lunedì 18 aprile 2016

«Le mafie non hanno diritto ad avere voce». Intervista a Nicola Gratteri


di Gabriele Santoro

Il magistrato Nicola Gratteri dice di commettere sempre lo stesso sbaglio a tavola: promettere di rinunciare ai peccati di gola prima di partire per l’Emilia Romagna. A Correggio dagli uomini della scorta torna indietro una portata di patate al forno, e lui non si fa pregare. Gerace dista cento chilometri da Catanzaro, e Gratteri non si trasferirà all’eventuale ratifica da parte del Plenum del Csm della nomina a Procuratore capo della nevralgica direzione distrettuale di Catanzaro, che cambia la geografia giudiziaria calabrese. Ama il profumo della sua campagna, il legame con la terra da coltivare e i frutti che essa genera da condividere con gli uomini, le famiglie della scorta che nelle ultime settimane si è alzata di livello.


Gratteri, come detto in corsa per la nomina a capo della Procura della Repubblica di Catanzaro, ha trascorso la vigilia di un passaggio professionale cruciale insieme ad Antonio Nicaso, l’amico di una vita. A Reggio Emilia, e dintorni, hanno animato la sesta edizione della rassegna Noi contro le mafie, patrocinata dalla Regione e dalla Provincia emiliana. Qui la domanda vetusta sulla presenza o meno della ‘ndrangheta, delle mafie, non è più all’ordine del giorno. Si è tenuta la prima udienza del maxi processo Aemilia, che vede coinvolti 147 imputati con la contestazione anche del reato di associazione di stampo mafioso, dentro all’aula speciale costruita nel cortile del tribunale di Reggio Emilia, considerata quale epicentro regionale del radicamento ‘ndranghetista.

Le aperture dei giornali locali, le locandine sono dedicate al possibile scioglimento per mafia del Comune di Brescello. Già martedì il Consiglio dei ministri potrebbe dare seguito alla relazione prefettizia concernente le infiltrazioni mafiose all’interno dell’apparato amministrativo.
Gratteri ha incontrato soprattutto i giovani, trasmettendo la consueta determinazione. I due sono stati i primi a denunciare l’assenza di anticorpi economici all’influenza del potere ‘ndranghetista anche nella terra dei Fratelli Cervi, permeabile al contagio mafioso. Minimizzare i costi, massimizzare i profitti con i servizi e la manodopera a basso costo offerti dalla ‘ndrangheta, un invito che alcuni imprenditori non hanno saputo respingere.

Gratteri e Nicaso lavorano a un nuovo libro dopo Oro bianco, che tratterà la connessione fra la corruzione e la ‘ndrangheta. O più precisamente come quest’ultima abbia utilizzato la corruzione per diventare classe dirigente. «La corruzione è sempre stata una strategia ed è stata anche la corruzione che ha portato la ‘ndrangheta ad affermarsi nel nord Italia. La ‘ndrangheta, grazie ai soldi del traffico di cocaina, è riuscita a corrompere pubblici funzionari, a fare eleggere propri rappresentanti e in sostanza a riprodurre gli stessi modelli che avevano garantito il potere ‘ndranghetista in Calabria», dice Nicaso. Nel breviario dal titolo essenziale Mafia (Bollati Boringhieri, 137 pagine, 10 euro) lo studioso canadese di origine calabrese osserva e spiega in maniera precisa come la corruzione sia diventata uno strumento di espansione delle mafie, integrate e intellegibili solo nel quadro delle relazioni, delle cointeressenze interclassiste che hanno sviluppato con il potere politico ed economico. La corruzione apre i varchi. Non c’è mafia senza corruzione e senza l’appoggio della politica.

