domenica 10 aprile 2016

Kiyoshi Nagai, il papà di Goldrake e Mazinga: «Ispirato dai miti greci e latini»

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda, pag. 59
9 aprile 2016


di Gabriele Santoro

L'INTERVISTA

Kiyoshi Nagai è l'anima creativa della storia moderna degli anime robot, da Mazinga a Goldrake, che entrò nel vivo nel cuore degli anni Settanta. La tavola del suo Mazinger, correva l'anno 1972, apparsa inizialmente sulla rivista Shonen Jump, segnò una svolta. Il maestro giapponese, genio della matita, si trova nella Capitale per la rassegna Romics. Si tratterrà fino a domenica quando, oltre a ricevere un premio alla carriera, incontrerà per un dibattito alle 12 presso la Fiera di Roma il Ministro della Cultura Dario Franceschini, Gabriele Mainetti e Claudio Santamaria, regista e protagonista del film Lo chiamavano Jeeg Robot.

Nagai, è d'accordo con chi sostiene che la sua intuizione geniale, epocale sia stata quella di mettere l'uomo a bordo, precisamente nella testa, di enormi giganti meccanici inabili senza la componente umana?
«Sì, assolutamente. Quando mi è venuta in mente l'idea ero consapevole che si trattava di qualcosa che avrebbe potuto rivoluzionare la concezione del robot. È stata con questa consapevolezza che ho portato avanti le mie opere e il mio paradigma del rapporto uomo e tecnologia. Negli anni Settanta, quando cominciò la mia epopea dei super robot, gli sviluppi della tecnologia consentivano ancora di sognare. C'era molto da inventare. Ecco, ora dovremmo ricominciare a sognare qualcosa e avere coscienza nell'utilizzo delle tecnologie».

Osamu Tezuka, capostipite della modernità dei manga, nel 1947 con le tavole di Shin Takarajima incantò i giovani lettori. Si è ispirato, soprattutto nella maniera di rapportarsi al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, a colui che lei considera un maestro?
«Ho seguito senz'altro i suoi passi. Lui era affascinato dalla complessità della natura umana. La dualità del bene e del male sulla quale giocare la profondità psicologica dei personaggi. I suoi manga assomigliavano anche alla letteratura russa. I miei lavori non hanno mai nascosto ai bambini le difficoltà del mondo. Li ho considerati una spinta ad affacciarsi con coraggio sulle cose del mondo. Si cerca di proteggere i bambini, chiuderli in una sorta di prigione personale. Una scusa che gli adulti usano per non ascoltare. Ho consentito al mio pubblico di mettersi alla guida di un robot, di dimostrarsi più grande e più forte di un adulto. Non è vero che gli adolescenti rifuggano le responsabilità e dargli questa sensazione è stato straordinario».

Dopo la II guerra mondiale, i sette anni dell'occupazione americana hanno portato in dote anche la traduzione e dunque introduzione in Giappone dei cartoons made in Usa. Qual è stata l'influenza della cultura statunitense nella sua formazione?
«È vero mi hanno fatto sognare con Batman e Superman. Sono personaggi che avrei voluto creare. Diciamo che da quell'epoca la compenetrazione culturale è stata significativa. Per me anche la cultura europea è stata fondamentale. Amo moltissimo i miti greci e latini che ritengo molto interessanti anche a livello iconografico. Del legame e dello sviluppo del mio immaginario grazie alla Divina Commedia ho raccontato spesso».

Amava il sottogenere filmico degli spaghetti western?
«Sì, molto! Ho amato molto le interpretazioni di Franco Nero. Il cinema per me è stato fondamentale, a cominciare dalle opere di Kurosawa».

Astro boy debuttò nel 1963 nella tv americana e Tezuka non credeva sfondasse. Poi fu un successo. Pensa che l'ibridazione fra global media, fra l'industria di Hollywood e i manga, sia il modello ormai inevitabile?
«Fin dagli esordi non ho mai pensato che i miei manga-anime fossero destinati solo al pubblico giapponese. Ho intravisto una certa universalità, che è il segreto della loro longevità. È vero ci sono molti progetti in cantiere a Hollywood che si basano sui manga. Il Dna si assomiglia, ma resta una percentuale che segna la differenza».

È vero che ha iniziato a pensare ai suoi robot imbottigliato nel traffico a Tokyo, per evadere?
«Ho desiderato che la mia macchina avesse braccia e gambe, che diventasse un automa per oltrepassare gli ingorghi metropolitani».

Ha visto il film Lo chiamavano Jeeg Robot, che porta il nome di una sua creatura?
«Non ancora. Sono però contento d'incontrare in Fiera regista e attori e che le mie opere siano tuttora un'ispirazione per raccontare la realtà».

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