Pubblichiamo, in due parti, un lungo ritratto di Shirley Chisholm (1924-2005), prima donna nera eletta al Congresso e candidata alle primarie del Partito democratico per le presidenziali del 1972. La nomination andò a George McGovern, che venne sconfitto da Richard Nixon, presidente uscente.
di Gabriele Santoro
Louis Warsoff, professore non vedente di scienza politica al Brooklyn College, è stato per Shirley il primo uomo bianco col quale la conoscenza divenne conversazione, fiducia ed empatia. Lo chiamava proffy e s’intrattenevano in lunghe discussioni: «Da lui ho imparato che in fondo non eravamo differenti, intendo noi e i bianchi». La studentessa, che eccelleva e attirò l’attenzione di Warsoff, mostrava un’urgenza: dire al mondo come stavano realmente le cose.
Dopo anni di oblio la figura di Chisholm, scomparsa nel 2005, è riemersa nel 2008, in concomitanza con la corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca che contrapponeva Barack Obama e Hillary Clinton. Chisholm, dotata di un’intelligenza finissima e senso pratico, è stata la prima donna nera eletta al Congresso e quattro anni dopo nel 1972 la prima a competere per l’investitura tra i democratici verso la presidenza, finendo settima fra diciassette candidati col 2.7% dei 16 milioni di voti complessivi. Non amava essere ricordata per questi due primati, poiché lei coronava una vicenda collettiva, almeno sei decadi di attivismo politico di migliaia di donne a New York per la giustizia, i diritti e l’eguaglianza. Nel 1982 Chisholm, partecipe alla creazione del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, ufficializzò l’intenzione di non ricandidarsi al Congresso per tornare al primo amore, l’insegnamento, politica e sociologia in una scuola femminile, il college Mount Holyoke in Massachusetts. Nel 1984 e quattro anni più tardi sostenne Jesse Jackson. Bill Clinton le offrì la carica di ambasciatrice in Giamaica, ma rifiutò per motivi di salute.
Warsoff non nutriva dubbi sulle sue qualità e dopo un dibattito acceso le disse: «Shirley, devi partecipare: entra nell’arena politica». Lei restò meravigliata da quella innocenza. In molti le dicevano che aveva un potenziale al quale dare forma. Alla domanda più alta, quando l’adolescenza s’affaccia sulla vita e si inizia a scegliere, Shirley non apparve indecisa. Pensava di mettere il proprio talento al servizio della società insegnando. Voleva dedicarsi ai bambini con una convinzione precisa: non avrebbe occupato il posto dettato dall’ingiustizia sociale, dal razzismo che permeava la quotidianità.
L’educazione e la buona preparazione scolastica delle figlie sono state le priorità di Charles St. Hill e Ruby Seale. Lui, rimasto orfano quattordicenne, nativo della Guiana britannica, cresciuto tra Cuba e Barbados, dopo un’odissea arrivò nel 1923 a Brooklyn. A Barbados conobbe superficialmente lei appena adolescente. Ruby, classe 1901, da Christchurch approdò a Brooklyn l’8 marzo del 1921 a bordo della SS Pocone. L’amore maturò nella terra dell’abbondanza e lì si sposarono. Dal 1900 al 1925 più di 300mila isolani, prevalentemente da Barbados, lasciarono le proprie case per lavorare al Canale di Panama, tra loro il nonno materno di Shirley che abbandonò le piantagioni di canna da zucchero. Altri emigrarono negli anni Venti direzione Stati Uniti a causa della carestia e della perdita del raccolto nelle isole caraibiche. Il nonno guadagnò i soldi necessari affinché la figlia si pagasse un biglietto di sola andata.
