venerdì 16 settembre 2016

Le due Istanbul di Buhran Sönmez

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di Gabriele Santoro

«Gli scrittori credono nell’osservazione e nella contemplazione, mentre i governi confidano nella sorveglianza. E noi, scrittori, osserviamo tutto, inclusi i governanti quando sono impegnati a mantenerci sotto sorveglianza», dice Burhan Sönmez. A Istanbul il pane e la libertà erano due desideri che richiedevano di essere l’uno schiavo dell’altro. «Si sacrificava la libertà per il pane o si rinunciava al pane per la libertà», ammette uno dei quattro personaggi che animano i dieci capitoli di Istanbul Istanbul (nottetempo, 299 pagine, 17 euro, traduzione di Anna Valerio).


In questo romanzo Sönmez mette insieme quattro uomini: un dottore, un barbiere, uno studente e un vecchio rivoluzionario incarcerati in una stanza sotterranea, sottoposti a interrogatori e a torture indicibili. I quattro si raccontano storie, facendo risplendere le stelle nell’oscurità che opprime Istanbul. Coltivano la possibilità che la Istanbul di sopra non li dimentichi, in fondo «il cambiamento e la bellezza della città dipendevano dal potere delle persone di cambiare e diventare più belle».
L’autore, classe 1965, figlio dell’Anatolia di origine curda, è un insegnante di letteratura all’Università Odtü di Ankara e un avvocato specializzato in diritti umani che vive tra Cambridge e Istanbul, dove è tornato dopo un periodo di esilio. Ha partecipato ai moti di piazza Taksim dei quali è stato tra i protagonisti e narratori.

Già nel cuore degli anni Novanta Sönmez ha sperimentato sulla propria pelle la violenza delle forze di sicurezza turche. In seguito a uno scontro fisico restò gravemente ferito, in pericolo di vita. È stato curato in Inghilterra con il sostegno della fondazione Freedom from torture – Medical Foundation for the Care of Victims of Torture. «Confinato a letto per molti mesi – ha raccontato –, le uniche cose che potevo fare erano guardare la televisione e scrivere appunti su qualsiasi cosa immaginassi. Appunti che poi si sono aggrovigliati in storie. Ho realizzato che avrei dovuto scrivere, e ho iniziato a credere alle cose belle che possono scaturire da un brutto incidente».


Sönmez, le sue due Istanbul, quella di sotto, che insegue l’anelito di giustizia e libertà, e quella di sopra, distratta e frenetica, possono costruire un linguaggio comune?
«Dipende dalle condizioni sociali e politiche. Avvenne in Francia durante l’Affaire Dreyfus. Oggi pensiamo che questo sia possibile più di ieri, perché viviamo nell’epoca della comunicazione digitale e tutto sembra aperto a tutti. Ma non funziona così. È la pornografia della verità. È come se ci fossero due mari in uno solo. L’abisso è per chi lotta, l’altro mare in superficie è invece per la maggioranza dei vivi che scruta l’orizzonte senza mai coltivare la profondità dello sguardo».

La tortura è un’epidemia che non debelliamo.
«Uso le parole di uno dei miei personaggi: “Vogliono che io soccomba al dolore, che rinunci al mio amore. Vogliono che smetta di credere in me stesso e a Istanbul e che diventi come loro. Fanno a pezzi il mio corpo perché vogliono che la mia anima assomigli alla loro. Non si accorgono che la mia fiducia in questa città diventa sempre più forte”».

La sua interpretazione del tempo nel romanzo è molto interessante. Quale valore assegnano i personaggi al passato, al presente e al futuro?
«Questo è l’obiettivo del mio romanzo: mostrare che un flusso diverso del tempo potrebbe essere possibile dividendo lo spazio orizzontale, cosicché il tempo possa muoversi dal sottosuolo verso la superficie e viceversa. Non è più come un fiume che fluisce dalla sorgente al delta. La necessità vitale consiste nel riappropriarsi del tempo uscito dalla storia per entrare in quello della cella».

Qual è l’intreccio tra letteratura e politica nella sua vita?
«Non rappresento la figura idealizzata del letterato. Sono sempre stato immerso totalmente nella politica. Quando nasci in un paese come la Turchia e hai un residuo di coscienza non puoi rinunciare a litigare, a schierarti contro realtà ingiuste. Terry Eagleton una volta disse: “Se sei un irlandese e vuoi essere uno scrittore ma non hai avuto un’infanzia tribolata non hai alcuna possibilità”. È così, lo stesso. Qui tutte le volte che cominci a discorrere di letteratura, arte poi la conversazione finisce necessariamente con la politica. Ho il sogno che un giorno ogni dibattito politico scivoli verso la letteratura».

Lei oggi in Turchia è un uomo libero di esprimere le proprie opinioni?
«Al momento più di cento giornalisti sono reclusi in prigione. Una scrittrice illustre come Asli Erdogan è stata arrestata per aver scritto sul giornale pro-curdo Ozgur Gundem. La nostra principale linguista, settantenne, Necmiye Alpay è stata arrestata per aver scritto e domandato una soluzione pacifica per la questione curda. È una persona garbata, sincera e pacifica con cui ho lavorato per due anni al Peace Council. Se lei non è al sicuro credo che nessuno possa sentirsi tale in questo paese. Ciò non significa che dovremmo arretrare. Dobbiamo stare in piedi più forti di prima per mantenere l’onorabilità del nostro intelletto».

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