giovedì 6 ottobre 2016

Lo schiavista di Paul Beatty cerca l'America post razziale

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di Gabriele Santoro

«È illegale gridare “al fuoco” in un cinema pieno di gente, giusto?».
«Sì».
«Be’, io ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale».


Paul Beatty, classe 1962, radici losangeline, con Lo schiavista (Fazi Editore, 369 pagine, 18.50 euro, traduzione ottima di Silvia Castoldi), appena entrato nella short list del Man Booker Prize dopo aver vinto il National Book Critics Circle Award 2015, guarda al proprio paese, gli pone molte domande e lo dissacra, mettendolo allo specchio, senza coltivare la pretesa di ricevere risposte esaurienti.
Che cos’è il post racial e la sua genesi è databile? Al tramonto silenzioso della presidenza Obama, qual è l’esito della scelta di far passare sotto traccia la questione razziale? Beatty l’affronta col coraggio della satira, che è anche mezzo per impastare le mani nel dolore, interrogando, stuzzicando una storia che ammira, quella del Movimento per i diritti civili, e il tempo presente:

«(…) Il capo degli zombie (Martin Luther King Jr., ndc) sembra sfinito a forza di venir resuscitato ogni volta che qualcuno vuole ribadire la propria idea su ciò che i neri dovrebbero o non dovrebbero fare, possono o non possono avere. Non sa di essere in onda, e confessa sottovoce che se solo avesse assaggiato quell’intruglio non dolcificato, fatto passare per tè freddo ai banconi delle tavole calde negli Stati segregazionisti del Sud, avrebbe sciolto l’intero movimento per i diritti civili. Prima dei boicottaggi, dei pestaggi e degli omicidi. Posa sul podio una lattina di Diet Coke. “Le cose vanno molto meglio con la Coca-Cola”».

Il prologo è così denso da sembrare un romanzo nel romanzo nel quale percepiamo le urgenze dell’autore, che dieci anni fa ha curato l’edizione di Hokum: An Anthology of African American Humor, misurandosi col genere anche nei libri precedenti. Questo è il suo quarto romanzo, il secondo pubblicato in Italia, oltre a due raccolte di poesie.


Il narratore, il venduto (The Sellout, il titolo originale dell’opera), nell’incipit potente si fa carico del pregiudizio storicizzato: «So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente». Anche l’incipit di Slumberland (Fazi, 2010) lasciava subito il segno: «Noi neri siamo diventati mediocri e banali come il resto della specie». Me, soprannominato Bonbon, ci porta davanti alla Corte Suprema col caso 09-2606: lui contro gli Stati Uniti d’America. Ci dice che ha parcheggiato l’auto in divieto di sosta su Constitution Avenue, ha le mani ammanettate dietro la schiena ed è seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, come il suo paese, non è per nulla comoda a dispetto dell’apparenza. Il giudice nero è costernato: perché ai giorni nostri un afroamericano viola i principi possedendo uno schiavo e sostiene che la segregazione riunisca le persone di una comunità in crisi di identità?

L’imputato è originario di Dickens, un ghetto nella periferia sud di Los Angeles a immagine e somiglianza della reale Compton, ed è cresciuto in una fattoria dentro a un quartiere degradato. Rinnega l’educazione impartita dal padre, sociologo controverso, l’uomo che sussurrava ai negri, dopo aver trascorso l’infanzia da soggetto per una serie di suoi studi psicologici pionieristici sulla razza. Un proiettile sparato da un poliziotto, così simile alla feroce banalità delle dinamiche riportate dalla cronaca, uccide il padre che non lascia alcuna ricca eredità. Lui vuole portare via a mani nude il corpo dalla scena del delitto, quale gesto estremo di umanità, gli altri pensano alle foto denuncia col martire. Qui costruisce un dialogo immaginario col padre progressista afroamericano che l’ammonisce. Deve fare attenzione: «(…) Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai negri a vista».

A qualche anno di distanza il sobborgo scompare dalle mappe: «Quelle che un tempo erano graziose enclave operaie hanno conosciuto il dilagare delle tette finte, delle percentuali di laureati e dei tassi di criminalità truccati, dei trapianti di alberi e capelli, della lipo e della cholosuzione». Il boom immobiliare d’inizio secolo gonfiato dalla speculazione e la gentrification hanno cancellato Dickens. Me vede crollare il proprio mondo, ma non è solo. Il vecchio Hominy Jenkins, reazionario razziale sui generis, l’ultimo sopravvissuto delle Simpatiche Canaglie e abitante più famoso di Dickens, necessita di trovare un appiglio nel naufragio dell’identità: che cosa vuol dire essere nero? E si offre come schiavo. Hominy non vedeva l’ora di cedere il posto sull’autobus al bianco. In fondo, che cosa è cambiato dalle frustate alle perquisizioni senza motivo apparente?

Con una vagonata di vernice spray bianca e una macchina traccialinee ridisegnano il confine dell’identità sparita. Segregare la scuola, il trasporto pubblico, perché la segregazione razziale avrebbe costituito la chiave per riportare in vita Dickens: «L’apartheid aveva unito i sudafricani: per quale motivo non avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto su di noi?». Dopotutto la scuola era già segregata dalla classe sociale, dal livello di preparazione individuale. Che cos’è Dickens: «Un flashback post nero, post razziale, post soul, se vogliamo, verso un’epoca di idealizzata ignoranza nera».

Beatty, che ha studiato scrittura creativa al Brooklyn College e psicologia alla Boston University, ci costringe a fare i conti col fallimento dell’utopia, con la contraddizione insita nell’integrazione. E più intimamente con l’assenza e la morte. Lo schiavista è un modo onesto di tornare dentro a una casa scomoda, soprattutto davanti all’insegna la legge è uguale per tutti: «Molti hanno combattuto e sono morti nel tentativo di ottenere quella uguaglianza di fronte alla legge sbandierata così allegramente all’esterno di questo edificio: ma, innocente o colpevole, nessun imputato arriva fino a quel grado di giudizio». In effetti l’esito del processo non è tra le priorità dell’autore.

Lo scrittore, acclamato dalla critica d’oltreoceano come uno degli autori più ambiziosi e originali, indaga il senso di colpa, se poi è davvero tale, che deriva ed è scavato nella coscienza dalla sottomissione. Me fuma marijuana nelle aule del giudizio e danza tra colpevolezza e innocenza. È sotto processo, rischia la galera e per la prima volta in vita sua non si sente colpevole: «L’onnipresente senso di colpa, nero come la torta di mele del fast food e il basket giocato in prigione, è finalmente scomparso, e mi sembra quasi di essere bianco nel non avvertire più il peso della vergogna razziale».

Sostiene paradossalmente di emanciparsi dalla dissonanza cognitiva di essere nero e innocente. Contempla con reverenza il Lincoln Memorial e si domanda cosa direbbe e farebbe Abe l’onesto «scoprendo che l’Unione da lui salvata si è trasformata in una plutocrazia disfunzionale, che il popolo da lui liberato è diventato schiavo del rap e dei prestiti predatori, e che al giorno d’oggi le sue capacità sarebbero più adatte a un campo di basket che alla Casa Bianca?».

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