamentale, a cominciare dalle opere di Kurosawa».

Astro boy debuttò nel 1963 nella tv americana e Tezuka non credeva sfondasse. Poi fu un successo. Pensa che l'ibridazione fra global media, fra l'industria di Hollywood e i manga, sia il modello ormai inevitabile?
«Fin dagli esordi non ho mai pensato che i miei manga-anime fossero destinati solo al pubblico giapponese. Ho intravisto una certa universalità, che è il segreto della loro longevità. È vero ci sono molti progetti in cantiere a Hollywood che si basano sui manga. Il Dna si assomiglia, ma resta una percentuale che segna la differenza».

È vero che ha iniziato a pensare ai suoi robot imbottigliato nel traffico a Tokyo, per evadere?
«Ho desiderato che la mia macchina avesse braccia e gambe, che diventasse un automa per oltrepassare gli ingorghi metropolitani».

Ha visto il film Lo chiamavano Jeeg Robot, che porta il nome di una sua creatura?
«Non ancora. Sono però contento d'incontrare in Fiera regista e attori e che le mie opere siano tuttora un'ispirazione per raccontare la realtà».

martedì 5 aprile 2016

Le lupe di Sernovodsk. Irena Brežná e il racconto della guerra cecena


di Gabriele Santoro

A Rita.

Sulle rovine c’è una sola via d’uscita ed è linguistica, sostiene Irena Brežná. Le donne del villaggio ceceno di Sernovodsk, irriconoscibile dopo la razzia dell’esercito russo, le chiedono dove abbia lasciato la macchina fotografica. «Non sono una fotografa, io scrivo», risponde lei con loro grande delusione. La memoria è l’unico strumento di lavoro che la giornalista e scrittrice porta con sé. Si mimetizza e cerca una lingua che sappia descrivere cose che hanno perso il senso originario. Non c’è un vocabolario per le macerie.

La memoria, la lingua e le cose: «Nello scrivere della guerra in Cecenia desidero ardentemente che alla distruzione sia attribuita un’esistenza giusta, linguistica, come è avvenuto per me che mi sono rialzata dall’esilio svizzero nella nuova lingua. Il mio tedesco in ogni parola cela il desiderio di sopravvivere. La mia risurrezione nella lingua tedesca è l’unica cosa che ho ricostruito».


La raccolta di articoli, reportage letterari e saggi, che compongono Le lupe di Sernovodsk (Keller, 197 pagine, 15 euro, traduzione dal tedesco a cura di Alice Rampinelli), coprono quindici anni, dal 1995 al 2011. Brežná ha seguito gli eventi e la guerra ceceno russa sul campo in qualità di reporter per il giornale svizzero Tages-Anzeiger di Zurigo. Slovacca, classe 1950, vive e lavora tuttora in Svizzera, dove emigrò nel 1968. Dopo gli studi di slavistica, filosofia e psicologia, all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato l’attività pubblicistica.

Questi reportage sulla Cecenia rappresentano anche una questione privata. Brežná posa sulla crudeltà insensata di una guerra, sostanzialmente considerata dall’Occidente un affare interno russo, lo sguardo dei propri vent’anni, dello sradicamento culturale vissuto. «Ci lasciammo alle spalle il nostro paese nella sua oscurità familiare e ci avvicinammo alla luminosa terra straniera», recita l’incipit di Straniera ingrata (Keller, 150 pagine, 14.50 euro). La madre di Brežná aveva sete d’emigrazione, senza accorgersi che «la luce sgargiante della terra straniera divorava anche le stelle».