Gratteri, molti, di fronte al dilagare della corruzione, rievocano la stagione mai sopita di Tangentopoli. All’epoca l’incesto appariva grosso modo riservato alla politica e all’imprenditoria. In che modo le mafie hanno scalato il mercato della corruzione?
«Nel corso dei decenni le mafie sono diventate sempre più ricche e quindi sempre più arroganti, soprattutto con i soldi provenienti dal traffico di cocaina. Questa grande disponibilità economica le ha portate a entrare, a occupare la cosa pubblica. Trent’anni fa i mafiosi andavano dai politici a chiedere favori. Oggi i politici vanno a chiedere i pacchetti di voti alle mafie. Questo vuol dire che le mafie nel panorama nazionale sono più credibili, più forti rispetto ai politici. Questa doppia combinazione le rende molto più forti rispetto ad alcuni decenni fa».

Quando la mafia è silenziosa vuol dire che si alza il livello della permeabilità?
«Le mafie, in particolar modo la ‘ndrangheta, hanno grande disponibilità di denaro soprattutto come abbiamo detto proveniente dal traffico di droga. Con questi soldi anziché sparare possono benissimo corrompere. Nell’ultimo ventennio c’è stato un abbattimento della morale, dell’etica. Oltre all’avvento del consumismo, oltre al dato che tutti tendiamo a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Combinazione di fattori portano a rendere la corruttela molto più facile. La ‘ndrangheta preferisce corrompere l’impiegato pubblico anziché minacciarlo, bruciargli la macchina o sparargli. Corrompendolo fa meno rumore e ottiene lo stesso beneficio. Si tende a porsi il problema della mafia solo quando spara. Purtroppo bisognerebbe rendersi conto che le mafie esistono e prosperano anche quando non si fanno notare, ma continuano a fare affari».

È quel che avviene anche nel resto d’Europa?
«L’élite della polizia giudiziaria italiana è la migliore al mondo. Lo dico perché ho potuto fare indagini con tutti i paesi delle Americhe e in Europa. Non siamo compratori di notizie, c’è ancora la cultura dell’investigazione. In Europa non c’è la cultura del controllo del territorio, non c’è una legislazione antimafia. Pur con le critiche che muoviamo il punto di partenza dovrebbe essere la legislazione antimafia italiana, la nostra cultura dell’investigazione che preserviamo. Purtroppo l’idea di cosa non c’è ce l’hanno ben presente le mafie, perché i paesi europei sono pieni di ‘ndranghetisti, camorristi e uomini di Cosa nostra.

Compiono soprattutto due tipologie di reati che non destano allarme sociale, che non richiedono il morto a terra o lo sparo sulla saracinesca, e dunque non incalzano la politica: vendono la cocaina e con quei soldi comprano immobili, attività commerciali. Per tutto ciò che è in vendita loro sono presenti. Andare e costituire locali di ‘ndrangheta cloni di quelli della provincia di Reggio Calabria. Nelle ultime indagini che ho coordinato in un’ambientale due capi locali in Svizzera: siamo qui da 40 anni. In Svizzera, sottolineo. La strage di Duisburg è stata un errore. Consumata il 15 agosto del 2007, il 2 settembre in occasione della festa della Madonna di Polsi nella montagna di San Luca, l’élite della ‘ndrangheta ha chiamato le quattro famiglie, divise su due fronti e coinvolte nella faida, imponendo la pace».

Negli ultimi vent’anni, osservando la media nazionale, nel distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria ci sono state due sole condanne per corruzione. Non esiste una ricetta contro la corruzione?
«No, esiste una ricetta per far funzionare il processo penale, per contrastare le mafie. Intanto dovremmo creare un sistema processuale che consenta di celebrare i processi, per evitare che tutti i reati contro la pubblica amministrazione si prescrivano nella fase delle indagini preliminari o in primo grado, in appello, molti raramente arrivano in Cassazione. Risolvere il problema della celebrazione del processo penale, informatizzandolo al massimo. Pensare a tutte quelle modifiche delle quali spesso abbiamo parlato per velocizzarlo. Archiviare il problema della prescrizione. In questo modo avremmo molte più condanne e saremmo molto più credibili, diverrebbe molto meno conveniente delinquere».

