martedì 27 settembre 2016

Bravi e cattivi. Gli italiani, la guerra, la memoria


di Gabriele Santoro

1943-1945: I «bravi» e i «cattivi» (Donzelli editore, 110 pagine, 24 euro) è un’interessante raccolta di cinque saggi, densa per contenuti pur nella foliazione limitata, che propone una comparazione del percorso compiuto dalla Germania e dall’Italia nell’elaborazione di una memoria condivisa e consapevole sugli ultimi anni della seconda guerra mondiale.

Il volume è stato curato da Massimo Castoldi, filologo e critico letterario, direttore della Fondazione Memoria della Deportazione di Milano. Thomas Altmeyer, direttore scientifico dello Studienkreis Deutscher Widerstand 1933-1945 e professore di didattica della storia presso la Goethe Universität di Francoforte, apre il libro con una riflessione sul complesso processo di recupero dei luoghi della memoria del nazismo e della fondazione dei memoriali, che solo dagli anni Sessanta ha conosciuto uno sviluppo intenso. Nel 1977 il ministero della Giustizia della Repubblica Federale riconobbe ufficialmente 1600 siti come campi di concentramento e unità esterne dei lager negli ex territori del Reich. La maggior parte dei memoriali fu inaugurata tra gli anni Ottanta e Novanta, quando si concretizzò l’istituzionalizzazione e il pubblico riconoscimento degli stessi e delle loro attività. Il ricordare è stato a lungo una lotta solitaria dei superstiti della Resistenza e delle persecuzioni. E oggi sono poste nuove sfide nell’ambito della divulgazione e della tutela di una memoria non limitata solo ai grandi campi di sterminio.

L’analisi poi si sposta in Italia con i testi degli storici Filippo Focardi, Luigi Ganapini, Raoul Pupo e la riflessione interdisciplinare di Paolo Jedolowski, professore di sociologia all’Università della Calabria. Il primo problematizza lo stereotipo culturale del “bravo italiano”, opposto al feroce tedesco, teso declassificare o silenziare le nostre responsabilità belliche. Ganapini ricostruisce con efficacia il contesto dell’otto settembre, che individua come lo spartiacque dell’incapacità italiana di elaborare una memoria comune. Pupo invece affronta il quadro dei conflitti sul confine orientale, anche qui in opposizione a una lettura e autorappresentazione positiva e vittimistica degli italiani in guerra. Infine Jedlowski fornisce le chiavi interpretative di una memoria che corrisponda all’assunzione di responsabilità.


Castoldi, c’è una scena del recente film Lo Stato contro Fritz Bauer che ricorda La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, meritoriamente menzionato da Jedlowski. Il procuratore generale Bauer guarda dal finestrino della propria macchina e mostra al collega più giovane un boia nazista, riciclatosi come panettiere. L’oblio è l’unica strada dopo la guerra per ristabilire una convivenza?
«No, è il contrario, è la memoria consapevole. Il film di Vancini – come spiega Jedlowski – è un tentativo di riproporre alla memoria nella sfera pubblica un ricordo non edulcorato del fascismo e delle responsabilità collettive a riguardo. Il soggetto, ampiamente rivisto, deriva da un racconto di Bassani. Nel 1943 a Ferrara un farmacista assiste all’eccidio di undici cittadini per mano di fascisti della Repubblica Sociale. La moglie, che rientra dall’appuntamento con l’amante Franco che è uno dei figli degli assassinati, lo sa. Il gerarca fascista che aveva ordinato l’assassinio sospetta il farmacista, e lui risponde: “Dormivo”. Il testimone resta silenzioso e Franco fugge in Svizzera, rifiutandosi di ascoltare la verità.

Venti anni dopo Franco torna in città sposato per una breve vacanza. Il gerarca assiste a una partita di calcio al bar. I due si riconoscono e si stringono la mano. Alla moglie dice che è “un vecchio fascista” e “non credo abbia mai fatto nulla di male”. È questa la memoria pacificata? Addirittura i produttori del film chiesero a Vancini di attribuire l’eccidio ai nazisti. Episodi come questo furono numerosi nell’immediato Dopoguerra. Questa storia rappresenta un fatto collettivo. Oggi non sussistono più le ragioni, pur discutibili, di quegli anni, quando la tensione per possibili conflitti civili era alta in clima anche di Guerra Fredda. Ora abbiamo il dovere di riappropriarci completamente della nostra memoria, riconoscendo i crimini che gli italiani hanno commesso».

Lei nell’introduzione al testo cita il gesto del Cancelliere socialista Willy Brandt. Che cos’è la memoria autocritica alla quale richiama Jedlowski?
«Il 7 dicembre 1970 durante una sua visita a Varsavia Willy Brandt si inginocchiò di fronte al monumento in memoria della distruzione del ghetto della capitale polacca. Si trattò di una chiara ammissione di colpa per quanto commesso dal popolo tedesco, che Brandt rappresentava pur senza essere in alcun modo lui responsabile di quella vergogna storica. È la memoria di ciò di cui c’è da vergognarsi che conserva il ricordo dei torti compiuti verso gli altri. La memoria autocritica soppianta quella autocelebrativa, rivendicativa che spesso è diventata memoria istituzionale. Per usare le parole del filosofo camerunese Achille Mbembe: “La memoria è soprattutto una questione di responsabilità nei confronti di qualcosa di cui spesso non si è l’autore”».