Nel Caucaso sconosciuto rintraccia la dinamica del suo stesso rapimento: settembre 1968, una Skoda grigia targata Bratislava corre veloce verso l’Austria e una ragazzina, insieme alla madre in fuga, si percepisce senza voce, radici e storia in un posto vuoto che non vuole abitare. «Le lingue vivono tra noi, gironzolano qua e là o accennano una danza, crepitano, ristagnano, mormorano. Siamo noi che nutriamo e vestiamo le lingue, tanto da renderle sazie o trasandate, denutrite o eleganti», leggiamo nelle pagine di Straniera ingrata. A Sernovodsk Brežná comincia dall’ascolto del silenzio e dalla descrizione dei linguaggi altri:

«(…) Di fronte a una casa ridotta in cenere c’era un uomo di mezz’età con il volto immobile, che apparentemente non sapeva cosa fare; (…) Sopra il puzzo della decomposizione risuonava il coro degli animali; (…) le donne sembrano lupe che emettono lamenti forti composti da una sola A». Sulle rovine il silenzio tuttavia non è apocalittico. Due donne hanno udito un suono familiare. Si armano di ascia e spranghe di metallo per liberare l’ingresso di una stalla: «Sula si rivolse agli animali, e il suo ceceno ricco di consonanti risuonò affettuoso. Il villaggio si riempì di commoventi scene di ritrovamento, gli animali che si avvicinavano alle donne le guardavano».

Eppure la distruzione di Sernovodsk per lei rimane senza volto. Brežná indossa lo stesso foulard delle vedove od orfane cecene, conosce bene la loro lingua, mantenendo la dignità propria della giusta distanza. Ci spiega la difficoltà di lavorare sulle immagini che affollano la mente. Usa il verbo stenografare. Stenografare nello spirito dei fatti la guerra. Poi arriva il tempo dell’analisi critica della follia dei dettagli, del possibile discernimento della forma di vita che resiste sempre.

Quel che colpisce dei reportage e dei saggi di Brežná è il rispetto dei civili ceceni, di questo piccolo popolo di montagna, per i morti, dinnanzi all’affermarsi di una civiltà della morte. Sotto le bombe russe escono dai rifugi per mettere al riparo esistenze carbonizzate, alle quali restano legati quanto a coloro che sopravvivono. I bambini disegnano carri armati ed elicotteri. I ragazzini corrono a piedi nudi sui detriti e col pugno chiuso urlano: «Allahu Akbar». Le lupe di Sernovodsk è una guida utile anche per comprendere quel che sta avvenendo nel cuore dell’Europa e quale realtà producano errori indiscriminati nella cosiddetta lotta al terrorismo. «Noi moriamo con Allahu Akbar sulle labbra, perché il mondo guarda il nostro sterminio e non dice nulla. Ci è rimasto solo Dio. Pronunciamo il suo nome perché pensiamo sia dalla nostra parte, dalla parte della giustizia», le dicono.

Brežná spiega in modo preciso quale rischio si corra quando qualunque ceceno viene definito potenzialmente un terrorista e il confine labile sul quale si muove chi si considera vittima, a fronte della «perdita cosmica della dimora, di un generale abbandono», alimentando la catena di autodistruzione. «Alcune vittime sono diventate poi kamikaze portatori di una bomba di cui volevano condividere l’esplosione. Dopo che l’anima era esplosa, doveva farlo anche il corpo». E aggiunge in un passaggio significativo a proposito di Šamil Basaev, islamista, indipendentista, leader dell’insurrezione anti-russa morto nel 2006:

«La gente che si vergogna si può facilmente manipolare con promesse sulla fine della vergogna. Il redentore, Basaev, insegna alla gioventù di orfani come evadere alla vergogna e regala loro cinture esplosive. Non deve arruolare nessuno, chi si vergogna si offre volontario».

Un nemico con tendenze fanatiche, che consapevolmente sacrifica il proprio popolo per la lotta, è utile alla guerra, scrive Brežná.

Il 14 novembre 1999 Vladimir Putin firmò un pezzo, Why we must act, sul New York Times col quale intendeva spiegare agli americani la necessità della seconda guerra ceceno russa, per fronteggiare l’insorgenza nel Caucaso del Nord delle milizie islamiste, i separatisti ceceni accusati di aver colpito Mosca con attacchi terroristici. Il 13 settembre del 1999 l’esplosione di un edificio nel sud-est della capitale russa causò la morte di 118 persone. Il 31 agosto altri attentati avevano causato 175 vittime. Al tramonto di El’cin, l’allora primo ministro intendeva rimettere sotto controllo stringente dello Stato tutti i soggetti federati. La guerra al terrorismo ammanta di autorevolezza Putin, che sprona le truppe russe entrate a settembre nella piccola repubblica separatista.

