mercoledì 6 dicembre 2017

«Negroland, dove i neri sono ancora pedine». Intervista a Margo Jefferson

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-25

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«Ci piace pensare che la storia sia un libro, e quindi di poter girare pagina, muovere il culo e andare avanti. Ma la storia non è la carta su cui viene stampata. È la memoria, e la memoria è tempo, emozioni, e canto. La storia sono le cose che ti rimangono dentro», ha scritto Paul Beatty ne Lo Schiavista, che gli è valso il Man Booker Prize.

In queste parole ritroviamo il lavoro di ricerca sulla memoria e sulla lingua che Margo Jefferson, classe 1947, ha concretizzato nel potente Negroland (66thand2nd, 270 pagine, 16 euro, traduzione di Sara Antonelli); un'opera che riesce a unire il saggio storico alla classica autobiografia. Docente alla Columbia University, Jefferson ha scritto per anni di letteratura e teatro per Newsweek e The New York Times, vincendo nel 1995 il Premio Pulitzer per la critica. L'autrice è fra gli ospiti internazionali più attesi a Più libri Più liberi e interverrà sabato alle 15 (Sala Sirio). Stamattina la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria sarà inaugurata dal Ministro Dario Franceschini nella nuova sede del Roma Convention Center La Nuvola.

Lei, figlia dell'alta borghesia nera di Chicago, ha intrecciato in questo memoir il lessico familiare, le vicende biografiche con quelle politiche e sociali, il movimento per i diritti civili e quello femminista che hanno segnato il Novecento americano. Negroland rappresentava l'élite nera afroamericana: «Una piccola regione dell'America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi». A livello politico, educativo e sociale i membri di questa comunità immaginaria erano molto consapevoli del proprio lascito culturale come avanguardia degli afroamericani, seppure i percorsi individuali fossero in larga parte tracciati dalle discriminazioni.

Jefferson, Negroland, la sorta di terra natia nella quale lei è cresciuta, oggi mantiene gli stessi confini?
«Quel mondo è ancora profondamente cosciente della propria storia e delle tradizioni. Ha accesso a molti più privilegi e opportunità rispetto al passato, ma non creiamo equivochi: non viviamo in una società post-razziale. Il razzismo è vivo e prospera negli Stati Uniti. Il suprematismo bianco, la misoginia e l'omofobia sono tre delle identità settarie fondative degli Stati Uniti. Dico che la struttura di potere bianca procura un accresciuto, ma ancora limitato, numero di opportunità ai neri e alle altre minoranze.  Gli appartenenti a questo mondo relativamente avvantaggiato hanno accesso economico, sociale e culturale a privilegi un tempo riservati ai bianchi. Per quale ragione? Perché i loro antenati hanno lottato con forza, usando la legge, la politica e la cultura, tutti gli strumenti del Movimento per i diritti civili, affinché queste opportunità fossero più disponibili».

Il significato e dell'utilizzo della parola Negro come si sono evoluti dal 1947 a oggi?
«“Negro”, con la prima lettera maiuscola era una parola politicamente consapevole e progressista. In quale modo sono chiamati gli oppressi dai loro oppressori e come scelgono di chiamarsi a propria volta? È una questione assai complessa. Non molto tempo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, Negro era vista come parola più assertiva, risoluta, in fondo in lingua spagnola significa nero, orgogliosa, meno raffinata. Oggi negli Stati Uniti è una parola insidiosa, poiché come ha sostituito “colored people”, a sua volta negli anni Sessanta è stata soppiantata dalla più funzionale “nero”, e infine da quella globalizzata Afro Americano. Nel mio libro ho deciso di usarla come un segno e simbolo storico molto preciso».

Qual è stato l'impatto del femminismo nel suo riconsiderare le questioni di razza, genere e classe in America? Nel libro sembra impossibile scinderle.
«Il femminismo è stato cruciale! Concepisco razza, classe e genere come la nostra trinità secolare. Certamente dobbiamo analizzare i dettagli di ogni ambito, ma se vogliamo un'analisi completa della condizione delle persone è impossibile; è irrealistico e bugiardo separarli uno dall'altro. Essi si contagiano e coniugano a vicenda, danno forma alle nostre vite e alla psiche, al modo in cui guardiamo al mondo. Ora si parla di intersezionalità: razza, classe e genere sono gli esempi perfetti di come identità multiple modellino e siano modellate dalla discriminazione e dall'oppressione. E, allo stesso modo, da preziose tradizioni culturali e sociali».

È ancora vivo negli Stati Uniti il mito di una società senza classi?
«Direi che esiste ancora un potente e sleale mito della mobilità di classe nel Paese. Resiste la fantasia che chiunque sia dotato di sufficiente ambizione e che lavori duramente possa avere successo, possa farcela. Ma quel chiunque è quasi sempre in partenza un uomo bianco ed eterosessuale. È evidente che il nostro sistema politico ed economico ricompensa sempre meno le persone povere o appartenenti alla working class, anche quando sono maschi, bianchi ed eterosessuali. Ma per molti, come dimostra chiaramente l'elezione di Trump, il bisogno di credere nel mito è tuttora più forte di questa preoccupante realtà».

Qual è il ruolo dell'élite nera negli Stati Uniti?
«Ora è stata integrata più che mai nella struttura di potere bianca. Tuttavia i neri al vertice della piramide di potere sono ancora pedine, e coloro che hanno venduto i propri principi per arrivare in quella posizione non meritano la nostra ammirazione o il desiderio di emulazione. Vorrei che il ruolo dell'élite nera corrispondesse all'idea di sfidare le regole ingiuste e le conseguenze prodotte da tali strutture».

Lei è diventata una critica di successo in un ambiente professionale difficile, anche il giornalismo incarnava la segregazione. Poche persone nere hanno vinto il Premio Pulitzer. In quale modo ha vissuto la pressione dell'ambizione e l'urgenza di affermarsi in questo tipo di società?
«Innanzitutto devo rendere omaggio ai giornalisti neri e alle giornaliste che negli anni Sessanta hanno contribuito all'integrazione razziale nella professione, quando ero ancora una studentessa. Loro mi hanno consentito di assecondare l'ambizione e hanno reso possibile la mia carriera. Le pressioni, che oltrepassano l'ambizione, e si orientano verso un'idea di perfezione interiorizzata sono intense. Mi confronto con esse condividendo le paure, i sogni e la scrittura con gli amici e i colleghi che più o meno si trovano nella medesima posizione».

Nessun commento: