Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda, pag. 64
23 giugno 2016
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
Teju
Cole, scrittore, fotografo e critico per il New York Times, una delle
voci più interessanti della letteratura e delle arti d'oltreoceano,
sarà il protagonista della terza serata del Festival Letterature,
organizzata con l'Ambasciata degli Stati Uniti e l'American Academy,
presso la Basilica di Massenzio (ingresso dalle ore 20.30). L'autore
d'origine nigeriana, classe 1975, che, dopo l'esordio brillante di
Ogni giorno è per il
ladro, un
ritorno alle proprie origini, ha stregato la critica e i lettori su
scala mondiale con il libro bellissimo Città
aperta, leggerà
un testo inedito dal titolo
Memoria e uguaglianza. Cole
dividerà il palco con Wu Ming 2 e 4 e Vitaliano Trevisan,
accompagnati dalla musica di Mokadelic. La casa editrice Contrasto
ha da poco pubblicato un nuovo lavoro di Cole: un diario visivo che
testimonia le sue peregrinazioni nel mondo e ne offre la cifra
stilistica.
Cole, nel memoir Punto d'ombra scrive che utilizza la macchina fotografica come un'estensione della memoria. Qual è la relazione creativa con la scrittura?
«Questo libro assomiglia a una raccolta di poesie, alla quale chiediamo innanzitutto se abbia espresso la verità. Le foto non sono manipolate. Mi interessa creare un momento, un luogo dove avvenga qualcosa di intenso. Foto e parole emettono vibrazioni differenti, che metto insieme. Il sentimento, la storia e la fotografia sono reali, ma la costruzione della relazione fra di esse è costruita come una poesia».
In che modo sappiamo quando un fotografo ci immerge, procaccia la vita e non riproduce pregiudizi preesistenti?
«La fotografia mantiene una grande potenza quale forza di testimonianza, ma sappiamo che può mentire tanto con l'analogico quanto col digitale. Per il fotografo credo sia più importante la ricerca della giustizia rispetto alla neutralità, che è il linguaggio del potere. La questione è complessa, tuttavia occorre affrontarla. Più che Photoshop, il problema consiste nella mancanza di immaginazione nel mostrare con attenzione e rispetto la vita. Recentemente ho trascorso tre settimane in Libano e la presenza dei rifugiati siriani rappresentava anche un'occasione per un reportage fotografico. La sfida che dovremmo porci è trovare nuove modalità per raccontare fuori dal circuito economico censorio delle immagini».
A proposito del Libano, in Punto d'ombra lei rivela l'ammirazione per Gabriele Basilico.
«Sì, è uno dei fotografi che più ammiro. Mi ha fornito la risposta alla nozione del ritrarre uno spazio vuoto. La figura umana con Basilico sa attivare lo spazio, e quand'anche questa sia assente lo stesso spazio emana energia. Ho pensato molto al suo lavoro rispettoso delle rovine di Beirut».
Il cosmopolitismo è un tratto fondamentale della sua biografia e prende sostanza nei suoi scritti. In un mondo così individualista e pieno di dolore, quali condizioni consentono la conversazione fra diversi?
«Il senso dell'uguaglianza fra gli interlocutori: non parliamo a, ma con. Il discorso deve essere inclusivo oltre le differenze. L'uguaglianza, letteralmente intesa, fra le persone è la condizione irrinunciabile».
Ha commentato l'elezione del nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano cosmopolita, dicendo: «I simboli sono importanti, ma vediamolo all'opera». Per che cosa ricorderemo Obama?
«È stato un presidente migliore di chi lo ha preceduto, ma credo avrebbe potuto fare di più. Obama è l'espressione massima del pensiero neoliberale. Il nodo centrale irrisolto è la guerra senza fine. Sarà ricordato come il primo presidente nero, per il suo stile molto attrattivo ma anche per l'espansione dei poteri presidenziali che si riverberà sulla prossima elezione».
Cole, nel memoir Punto d'ombra scrive che utilizza la macchina fotografica come un'estensione della memoria. Qual è la relazione creativa con la scrittura?
«Questo libro assomiglia a una raccolta di poesie, alla quale chiediamo innanzitutto se abbia espresso la verità. Le foto non sono manipolate. Mi interessa creare un momento, un luogo dove avvenga qualcosa di intenso. Foto e parole emettono vibrazioni differenti, che metto insieme. Il sentimento, la storia e la fotografia sono reali, ma la costruzione della relazione fra di esse è costruita come una poesia».
In che modo sappiamo quando un fotografo ci immerge, procaccia la vita e non riproduce pregiudizi preesistenti?
«La fotografia mantiene una grande potenza quale forza di testimonianza, ma sappiamo che può mentire tanto con l'analogico quanto col digitale. Per il fotografo credo sia più importante la ricerca della giustizia rispetto alla neutralità, che è il linguaggio del potere. La questione è complessa, tuttavia occorre affrontarla. Più che Photoshop, il problema consiste nella mancanza di immaginazione nel mostrare con attenzione e rispetto la vita. Recentemente ho trascorso tre settimane in Libano e la presenza dei rifugiati siriani rappresentava anche un'occasione per un reportage fotografico. La sfida che dovremmo porci è trovare nuove modalità per raccontare fuori dal circuito economico censorio delle immagini».
A proposito del Libano, in Punto d'ombra lei rivela l'ammirazione per Gabriele Basilico.
«Sì, è uno dei fotografi che più ammiro. Mi ha fornito la risposta alla nozione del ritrarre uno spazio vuoto. La figura umana con Basilico sa attivare lo spazio, e quand'anche questa sia assente lo stesso spazio emana energia. Ho pensato molto al suo lavoro rispettoso delle rovine di Beirut».
Il cosmopolitismo è un tratto fondamentale della sua biografia e prende sostanza nei suoi scritti. In un mondo così individualista e pieno di dolore, quali condizioni consentono la conversazione fra diversi?
«Il senso dell'uguaglianza fra gli interlocutori: non parliamo a, ma con. Il discorso deve essere inclusivo oltre le differenze. L'uguaglianza, letteralmente intesa, fra le persone è la condizione irrinunciabile».
Ha commentato l'elezione del nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano cosmopolita, dicendo: «I simboli sono importanti, ma vediamolo all'opera». Per che cosa ricorderemo Obama?
«È stato un presidente migliore di chi lo ha preceduto, ma credo avrebbe potuto fare di più. Obama è l'espressione massima del pensiero neoliberale. Il nodo centrale irrisolto è la guerra senza fine. Sarà ricordato come il primo presidente nero, per il suo stile molto attrattivo ma anche per l'espansione dei poteri presidenziali che si riverberà sulla prossima elezione».
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