Nell’editoriale sopracitato Putin prefigurava lo scenario della nascita di una Repubblica islamica transnazionale:

«(…) Proteggere i propri cittadini dal pericolo è un dovere solenne di tutti i governi. Gli americani questo lo capiscono. Il terrorismo oggi non conosce confini. I terroristi hanno legami e ramificazioni su vasta scala. Sappiamo che la violenza che emana la Cecenia è in gran parte finanziata dall’estero. Sappiamo che Basaev, chiamato il Signore della guerra ceceno, riceve assistenza sul terreno da chi ha un dossier simile a quello di Osama bin Laden. Riluttanti, siamo intervenuti. Il nostro obiettivo immediato è di liberare la Cecenia da coloro che mettono in discussione la sicurezza dei ceceni e dei russi. E cerchiamo anche di restituire una vita civile al popolo ceceno, vittima di deprivazioni, avendo vissuto per anni sotto la pressione di gangs criminali armate».

La prefazione del libro riporta un articolo del marzo 1996, nel quale Anna Politkovskaya riconosce il coraggio e la lucidità del lavoro di Brežná già all’epoca della prima guerra cecena. Cita uno stralcio dell’intervento di quest’ultima alla Conferenza di Mosca sulla Cecenia, dopo essere penetrata a Sernovodsk insieme alla donne cecene, alle quali l’esercito russo aveva concesso qualche ora per seppellire i propri morti:

«Dopo tutto questo, di cosa dovrei scrivere? Del livello spirituale del Vostro Paese, che permette a soldati giovanissimi di penetrare nelle case cecene, di saccheggiarle, di fare a pezzi ogni cosa e addirittura di portarsi via la biancheria intima femminile, di fare i propri bisogni in salotto, di bere vodka, di lasciare siringhe vuote in giro. Quello che non sono riusciti a rubare hanno crivellato di colpi. Faccio fatica a comprendere quello che ho visto. Che cosa ne sarà di questi ragazzi sporchi, affamati, corrotti, che hanno tutta la vita davanti, una volta tornati a casa?»

E poi Politkovskaya riprende un’altra domanda posta dalla relatrice: «Dove sono finiti gli intellettuali russi e gli osservatori internazionali?»

Brežná riserva poche righe al primo Putin: «L’uomo nuovo della Russia si rivela il figlio cresciuto male, che spara colpi attorno a sé per dimostrare di essere un uomo. Sì, la distruzione serve al figlio per svincolarsi, come la violenza che permette all’uomo di liberarsi». Ma quel che è più interessante è l’analisi profonda di un rapporto materno sociopolitico patologico: «Madre Russia esiste solo attraverso la possessione del figlio. Un duplice autismo è alla base della società e politica russa. Non avviene alcuna interazione tra due centri separati l’uno dall’altro. Si resta prigionieri di quella simbiosi arcaica e irrisolta tra la madre e il figlio ormai cresciuto». Il governo materno garantisce l’impunità.

E ancora: «Le aspirazioni di autonomia di un popolo minuscolo, che fa del diritto alla delimitazione degli spazi un architrave per definire i concetti di dignità umana e della separazione dalla madre fa il prerequisito per diventare uomo, dalla madre patria coloniale attraverso una guerra così accanita infiammano il figlio d’ira. Qui c’è qualcuno che osa realizzare i propri nostalgici desideri mancati».
Ciò che emerge dalla narrazione è l’autodeterminazione che in tempo di guerra le donne cecene hanno saputo conquistare, al di fuori delle rovine di casa. Oggi in un contesto caucasico tutt’altro che pacificato, i vincitori in un oceano di macerie cercano di rinchiuderle in quella che Brežná raffigura come una dimora a mala pena rattoppata, nella Grozny ricostruita della corte del presidente «vassallo» Ramzan Kadyrov, finanziata dai soldi russi, dove dilaga un sistema corruttivo  come racconta anche Jonathan Littell nel suo Cecenia, anno III (Einaudi).

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