Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 22
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
«Morte agli ebrei!» è un grido vecchio, amaro e familiare per il giovane Mihail Sebastian, classe 1907, avvocato noto, critico letterario e autore teatrale a Bucarest fra le due guerre mondiali. Nello sguardo di questo figlio del Danubio, la patria in cui si identificava, acuto osservatore e testimone negli anni dell’ascesa del maresciallo Ion Antonescu del propagarsi dell’antisemitismo, c’è la lacerazione dell’indifferenza che in un giorno diverso dagli altri diventò odio e persecuzione.
«Questo antico grido di morte per anni risuona nelle orecchie della gente per bene, indifferente, afflitta da altri pensieri; per anni aleggia e riecheggia dappertutto, ma nessuno lo sente. E un bel giorno si risveglia dal silenzio che lo avvolgeva, e s’insinua in tutti i nascondigli, sotto ogni pietra», scrisse Sebastian nelle riflessioni che diedero forma a Da duemila anni (Fazi, 278 pagine, 17 euro, traduzione di Maria Luisa Lombardo), testimonianza preziosa dei mali non estinti del Ventesimo secolo. Nell’oscurità degli anni Trenta questo uomo di lettere, alla ricerca di senso in un mondo in disfacimento, provò a costruire un’isola nel naufragio del pensiero razionale e della verità: «Sebastian, sei un uomo pericoloso – dice Ştefan Pârlea, personaggio associato a Emil Cioran –. Troppo lucido per noi. A noi serve una generazione di uomini ormai stufi di essere sempre intelligenti».
Col montare dell’ostilità fascista Sebastian, amico fra gli altri dello stesso Cioran ed Eugen Ionescu, si sentì sempre più estraneo, impallidì davanti ai termini destituiti di fondamento della presunta questione ebraica, argomentati e sostenuti da insospettabili come Mircea Vieru, capo di un progetto per lo sfruttamento di una zona petrolifera nel villaggio di Uioara, con cui collaborava: «Non è possibile sopportare un milione e ottocentomila ebrei. Se dipendesse da me, cercherei di eliminarne alcune centinaia di migliaia. C’è uno spirito ebraico irritante da cui devo difendermi. Nella stampa, nella finanza, nell’esercito, dappertutto percepisco la sua oppressione». Sebastian smonta una a una, cominciando dal numero di ebrei presenti in Romania, le fake news e le sensazioni su cui Vieru, che considerava immune dall’antisemitismo, fondava la propria invettiva e la lotta «contro gli agenti della decomposizione».
L’edizione originale, De două mii de ani, fu stampata nel 1934 con Hitler già al potere. Due anni prima dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, Sebastian, all’apice della presenza nella vita culturale romena, si ritrovò privato della tessera di giornalista con la sostanziale cessazione dell’attività di avvocato. Evitò la deportazione, ma non la condizione dell’esiliato in patria, lasciandoci insieme al diario, salvato dal fratello Benu e custodito nell’Ambasciata d’Israele a Bucarest fino alla pubblicazione nel 1996, una delle cronache più rilevanti della progressiva affermazione del nazismo nella civile Europa. Amava Proust e Balzac, si cimentò nella lotta impari con il sentimento della malinconia mai cicatrizzato senza farsi attrarre dal vittimismo.
Il romanzo, che ha la struttura di un diario, si apre nel 1923, quando fu pubblicato per la prima volta in Romania il falso documentale Protocolli dei Savi di Sion, e leggiamo come l’università si sia trasformata da luogo del sapere in quello della discriminazione. Gli assalti, le botte, i picchetti per non fare entrare gli studenti ebrei in aula.
All’inizio, davanti alla crudele infondatezza teorica e all’assenza di immaginazione dell’antisemitismo, il narratore dall’animo cosmopolita ha la predisposizione che ritroviamo nel Diario 1941-1943 (Adelphi) di Etty Hillesum: «Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose». Nel 1933, quando termina il libro, però l’aria è sempre più irrespirabile soprattutto negli ambienti intellettuali. L’antisemitismo è destinato a segnare l’esistenza e conduce all’isolamento nel rifugio della scrittura. La violenza è legittimata dal discorso pubblico.
L’autore rifugge la trappola concettuale dello Stato nazione, non si riconosce nel Sionismo ed è appassionante, a tratti disperata, la conversazione con l’amico Sami Winkler in partenza: «La nave che lo porterà a Haifa solcherà fra le onde un cammino che chissà conduca verso una nuova storia giudaica. Condurrà anche a una pace giudaica? Non lo so, non credo. Duemila anni non possono essere soppressi da una partenza».
Sebastian rispose con parole limpide a chi poneva la questione dell’identità e dell’impossibilità dell’assimilazione ebraica in un contesto nazionale: «Lo Stato è libero di decretarmi nave, orso polare o macchina fotografica, non cesserò per questo di essere ebreo, romeno e danubiano. Certamente troppe cose. Ma tutte vere. Questa intesa è lenta, presenta scogli intimi, ma la soluzione è spirituale non politica». Da duemila anni è un invito tuttora valido ad accorgersi in tempo dei sintomi della malattia, prima che dinnanzi alle macerie resti solo lo stupore di chiedersi come sia potuto accadere.
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