giovedì 12 novembre 2009

Il "grande balzo" della Cina in Africa

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di Gabriele Santoro


ROMA (12 Novembre) – «Ni-hao». Per le strade di molte città africane i bambini hanno ormai imparato a salutare gli stranieri in cinese. Il nuovo «Grande balzo» verso il futuro della Cina si chiama Africa. Serge Michel e Michel Beuret, con le fotografie dell’italiano Paolo Woods, documentano in «Cinafrica» (ed. Il Saggiatore, euro 19.50, pag. 234) la presenza sempre più pervasiva del gigante asiatico nel continente africano e la rivoluzione geopolitica che ne scaturisce. Un reportage giornalistico d’altri tempi che ha toccato quindici paesi per comprendere come i cinesi siano riusciti a entrare nel cuore degli africani: conquistano la popolazione costruendo strade, dighe e ospedali e vanno d’accordo con i dittatori locali, perché i diritti umani sono da sempre l’ultimo dei problemi per Pechino.

Entro il 2010 gli investimenti della Cina in Africa potrebbero raggiungere i cento miliardi di euro: in Nigeria, Sudan e nella Repubblica democratica del Congo si concentrano le risorse più consistenti. Le imprese cinesi operanti sul territorio sarebbero già novecento. Nelle agenzie di viaggi della remote e sottosviluppate province cinesi campeggia la scritta: «Lavorate all’estero, realizzate i vostri sogni». Secondo stime attendibili sarebbero oltre cinquecentomila le «formiche silenziose» già emigrate in Africa. «Peng Shu Lin è seduto sul letto con la sua sola borsa nera sulle ginocchia. E’ pronto a trasferirsi per tre anni in Nigeria. “Qui in fabbrica guadagno 60 euro al mese - racconta Shu Lin nel libro - mentre in Africa avrei un salario di 373 euro. Al ritorno a casa con i soldi messi da parte potrò sposarmi e aprire persino un Internet café”».

A fronte di multinazionali occidentali che depredano a prezzi irrisori le risorse minerarie del sottosuolo africano senza lasciare alcuna ricchezza in loco, l’offerta di Pechino è destinata a soppiantare questo tipo di neocolonialismo economico. Le imprese cinesi, con il sostegno delle banche nazionali, garantiscono pacchetti completi, come spiega agli autori Ousmane Sylla ministro delle miniere guineano: «Una miniera, una diga, una centrale idroelettrica, una ferrovia e una raffineria, il tutto finanziato dalla Exim Bank of China (principale fonte di finanziamento dei progetti cinesi in Africa), che viene rimborsata in allumina. L’operazione a noi non costa nulla, ma crea lavoro, entrate fiscali, infrastrutture, energia».

«La Guinea produce ogni anno 20 milioni di tonnellate di bauxite. Sufficiente a fabbricare annualmente 200 miliardi di hard disk o 300 miliardi di lattine per bibite. Ma siccome il minerale viene esportato senza essere trasformato, senza creare un indotto lavorativo, valore aggiunto o entrate fiscali significative i suoi abitanti non hanno i soldi per comprarsi una lattina di birra». Una reciprocità virtuosa di interessi, chiamata vincente-vincente, che garantisce all’Africa di affrancarsi da questo paradosso secolare e alla Cina di soddisfare la voracità energetica del proprio impetuoso sviluppo.

Il mercato delle armi. In questo florido mercato, che dal 1997 al 2006 in Africa è cresciuto del 51%, la Cina è entrata prepotentemente a far concorrenza ai paesi del G8. «Nel periodo 2002-2005 il primo fornitore di armi all’Africa era la Francia, seguita dagli Stati Uniti (nell’anno fiscale 2007/08 i contratti di vendita Usa hanno toccato i 34 miliardi di dollari, ndr), Russia e Cina». «Dopo le riforme di Deng Xiaoping l’esercito cinese mette in piede dieci imprese. I loro nomi ora circolano ovunque in Africa: Norinco, Xinxing Corporation, Poly Group». Una buona parte dei machete che nel 1994 hanno sconvolto il Ruanda sono stati importati appositamente nel biennio precedente dalla Cina. Nel 2005 il gigante asiatico ha esportato quasi 100 milioni di dollari di armi in Sudan.«In Sudafrica la maggior parte delle rapine a mano armata viene realizzata con la pistola 9mm commercializzata dalla Norinco, arma che ha inondato il mercato sudafricano e tuttavia nessuna statistica doganale menziona il suo ingresso nel paese». Non stupisce la “morbidezza” di Pechino nei confronti dello Zimbabwe di Mugabe: «Nel giugno 2004 la Cina gli avrebbe venduto armamenti per una cifra di 240 milioni di dollari. Il 18 aprile 2008, tra il primo e il secondo turno delle elezioni presidenziali (mentre il mondo richiedeva sanzioni contro i brogli elettorali di Mugabe, ndr), i portuali di Durban per solidarietà con gli oppositori del regime si rifiutarono di scaricare sei container del cargo An Yue Jiang, contenenti 3080 casse con tre milioni di proiettili, 1500 razzi e 2700 proiettili da mortaio e diretti al ministero della difesa di Harare».

Cinafrica è una guida preziosa per chiunque voglia addentrarsi nelle complesse dinamiche africane. Il dato inequivocabile che si afferma è che gli sforzi messi in atto da Pechino «per raggiungere i propri obiettivi offrono all’Africa un futuro. La Cina ha recuperato un continente alla deriva, restituendogli un valore reale, tanto agli occhi dei suoi abitanti quanto all’estero».

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