Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
«Non abituarsi alla guerra, non avere paura, pensare allo sci, alla bellezza delle montagne che non sono lontane da Kabul e all'importanza che lo sci potrà avere nello sviluppo dell'economia di montagna», appuntò sul proprio diario la guida alpina Ferdinando Rollando. Il “Mullah dello sci”, scomparso nell'estate del 2014 sul Monte Bianco, era un esploratore coraggioso, che ha attraversato la terra sempre mirando al cielo: a vent'anni era custode di rifugi alpini, a quaranta reporter e cacciatore di montagne in Cina.
«Non abituarsi alla guerra, non avere paura, pensare allo sci, alla bellezza delle montagne che non sono lontane da Kabul e all'importanza che lo sci potrà avere nello sviluppo dell'economia di montagna», appuntò sul proprio diario la guida alpina Ferdinando Rollando. Il “Mullah dello sci”, scomparso nell'estate del 2014 sul Monte Bianco, era un esploratore coraggioso, che ha attraversato la terra sempre mirando al cielo: a vent'anni era custode di rifugi alpini, a quaranta reporter e cacciatore di montagne in Cina.
Correva il settembre 2010, quando Ian MacWilliam, responsabile stampa per la Aga Khan Foundation, contattò Rollando per un progetto suggestivo: sviluppare il turismo invernale in Afghanistan nella valle dei Buddha a Bamiyan, a 2500 metri di altezza, meta che negli anni Settanta attirava i giovani occidentali.
Bamiyan |
Da quella prima esperienza Rollando, giramondo classe 1962, ha saputo, usando le sue parole, far crescere tanta vita attorno alla speranza e al coraggio di pochi con un'idea innovativa di cooperazione. Il cielo di Kabul, la storia del Mullah dello sci (il melangolo, 220 pagine, 18 euro), curato da Antonio Bettatini, ci racconta la traccia profonda di un pensiero, che è stato avventura umana, espresso dalla parola Alpistan. La guerra non produce solo morte e distruzione del tessuto economico, avvelenandolo innanzitutto con la corruzione. Le persone iniziano ad assomigliare ad alberi con le radici recise con tutto ciò che comporta il non riconoscersi più nella propria terra. La neve era un elemento per riappropriarsi di una terra meravigliosa e martoriata dalla quale si è ancora costretti a scappare, e nella quale come dimostra la cronaca quotidiana tornare in sicurezza non è possibile.
Bamiyan possedeva enormi potenzialità per il turismo culturale e quello sciistico. Rollando con il progetto Alpistan immaginò, come una goccia in un oceano di bisogni, la cura di un territorio in stato di abbandono e di alimentare un turismo di montagna destinato a combattere la cultura generata dal welfare armato di un conflitto senza fine. «Una società distrutta dalla guerra e dall'economia di guerra, dove gli effetti maggiori degli aiuti internazionali sull'economia sono, per ora, un generale e progressivo arretramento di tutto il sistema di produzione del reddito. Lo sci non è certo la priorità degli afghani. Ma non si capisce da quale parte bisognerebbe cominciare per far muovere qualche pezzo “normale” di economia», scriveva il 14 febbraio del 2011.
Tra le fotografie molto belle, che arricchiscono il libro, ce n'è una che sembra fermare l'anima di Rollando. Lo scatto lo ritrae sorridente mentre si rotola sulla neve con il pakol, il cappello tajiko reso celebre da Massoud, il leone del Panjshir. Davanti a lui nove donne afghane, rompendo un tabù, ricambiano l'allegria e sono pronte per la prima lezione di sci: «L'evoluzione dell'Afghanistan, se ci sarà, passerà attraverso le donne. A dispetto di tanti soldi investiti in armamenti e ricostruzione, il vero nervo debole del sistema risiede nel ruolo della donna, la sua educazione, il suo potere».
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