di Gabriele Santoro
C’è una statistica che raffigura il percorso compiuto nell’ultimo decennio dall’Argentina per assicurare alla giustizia i criminali resesi responsabili di delitti durante la dittatura. Dal 1988 al 2005, dunque a trent’anni dal colpo di Stato, le condanne per crimini contro l’umanità, e altre fattispecie di reato, erano appena ventitré. Dal 2006 a oggi, a dieci anni dalla caduta delle leggi per l’impunità e dalla riapertura dei processi, quel numero è salito a 669 condannati e 62 assolti in seguito a 162 sentenze, la più recente delle quali nell’interessantissimo Dossier de sentencias pronunciadas en juicios de lesa humanidad en Argentina risale al 4 maggio a Rosario. Il 14 maggio del 1983 i militanti peronisti Eduardo Pereyra Rossi e Osvaldo Cambiasso furono sequestrati da militari in borghese presso il Bar Magnun, per poi essere torturati con l’elettricità in un capannone industriale. Successivamente li assassinarono, simulando uno scontro a fuoco. I loro corpi sono riemersi da una fossa comune. Per il duplice delitto il tribunale di Rosario ha condannato due poliziotti e altrettanti militari, assolvendone sei.
Sempre nel mese di maggio al Tribunal Oral en lo Criminal Federal n°1 di Buenos Aires è arrivato a destinazione dopo tre anni e sei mesi un processo chiave, storico. Sono state emesse condanne tra gli 8 e i 25 anni di reclusione per 15 dei 17 imputati. Reynaldo Bignone, il capo dell’ultima giunta militare argentina, è fra i condannati per l’Operacion Condor, l’associazione illecita transnazionale, riconosciuta dalla sentenza, dedita all’interscambio di informazioni d’intelligence, persecuzione, sequestro, tortura, omicidio e/o sparizione di dissidenti politici nel Cono Sur.
Parliamo della fragile costruzione teorica della dottrina della Sicurezza Nazionale, basata sulla dedizione completa, indiscutibile del cittadino alla nazione per il raggiungimento delle mete prefisse da potentissime strutture economiche e politiche contrarie agli interessi della grande maggioranza dell’umanità, ai principi di rispetto della dignità umana e dunque alimentate dalla strategia del terrore che superò i confini di un singolo paese per propagarsi come una malattia sociale.
Per comprendere la discrepanza statistica che intercorre tra il periodo 1988-2005 e il decennio 2006-2016, tornano utili le parole in un libro intervista (Editori riuniti/1988) dell’ex presidente Raúl Alfonsín, candidato radicale eletto nel 1983 al ripristino del sistema democratico. Alfonsín, il padre della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas che mandò a giudizio le Giunte militari, rilevando l’intima ripugnanza di vasti settori militari a svolgere una funzione subordinata al potere civile, spiega la genesi della Ley de Punto Final e del principio dell’obbedienza dovuta, che circoscriveva ai vertici delle forze armate tutta la responsabilità per le violazioni dei diritti umani. Nell’intenzione del legislatore questi leggi non avrebbero costituito un oblio ma la distinzione dell’autonomia decisionale dei militari.
Insomma occorreva dare una risposta politica ai processi, agire con maggiore prudenza per non mettere a rischio la democrazia a fronte dei focolai rivoltosi dei militari, che opponevano il proprio diniego alle citazioni giudiziarie.
«A metà marzo 1987 sono giunto alla conclusione che era necessario prendere misure drastiche perché a quel punto era prevedibile che la giustizia non sarebbe stata in grado di agire entro termini tali da non esporre a un grave rischio il già disgregato sistema di gerarchie all’interno dei vertici delle forze armate con immaginabili conseguenze per il sistema costituzionale», spiegò Alfonsín.
Poi, a cavallo del Novanta, si concretizzò la stagione degli indulti di Carlos Menem, bocciati nel 2006 per incostituzionalità dalla Cámara de Casación Penal.
Attualmente sono 537 le cause penali pendenti nei tribunali federali del paese, il 30% è giunto a prima sentenza, mentre il 47% è ancora nella fase istruttoria. Tra le cause in marcia spicca il maxi procedimento Esma, cominciato nel 2012.
Il picco delle sentenze, complessivamente cinquanta, è stato raggiunto nel biennio 2012-’13. Sempre nel 2013 si è impennata la curva degli imputati condannati, trentaquattro, per violenze sessuali. Nel biennio successivo è stato registrato un calo (21 nel 2014, 20 nel 2015).
Quest’anno la giustizia argentina, nell’ambito della Megacausa Menéndez La Rioja, ha emesso la prima condanna per aborto forzato, al quale fu costretta una detenuta. In un libro essenziale per capire, Strategia del terrore: il modello brasiliano (di Ettore Biocca – De Donato editore), pubblicato due anni prima del golpe argentino, colpisce al cuore la testimonianza dell’allora ventunenne Denise Peres Crispim. Viveva in clandestinità col compagno Eduardo. Fu arrestata il 23 giugno del 1970. Era gravida di sei mesi. Il resto è la cronaca di torture psicologiche e fisiche con le incessanti minacce di aborto.
Risuonano, insieme alla cronaca, le parole di Eduardo Galeano per dirsi quanto mai sia attuale la questione del rimedio all’impunità dei regimi dispotici: «La tortura presuppone una struttura malata incapace di governare senza di essa», (Biocca/1974). Correva l’anno 2006:
«(…) Nelle sale dove si tortura, un sistema, che pratica il crimine per spogliare paesi, si toglie la maschera. I burocrati del dolore, soldati e polizie sono solo strumenti di un potere che ha bisogno della tortura per assicurarsi ed estendere i suoi confini. Un sistema atrocemente ingiusto utilizza metodi atroci per durare. Questa macchina, che si nutre di carne umana, non serve per proteggere ma per terrorizzare la popolazione. Non serve per ottenere informazioni, si pratica per prevenire ribellioni, per castigare eresie, per umiliare dignità e seminare la paura», scrisse Galeano.