Vere e proprie colonie di isolani crebbero nel ventre di New York. Nelle prime due decadi del Novecento queste ondate migratorie si sommarono a quella interna con circa due milioni di afroamericani che dal Sud si trasferirono nelle città del Nord. A Brooklyn tra il 1900 e il 1920 la popolazione nera raddoppiò, il 16% era di origine caraibica. Nel quartiere la colonia più corposa proveniva proprio da Barbados. Ruby era ancora una ragazza, Charles guadagnava la giornata. Alla nascita della primogenita Shirley, il 30 novembre 1924 a Brooklyn, si aggiunsero poi quelle di Odessa, Muriel e Selma.
Shirley si è sempre sentita una statunitense intimamente barbadiana. Dentro al corpo esile fin dall’infanzia esprimeva un’energia fuori dalla norma. La ruggente e fallace prosperità americana dei primi anni Venti non era per tutti, soprattutto non per una giovane coppia di immigrati in un agglomerato suburbano in rapido sommovimento demografico ed etnico. Charles non aveva qualifiche professionali. Lavorò come aiutante in una panetteria e poi da operaio a cottimo. Ruby non immaginava di doversi separare per sette lunghi anni dalle figlie, tuttavia la decisione sofferta non aveva alternative economiche. Ad attendere Shirley, Odessa e Muriel c’era il ritorno alla vita rurale, nella grande fattoria della nonna a Barbados.
Nel 1928 Ruby salpò con le figlie dal porto di New York destinazione Bridgetown, capitale della così soprannominata Piccola Scozia. Il viaggio a bordo della Vulcania durò nove giorni in acque particolarmente agitate. La parte materna della famiglia aveva origini scozzesi. Furono i primi abitanti ad aver spezzato le catene della schiavitù e registravano il più alto tasso di alfabetizzazione nell’area. Un popolo, quello barbadiano, luminoso, ambizioso e parsimonioso. Nelle giornate più dure Ruby e Charles non hanno messo in discussione il sogno di una casa a Brooklyn e della migliore istruzione per le nasciture.
Emily Seale, nonna dal fisico statuario e dalla voce stentorea, le attendeva alla banchina del porto di Bridgetown. La primogenita racconterà che Emily è stata una delle poche persone di cui non ha mai sfidato o messo in discussione l’autorità. L’esempio di forza e dignità di lavoratrici toste, quali erano la nonna e la zia, forgiò la sua futura coscienza politica, quanto la lotta per l’emancipazione dei barbadiani dalla schiavitù, dalle ingiuste relazioni economiche e sociali basate sulla discriminazione razziale. Fra la scuola, che osservava l’impianto della tradizione britannica ed era centrale nel sistema sociale locale, bagni in un mare cristallino e vita rurale, Shirley trascorse anni felici.
A Brooklyn invece le cose non andavano secondo i piani genitoriali. Non riuscivano a risparmiare un dollaro, travolti anche loro dal riverbero del crollo di Wall Street. Ruby, spaventata dal tempo che sottrae l’oggi in attesa del domani, alla fine del 1933 seppure le condizioni fossero ancora ai limiti della sussistenza riunì la famiglia negli Stati Uniti.
Al 110 di Liberty Avenue, un appartamento con quattro stanze senza riscaldamento esposte sulla ferrovia, a Brownsville il freddo era la sensazione dominante che turbava Shirley. Da quei giorni di smarrimento per il venire meno delle certezze isolane, piombata senza mappe mentali e fisiche nella grande città, ha rievocato sempre la paura del freddo. Nel 1934 Brownsville era il distretto a maggioranza ebraico più popoloso di Brooklyn, abitato dalla prima generazione degli esuli provenienti dal cuore dell’Europa centrale e orientale. Trent’anni dopo gli diedero l’etichetta di ghetto, che come osservava Chisholm avrebbe fatto sorridere amaramente i vecchi residenti.
