di Gabriele Santoro
ROMA (12 Novembre) - Le copertine di Time, Newsweek, Internazionale e i servizi di molti quotidiani tra cui Le Monde e Le Figaro, ospitano regolarmente le fotografie di Paolo Woods. L’obiettivo del trentacinquenne fotoreporter, nato da genitori canadesi e austriaci, cresciuto in Italia e ora residente a Parigi, ha incontrato e raccontato la violenza e la paura delle guerre in Afghanistan e in Iraq, ha varcato le soglie proibite delle scuole clandestine dove si affollano per studiare le donne afgane e ha dato un volto agli “insorti” iracheni.
Nel 2004 il libro “American chaos” (reportage sul pantano Usa in Iraq) gli è valso il prestigioso premio World Press Photo Award.Woods ha sempre la valigia pronta con l’insaziabile curiosità di raccontare il mondo fuori dagli stereotipi. Un fotogiornalismo all’antica che senza l’ossessione dello scoop a orologeria coltiva i rapporti umani, non ruba gli scatti e percorre strade polverose per cercare storie che troppo spesso non fanno notizia. Si cala con rispetto in realtà spesso dure ed è in grado con lo scatto di restituirne la complessità emotiva e sociale. Nell’ultima opera, Cinafrica, Woods ha esplorato con i compagni di lavoro Serge Michel (corrispondente di Le Monde dall’Africa occidentale) e Michel Beuret (caporedattore della rivista L’Hebdo) quindici paesi africani catturando i fotogrammi della presenza cinese con le sue potenzialità e i suoi pericoli.
Cosa sta cambiando nell’Africa con gli occhi a mandorla?
«Cinafrica nasce dalla necessità di raccontare un’Africa diversa, non il solito stereotipo del continente con la mano tesa in richiesta di aiuto. L’investimento cinese ha una portata rivoluzionaria, che sta cambiando l’intero scenario africano. La Cina ha posato uno sguardo diverso. Il rapporto si gioca alla pari: gli Stati africani vengono trattati come business partner».
Non si corre il rischio di assistere a un film già visto: il neocolonialismo economico?
«Non lo definirei neocolonialismo, un termine carico di significati e che ha precisi riferimenti storici. Piuttosto il pericolo più incombente è l’affermazione di un capitalismo selvaggio, già motore del boom carico di iniquità cinese, dove i diritti dei lavoratori sono calpestati». Che tipo di rapporto avete instaurato nel libro tra fotografia e inchiesta giornalistica?«Da diversi anni lavoro con il giornalista di Le Monde Serge Michel. Dalla stretta sinergia tra reportage fotografico e inchiesta giornalistica nasce un prodotto più ricco, che ha un maggiore impatto sui lettori rispetto alle due modalità narrative prese singolarmente».
Viviamo nell’epoca del giornalismo embedded. Com’è possibile ancora muoversi in posti di frontiera?
«Con i ritmi dell’attuale sistema dell’informazione un quotidiano, per esempio, non dà più la possibilità a un inviato di passare molto tempo in un posto senza offrire in tempi ristretti un prodotto finito. Il nostro è un modo di fare giornalismo all’antica, dove la cura delle fonti primarie e la costruzione di un rapporto fiduciario è fondamentale. E non è per niente facile muoversi. Ho realizzato reportage fotografici in zone di guerra come l’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo, ma in Africa è stato ancora più difficile. Per ottenere l’accesso e i permessi giusti abbiamo passato anche tre settimane nello stesso posto».
Chi vive in condizioni difficili come affronta l’obiettivo delle fotocamere?
«Non si tratta mai di scatti rubati. La foto arriva dopo la conoscenza, che spesso si è poi protratta nel tempo. Si verificano anche situazioni di pericolo come per esempio nelle scuole clandestine frequentate da donne in Afghanistan: dove i loro sguardi trasmettono la sensazione di paura di essere scoperte e fotografate oltretutto da un occidentale».
Cosa prova quando con lo scatto fotografico cattura uno sguardo, una situazione particolare? «La molla più grande che ti spinge è sempre la curiosità. Per fare belle fotografie bisogna vivere il piacere della scoperta. Le sensazioni poi cambiano da situazione a situazione, da quelle più appassionanti a quelle più formali. Come scherza Serge Michel il momento del clic sulla macchina può essere paragonato al raggiungimento di un orgasmo. Potremmo definirla come una piramide di emozioni che raggiunge il picco più alto nella frazione di secondo dello scatto».
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