Nei giorni di Mafia capitale abbiamo ascoltato la politica argomentare la sostanziale ingovernabilità della macchina burocratica amministrativa. È così?
«C’entra più la burocrazia che la politica. Il politico cambia, il burocrate è lì da vent’anni come un convitato di pietra. Ha costruito nel suo ufficio una macchina da guerra, mangiasoldi. Viene prima la corruttela, lo sfascio, il degrado della pubblica amministrazione, rispetto a quello della politica».

Piercamillo Davigo, che lei stima, in una lectio dal titolo Corruzione, anticamera della mafia al Nord ha messo in discussione l’utilità delle autorità amministrative, dell’autorità nazionale anti corruzione. Lei è d’accordo?
«L’Autorità anti corruzione è anche importante. È presieduta da Raffaele Cantone, che è un magistrato molto serio, preparato e che si impegna. Sta dando il suo contributo ad accendere i riflettori sulla piaga della corruzione. Ovviamente non basta. La necessità corrisponde all’avere la contemporaneità di modifiche a tutto il sistema penale, processuale e detentivo».

Oggi come si tengono insieme la ricchezza della mafia e la povertà dei territori che presidia?
«La maggiore presenza delle mafie sul territorio produce una maggiore povertà. Solo l’élite, pochi mafiosi si arricchiscono veramente, la ricchezza non è uniformemente distribuita fra i membri. Benessere di pochi non si traduce in economia prodotta. Dove ci sono le mafie non c’è sviluppo. C’è parassitismo, al massimo riciclaggio che non è la stessa cosa che produrre, fare impresa. E le mafie quando si muovono sul territorio cercano di investire da Roma in su, in Europa per mimetizzarsi meglio. È ovvio che le mafie qui tendono a comprare tutto ciò che è in vendita e quindi drogano il mercato. Saltano le regole della libera concorrenza e quindi della democrazia. Penso che se questa gente oltre a comprarsi l’albergo, il ristorante, la pizzeria o le azioni societarie si mette a comprare pezzi di un giornale o di televisione è preoccupante. Comincia a controllare l’informazione e dunque a indirizzare il modo di pensare della gente attraverso i mass media».

Isaia Sales, fra le molte cose interessanti che scrive in Storia dell’Italia mafiosa, dice che il radicamento delle mafie al nord deve essere una presa d’atto del loro essere il prodotto di una comune e complessa storia nazionale: «Le mafie non sono isolabili in una dimensione periferica della costruzione della nazione».
«Concordo con quanto sostiene Sales, che è uno studioso molto serio e produce analisi altrettanto serie. Da decenni il problema mafia non riguarda più l’Italia meridionale, ma l’Europa, gli Stati Uniti, l’Australia e il Sudamerica. Quando le mafie, calabresi in particolare, si sono presentate, a esempio qui in Emilia Romagna, la classe imprenditoriale, la collettività non era attrezzata. Non c’erano gli anticorpi economici. Lo ‘ndranghetista offre servizi ed è quello che arriva vestito esattamente come noi, con una macchina di lusso piena di soldi e che compra tutto ciò che è in vendita. Se uno ‘ndranghetista è venuto qui con tanti soldi da investire qualcuno gli ha aperto la porta, qualcuno lo ha accolto. Non può dire non sapevo. Quando in un momento di crisi, in cui nessuno ha soldi, ti arriva un tizio, che non è il figlio di un industriale, con così tanta liquidità».

L’economia del vizio è Pil, parte integrante dell’economia nazionale. I nostri quartieri si riempiono, si macchiano di macchinette succhia soldi ed esistenze. Anche questo è un monopolio della criminalità organizzata?
«Sono preoccupato dal gioco d’azzardo, considerando che la collettività è debole. Percepisco la fragilità sociale. Vedo in giro poco carattere, poca personalità. Facilmente si cade e quindi avere la disponibilità di queste macchinette a ogni angolo di strada, di bar porta alla perdizione. Rovina queste persone, le rispettive famiglie, e crea una dipendenza come quella della droga. Questo business sta diventando ad appannaggio della ‘ndrangheta, di Cosa nostra e della camorra. Andiamo a ingrassare ulteriormente le mafie».