E l’Italia?
«In Italia è prevalso il vittimismo. Fatti salvi gli eroi della Resistenza, ci sono state le vittime. Un popolo che in qualche modo ha subito il fascismo, la guerra, il nazismo ma non è stato protagonista. Non ha responsabilità collettive nella vicenda del fascismo. Chi ha fatto la guerra? Si è diffuso uno stereotipo innocentista, una cultura della non responsabilizzazione che ci ha affrancato da evidenti responsabilità storiche. Non è un caso che si sia venuto piano piano a rimuovere il ricordo della guerra di Etiopia: solo nel 1996 il ministero della Difesa e degli Esteri hanno ammesso l’utilizzo di agenti chimici in Etiopia da parte del nostro esercito. I massacri perpetrati dagli italiani nei Balcani, gli stessi eccidi nel territorio nazionale non sono stati tutti per mano tedesca. Milano è piena di luoghi che rievocano eccidi dove i nazisti non c’entrano niente: decretati ed eseguiti per mano fascista».

Thomas Altmeyer racconta la memoria rimossa e ritrovata in Germania. Qual è il futuro dei memoriali?
«Come evidenzia lui, in Germania i primi decenni del secondo dopoguerra sono stati segnati dagli imperativi di dimenticare e rimuovere. Anche grazie al Movimento per la fondazione dei memoriali è stata costruita poi una topografia degli stessi ampia e complessa che coinvolge tutto il paese. Attualmente in Germania esistono cento memoriali, ossia istituzioni che rendono accessibile un sito di interesse storico, illustrandone le caratteristiche con un’esposizione permanente. La memoria storica del nazionalsocialismo è stata una conquista dal punto di vista sia politico sia sociale. È stato un percorso lento che in Germania è stato facilitato e potenziato certamente dalla riunificazione. In Italia siamo paradossalmente indietro rispetto alla Germania, nonostante fossimo partiti prima. È ancora parziale la valorizzazione dei luoghi di memoria, molti non esistono più o sono sconosciuti. Il processo sta maturando ma molto faticosamente proprio per le contraddizioni di fondo che sottolineiamo nel volume. Oggi la domanda non è più se ricordare, ma come gestire la memoria».

Altmeyer raffigura la sfida incipiente per la nostra cultura posta dalla progressiva perdita della memoria culturale parlante. Che cosa comporterà la scomparsa dei testimoni diretti dell’orrore?
«Viviamo nell’ultima fase dell’epoca della testimonianza diretta. Nel cuore di molte persone i sopravvissuti alle persecuzioni e alle stragi naziste e fasciste hanno lasciato segni indelebili, commoventi. La perdita dei sopravvissuti è dolorosa, ma in futuro si dovrà tradurre in una visione condivisa della storia. La testimonianza è stata in gran parte raccolta. I testimoni hanno scritto o hanno rilasciato interviste. Noi possediamo questo materiale. Ora lo spazio è per gli storici, i quali devono lavorare su questo materiale, vagliarlo, confrontarlo con altre fonti, metterlo in relazione, farlo rivivere in una dimensione più critica, più complessa. Questa è la prospettiva dei prossimi venti anni. Non è un caso che in Germania siano sorti e stiano continuando a sorgere centri studi di didattica della storia, proprio perché si vuole rielaborare, rimettere insieme criticamente questo materiale. Il futuro sarà proprio ragionare, riflettere, interpretare criticamente queste testimonianze. In Germania lo stanno facendo e bisogna farlo anche noi».

Nel proprio saggio Focardi mette in discussione il binomio del «bravo soldato italiano» e del «cattivo tedesco», collocando temporalmente la sua formazione tra l’armistizio e la firma del Trattato di pace nel 1947.
«Si sono consolidati il mito del “cattivo tedesco”, nemico comune, responsabile della conduzione criminale del conflitto, con rimozione delle responsabilità italiane nella guerra dell’Asse, e quello speculare del “bravo italiano”, con conseguente operazione di autolegittimazione politica, all’inizio per evitare una pace punitiva. Tanto la monarchia, la diplomazia italiana, tutti coloro che erano desiderosi di liberarsi dalle troppe complicità con il regime, quanto le stesse forze antifasciste giunte al governo cercavano nel mito del “bravo italiano” una legittimazione interna e internazionale. Si è cercato di esaltare al massimo il contributo italiano in direzione anti tedesca, separando le responsabilità italiane da quelle della Germania, perché era nell’interesse sia degli alleati sia dell’Italia, che mirava a un trattamento diverso per l’accordo di pace».

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