martedì 5 aprile 2016

Le lupe di Sernovodsk. Irena Brežná e il racconto della guerra cecena


di Gabriele Santoro

A Rita.

Sulle rovine c’è una sola via d’uscita ed è linguistica, sostiene Irena Brežná. Le donne del villaggio ceceno di Sernovodsk, irriconoscibile dopo la razzia dell’esercito russo, le chiedono dove abbia lasciato la macchina fotografica. «Non sono una fotografa, io scrivo», risponde lei con loro grande delusione. La memoria è l’unico strumento di lavoro che la giornalista e scrittrice porta con sé. Si mimetizza e cerca una lingua che sappia descrivere cose che hanno perso il senso originario. Non c’è un vocabolario per le macerie.

La memoria, la lingua e le cose: «Nello scrivere della guerra in Cecenia desidero ardentemente che alla distruzione sia attribuita un’esistenza giusta, linguistica, come è avvenuto per me che mi sono rialzata dall’esilio svizzero nella nuova lingua. Il mio tedesco in ogni parola cela il desiderio di sopravvivere. La mia risurrezione nella lingua tedesca è l’unica cosa che ho ricostruito».


La raccolta di articoli, reportage letterari e saggi, che compongono Le lupe di Sernovodsk (Keller, 197 pagine, 15 euro, traduzione dal tedesco a cura di Alice Rampinelli), coprono quindici anni, dal 1995 al 2011. Brežná ha seguito gli eventi e la guerra ceceno russa sul campo in qualità di reporter per il giornale svizzero Tages-Anzeiger di Zurigo. Slovacca, classe 1950, vive e lavora tuttora in Svizzera, dove emigrò nel 1968. Dopo gli studi di slavistica, filosofia e psicologia, all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato l’attività pubblicistica.

Questi reportage sulla Cecenia rappresentano anche una questione privata. Brežná posa sulla crudeltà insensata di una guerra, sostanzialmente considerata dall’Occidente un affare interno russo, lo sguardo dei propri vent’anni, dello sradicamento culturale vissuto. «Ci lasciammo alle spalle il nostro paese nella sua oscurità familiare e ci avvicinammo alla luminosa terra straniera», recita l’incipit di Straniera ingrata (Keller, 150 pagine, 14.50 euro). La madre di Brežná aveva sete d’emigrazione, senza accorgersi che «la luce sgargiante della terra straniera divorava anche le stelle».

Nel Caucaso sconosciuto rintraccia la dinamica del suo stesso rapimento: settembre 1968, una Skoda grigia targata Bratislava corre veloce verso l’Austria e una ragazzina, insieme alla madre in fuga, si percepisce senza voce, radici e storia in un posto vuoto che non vuole abitare. «Le lingue vivono tra noi, gironzolano qua e là o accennano una danza, crepitano, ristagnano, mormorano. Siamo noi che nutriamo e vestiamo le lingue, tanto da renderle sazie o trasandate, denutrite o eleganti», leggiamo nelle pagine di Straniera ingrata. A Sernovodsk Brežná comincia dall’ascolto del silenzio e dalla descrizione dei linguaggi altri:

«(…) Di fronte a una casa ridotta in cenere c’era un uomo di mezz’età con il volto immobile, che apparentemente non sapeva cosa fare; (…) Sopra il puzzo della decomposizione risuonava il coro degli animali; (…) le donne sembrano lupe che emettono lamenti forti composti da una sola A». Sulle rovine il silenzio tuttavia non è apocalittico. Due donne hanno udito un suono familiare. Si armano di ascia e spranghe di metallo per liberare l’ingresso di una stalla: «Sula si rivolse agli animali, e il suo ceceno ricco di consonanti risuonò affettuoso. Il villaggio si riempì di commoventi scene di ritrovamento, gli animali che si avvicinavano alle donne le guardavano».

Eppure la distruzione di Sernovodsk per lei rimane senza volto. Brežná indossa lo stesso foulard delle vedove od orfane cecene, conosce bene la loro lingua, mantenendo la dignità propria della giusta distanza. Ci spiega la difficoltà di lavorare sulle immagini che affollano la mente. Usa il verbo stenografare. Stenografare nello spirito dei fatti la guerra. Poi arriva il tempo dell’analisi critica della follia dei dettagli, del possibile discernimento della forma di vita che resiste sempre.

Quel che colpisce dei reportage e dei saggi di Brežná è il rispetto dei civili ceceni, di questo piccolo popolo di montagna, per i morti, dinnanzi all’affermarsi di una civiltà della morte. Sotto le bombe russe escono dai rifugi per mettere al riparo esistenze carbonizzate, alle quali restano legati quanto a coloro che sopravvivono. I bambini disegnano carri armati ed elicotteri. I ragazzini corrono a piedi nudi sui detriti e col pugno chiuso urlano: «Allahu Akbar». Le lupe di Sernovodsk è una guida utile anche per comprendere quel che sta avvenendo nel cuore dell’Europa e quale realtà producano errori indiscriminati nella cosiddetta lotta al terrorismo. «Noi moriamo con Allahu Akbar sulle labbra, perché il mondo guarda il nostro sterminio e non dice nulla. Ci è rimasto solo Dio. Pronunciamo il suo nome perché pensiamo sia dalla nostra parte, dalla parte della giustizia», le dicono.