L’espressione zona grigia sembra fuori tempo massimo. Che cosa è oggi la borghesia mafiosa?
«Parlerei di laureati, di professionisti che fanno parte della ‘ndrangheta. Ci sono molti figli di capimafia. Si sono laureati negli anni Settanta e Ottanta. Spesso sono incensurati: medici, ingegneri, avvocati e al contempo sono ‘ndranghetisti. Gestiscono la cosa pubblica in modo mafioso. Questa categoria di persone non sta più nella definizione di zona grigia, ma sono pienamente organici all’organizzazione ‘ndranghetista».

Le polemiche sull’utilizzo delle intercettazioni si ripresentano ciclicamente. Sulla strada non ci sono più i Cassarà, i Giuliano e i Montana. Esiste uno strumento d’indagine alternativo?
«L’intercettazione è uno strumento fondamentale e indispensabile senza il quale non è possibile fare nulla. Non abbiamo più gli uomini per fare i pedinamenti o per altri tipi di indagini, ma anche avendoli ci sarebbe il grosso rischio magari di essere scoperti durante un pedinamento, quando  basta essere bravi a intercettare un telefono cellulare o inserire una microspia in un luogo dove ci si incontra».

Un mezzo rapido, economico e ad alto valore di prova. Quali i suoi limiti che lo mettono in discussione?
«Sì, intanto è il mezzo più economico. Consente di seguire tutti i movimenti di un indagato a un prezzo conveniente. È prezioso e richiede prudenza agli investigatori nelle fasi delle indagini per non esporre alla gogna mediatica l’intercettato soprattutto quando risultasse estraneo alle stesse. Il problema sostanziale è l’uso strumentale delle parti di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con il corpo del capo di imputazione».

Che cosa pensa dell’attuale rappresentazione cinematografica, televisiva e mediatica in generale delle mafie e della droga?
«Il più grande favore che la cinematografia mondiale abbia potuto fare alle mafie resta Il padrino. La storia de Il padrino non esiste, è stata inventata di sana pianta. Non è che esista una famiglia che possa venire rappresentata ne Il padrino. Il linguaggio delle fiction televisive sul genere, riguardanti per esempio Riina o Provenzano, è una rovina soprattutto per i più giovani perché non gli si fa vedere quanto siano vigliacchi, che sparano solo alle spalle, che sanno solo creare falsità, disvalori, tradimenti fra di loro. Le regole che ci sono nelle mafie servono affinché gli altri le osservino, non il capo mafia. Come scriviamo in Oro bianco, al rafforzamento delle mafie con il traffico di droga non corrisponde una risposta della società, dell’intellighenzia culturale. Il narcotraffico si moltiplica, mentre la condanna della cultura si affievolisce. Il dramma della droga non si racconta quasi più o lo si anestetizza. La droga patinata de La grande bellezza, dove sono finite pellicole me Christiane F., Noi i ragazzi dello zoo di Berlino o Trainspotting? Nel mondo globalizzato del perbenismo neoborghese cocaina ed eroina sono i vizi dei ricchi o la condanna dei poveri. Di droga si muore ancora. E tanto».

L’ha fatta arrabbiare l’ospitata di Salvo Riina a Porta a Porta?
«Mi ha contrariato questa intervista al figlio di Riina, perché ovunque non penso sia il caso di dare voce alla filosofia criminale delle mafie. Non ritengo che le mafie abbiano diritto ad avere voce, a difendersi attraverso una televisione, dando la parola a un mafioso. È ovvio che ha trasmesso un messaggio giustificazionista per quello che hanno commesso i suoi accoliti, suo padre prima di tutto. Sono morte centinaia, migliaia di persone innocenti. Ci sono figli che non vedono più il padre, perché ucciso da Riina e si consente ancora, dai quel proscenio a uno come il figlio di Riina: a quale scopo, quale contributo culturale alla crescita dell’Italia vuoi dare? Non è possibile che passino di questi messaggi».

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