Il tempo delle lacrime non è quello della giustizia. In Argentina un passaggio critico è rappresentato dagli ultimi gradi del giudizio. La Cámara Federal de Casacion Penal ha revisionato il 25% del totale delle cause, confermando tutte le condanne e revocando qualche assoluzione. All’ultima tappa, la Corte Suprema di Giustizia, la percentuale scende al 17%. I dati della Procuraduria de Crimenes contra la Humanidad sembrano smentire le accuse di giustizialismo, secondo le quali i repressori sarebbero detenuti senza criteri ed eccezioni. Il 36% dei 2354 imputati è in libertà. Del 48% che è sottoposto a misura di carcerazione preventiva, circa la metà usufruisce degli arresti domiciliari.
Fra gli attuali 57 latitanti spicca il condannato in via definitiva Jorge Antonio Olivera, sul quale il Ministerio de Justicia y Derechos Humanos ha posto una taglia da due milioni di pesos, coinvolto nella vicenda della scomparsa di Marie-Anne Erize.
Carolina Varsky è un’avvocatessa, laureata alla Facoltà di Diritto dell’Università di Buenos Aires. Per una decade ha svolto la propria professione presso il Centro de Estudios Legales y Sociales. Dall’agosto 2013, dopo l’incarico nella Procuraduria de Narcocriminalidad, è la procuratrice e coordinatrice del Procuratorato di Crimini contro l’Umanità del Ministero Público Fiscal, un organo straordinario che gestisce non la giustizia ordinaria, bensì si focalizza sui crimini contro la vita e l’umanità, il narcotraffico.
Il MPF (Ministero Público Fiscal) non è un organo di nomina politica. Conforme alla Costituzione Nazionale Argentina, art. 120, è un organo indipendente con autonomia funzionale e autarchia finanziaria, che promuove atti di giustizia in difesa della legalità, degli interessi generali della società in coordinamento con le altre autorità della Repubblica. È guidato da un Procuratore generale della Nazione e dagli altri membri secondo legge, che godono di immunità funzionali e intangibilità di remunerazioni.
La PCCH (Procuraduria de Crimenes contra la Humanidad), che non dispone di una polizia giudiziaria, è stata presentata nel giugno del 2013, ereditando e strutturando il lavoro della Unidad de coordinacion y seguimiento de los causas por la violacion a los derechos humanos, messa in funzione nel 2007 dal procuratore Esteban Righi. L’attività di collaborazione della Procura è anche internazionale, inclusa l’Italia, per sostenere indagini e procedimenti che interessano alla giustizia argentina.
Varsky, è corretto sostenere che negli ultimi anni l’Argentina sia stata all’avanguardia, se la compariamo alla Germania o alla Spagna con i franchisti, nella battaglia pubblica per il riconoscimento delle responsabilità penali individuali negli anni della dittatura?
«Assolutamente sì. E sottolineo che i crimini del Franchismo vengono investigati anche in Argentina con l’applicazione del principio di giurisdizione universale».
Le Abuelas de Plaza de Mayo denunciano il depotenziamento di aree sensibili del Ministerio de Seguridad de la Nación, dedicate al sostegno delle politiche per i diritti umani, e hanno lanciato un allarme sulla disarticolazione del Grupo Especializado de Asistencia Judicial (GEAJ). Che cosa succede a oltre sei mesi dall’insediamento del presidente Macri?
«Sì, anche noi avvertiamo cambiamenti enormi, non solo per lo smantellamento di questo ufficio, ma anche per lo svuotamento di altri uffici nell’ambito dello stesso Ministero per la Sicurezza, nella Segreteria dei Diritti Umani. Si percepiscono cambiamenti nell’Unità del DDHH del Consiglio della Magistratura e della Corte Suprema di Giustizia. Posso solo dire che il nuovo governo, in conformità con la sospensione dell’implementazione della nuova legge del Ministero, ha diminuito gli investimenti. Le inquietudini per il clima, creato da questa volontà politica, sono state discusse e analizzate nell’ultimo incontro convocato da questa PCCH nell’aprile scorso».
Il sistema di relazioni, le complicità, aperte o nascoste, tessute per molti decenni per fare in modo che tutto fosse dimenticato sono ancora attive e quale potere esprimono?
«Continuano a essere attive e negli ultimi mesi sono cresciute. Tale situazione è visibile mediante svariate pubblicazioni sui quotidiani di diffusione nazionale. Le organizzazioni, che difendono gli imputati, hanno tenuto riunioni con funzionari politici, ponendo come questione centrale l’assenza per i loro clienti delle garanzie processuali. Sarebbero giudicati senza il rispetto delle prerogative della difesa. Lamentano di essere trattenuti in carcere, anche quando ritengono che potrebbero beneficiare degli arresti domiciliari. Negli ultimi anni hanno presentato ricorsi al sistema interamericano del DDHH».
Qual è la traccia più profonda del terrorismo di Stato tuttora ravvisabile nella società argentina?
«Non è soltanto una questione che concerne i sopravvissuti o i familiari delle vittime, anche se si cerca di addossare a loro ogni cosa. Le conseguenze della dittatura si avvertono nella vita quotidiana. Per esempio alcuni funzionari pubblici, non solo quelli appartenenti alle forze militari o di sicurezza, sono persone collegate e denunciate per crimini riguardanti il periodo della dittatura».
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