Brežná spiega in modo preciso quale rischio si corra quando qualunque ceceno viene definito potenzialmente un terrorista e il confine labile sul quale si muove chi si considera vittima, a fronte della «perdita cosmica della dimora, di un generale abbandono», alimentando la catena di autodistruzione. «Alcune vittime sono diventate poi kamikaze portatori di una bomba di cui volevano condividere l’esplosione. Dopo che l’anima era esplosa, doveva farlo anche il corpo». E aggiunge in un passaggio significativo a proposito di Šamil Basaev, islamista, indipendentista, leader dell’insurrezione anti-russa morto nel 2006:

«La gente che si vergogna si può facilmente manipolare con promesse sulla fine della vergogna. Il redentore, Basaev, insegna alla gioventù di orfani come evadere alla vergogna e regala loro cinture esplosive. Non deve arruolare nessuno, chi si vergogna si offre volontario».

Un nemico con tendenze fanatiche, che consapevolmente sacrifica il proprio popolo per la lotta, è utile alla guerra, scrive Brežná.

Il 14 novembre 1999 Vladimir Putin firmò un pezzo, Why we must act, sul New York Times col quale intendeva spiegare agli americani la necessità della seconda guerra ceceno russa, per fronteggiare l’insorgenza nel Caucaso del Nord delle milizie islamiste, i separatisti ceceni accusati di aver colpito Mosca con attacchi terroristici. Il 13 settembre del 1999 l’esplosione di un edificio nel sud-est della capitale russa causò la morte di 118 persone. Il 31 agosto altri attentati avevano causato 175 vittime. Al tramonto di El’cin, l’allora primo ministro intendeva rimettere sotto controllo stringente dello Stato tutti i soggetti federati. La guerra al terrorismo ammanta di autorevolezza Putin, che sprona le truppe russe entrate a settembre nella piccola repubblica separatista.

Nell’editoriale sopracitato Putin prefigurava lo scenario della nascita di una Repubblica islamica transnazionale:

«(…) Proteggere i propri cittadini dal pericolo è un dovere solenne di tutti i governi. Gli americani questo lo capiscono. Il terrorismo oggi non conosce confini. I terroristi hanno legami e ramificazioni su vasta scala. Sappiamo che la violenza che emana la Cecenia è in gran parte finanziata dall’estero. Sappiamo che Basaev, chiamato il Signore della guerra ceceno, riceve assistenza sul terreno da chi ha un dossier simile a quello di Osama bin Laden. Riluttanti, siamo intervenuti. Il nostro obiettivo immediato è di liberare la Cecenia da coloro che mettono in discussione la sicurezza dei ceceni e dei russi. E cerchiamo anche di restituire una vita civile al popolo ceceno, vittima di deprivazioni, avendo vissuto per anni sotto la pressione di gangs criminali armate».

La prefazione del libro riporta un articolo del marzo 1996, nel quale Anna Politkovskaya riconosce il coraggio e la lucidità del lavoro di Brežná già all’epoca della prima guerra cecena. Cita uno stralcio dell’intervento di quest’ultima alla Conferenza di Mosca sulla Cecenia, dopo essere penetrata a Sernovodsk insieme alla donne cecene, alle quali l’esercito russo aveva concesso qualche ora per seppellire i propri morti:

«Dopo tutto questo, di cosa dovrei scrivere? Del livello spirituale del Vostro Paese, che permette a soldati giovanissimi di penetrare nelle case cecene, di saccheggiarle, di fare a pezzi ogni cosa e addirittura di portarsi via la biancheria intima femminile, di fare i propri bisogni in salotto, di bere vodka, di lasciare siringhe vuote in giro. Quello che non sono riusciti a rubare hanno crivellato di colpi. Faccio fatica a comprendere quello che ho visto. Che cosa ne sarà di questi ragazzi sporchi, affamati, corrotti, che hanno tutta la vita davanti, una volta tornati a casa?»

E poi Politkovskaya riprende un’altra domanda posta dalla relatrice: «Dove sono finiti gli intellettuali russi e gli osservatori internazionali?»

Brežná riserva poche righe al primo Putin: «L’uomo nuovo della Russia si rivela il figlio cresciuto male, che spara colpi attorno a sé per dimostrare di essere un uomo. Sì, la distruzione serve al figlio per svincolarsi, come la violenza che permette all’uomo di liberarsi». Ma quel che è più interessante è l’analisi profonda di un rapporto materno sociopolitico patologico: «Madre Russia esiste solo attraverso la possessione del figlio. Un duplice autismo è alla base della società e politica russa. Non avviene alcuna interazione tra due centri separati l’uno dall’altro. Si resta prigionieri di quella simbiosi arcaica e irrisolta tra la madre e il figlio ormai cresciuto». Il governo materno garantisce l’impunità.

E ancora: «Le aspirazioni di autonomia di un popolo minuscolo, che fa del diritto alla delimitazione degli spazi un architrave per definire i concetti di dignità umana e della separazione dalla madre fa il prerequisito per diventare uomo, dalla madre patria coloniale attraverso una guerra così accanita infiammano il figlio d’ira. Qui c’è qualcuno che osa realizzare i propri nostalgici desideri mancati».
Ciò che emerge dalla narrazione è l’autodeterminazione che in tempo di guerra le donne cecene hanno saputo conquistare, al di fuori delle rovine di casa. Oggi in un contesto caucasico tutt’altro che pacificato, i vincitori in un oceano di macerie cercano di rinchiuderle in quella che Brežná raffigura come una dimora a mala pena rattoppata, nella Grozny ricostruita della corte del presidente «vassallo» Ramzan Kadyrov, finanziata dai soldi russi, dove dilaga un sistema corruttivo  come racconta anche Jonathan Littell nel suo Cecenia, anno III (Einaudi).

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