A Brownsville si era radicata una storia di tolleranza razziale e religiosa. Il quartiere, che contava 200mila persone, tra il 1915 e il 1921 elesse rappresentanti socialisti alla New York State Assembly e aveva una tradizione ricca di opposizione e protesta sociale, guidata anche da una pioniera femminista come Margaret Sanger. Chisholm incarnò le urgenze che aveva respirato a Brownsville. Shirley si rifugiava al cinema e nella biblioteca pubblica. Leggere era una delle regole imposte a casa. Lei poi amava ballare, una questione d’istinto. Era la prima ad arrivare e l’ultima a lasciare la dance hall. In molti raccontano di non aver mai visto nessuno muoversi come lei, quasi a volersi liberare da una disciplina austera, ferrea con poche concessioni che i genitori imposero. La famiglia protestante manifestava un forte sentimento religioso.
Per comprendere il percorso quanto le scelte di Shirley è utile ricostruire il rapporto con il padre. In quel periodo Charles lavorava come garzone in una grande pasticceria. Era un uomo di bella presenza che lei idealizzava. Nonostante gli studi molto limitati aveva un vocabolario ricco e un’intelligenza intuitiva acuta. Era un lettore onnivoro. Anche durante la Grande Depressione, quando Ruby lo spingeva a risparmiare, lui comprava tre quotidiani al giorno. Charles era un conversatore instancabile, sapeva di tutto un po’. Né beveva, né fumava. Le trasmise la fierezza, allora tutt’altro che diffusa tra gli stessi afroamericani, della propria discendenza. Charles concretizzava le proprie idee nell’impegno come sindacalista, apparteneva alla Confectionery and Bakers International Union. Nulla, ricorda Shirley, lo rendeva più felice dell’essere un sindacalista.
Charles St. Hill era un seguace appassionato di Marcus Garvey, fondatore del movimento Pan-African che presupponeva la nascita di una nazione africana unita in grado di accogliere tutti i discendenti della diaspora, dove costruire una vita nuova, e che influenzò il pensiero di Martin Luther King Jr., Malcom X e il movimento separatista nel cuore degli anni Settanta. Portava sempre Shirley agli incontri e ai tributi dedicati a Garvey, condannato a cinque anni di carcere per sottrazione di fondi. Scontò la metà della pena per poi essere espulso nel paese nativo, la Giamaica. In quei consessi Shirley maturò la prima consapevolezza politica.
A scuola emerse la forza caratteriale della figlia di due immigrati che non stavano nel posto loro assegnato dalla società. Nella scuola pubblica incontrò per la prima volta le gerarchie dettate dalla classe sociale, dalla razza e dal genere. Nel frattempo il quartiere mutava la propria composizione. La scuola restava però una linea di separazione, che manteneva un equilibrio ormai distante dalla realtà. L’80% dei bambini erano bianchi di origine ebraica, tutti gli insegnanti erano bianchi.
Nel 1936 i St. Hill si spostarono a Bedford Stuyvesant, che diventerà l’epicentro della storia politica di Shirley. L’impatto col nuovo quartiere fu innanzitutto linguistico: per la prima volta nella strada ascoltava insulti a sfondo razziale: negro, ebreo bastardo, negro son of a bitch. Non era abituata a queste associazioni dispregiative. Nel 1939 Shirley s’iscrisse alla Girls High School, una delle scuole più antiche di Brooklyn a Nostrand Avenue. L’elevato quoziente intellettivo e l’abitudine allo studio ne facevano un’eccezione, tre quarti delle iscritte a scuola erano bianche.
Alla Girls High School le qualità di Shirley non passarono inosservate. Ricevette numerose proposte da college rinomati, fra i quali il prestigioso e selettivo Vassar, situato a 70 miglia da New York nella suggestiva Hudson Valley. La famiglia non poteva sostenere i costi dello studio fuori dalla città. La scelta ricadde dunque sul Brooklyn College, che rappresentò un passaggio cruciale. C’è una domanda interessante che si è posta Chisholm: «Qualora avessi frequentato il Vassar, sarei diventata una delle donne nere pseudo bianche in carriera dell’alta borghesia o una moglie ben piazzata e mantenuta dal marito? Stento a crederlo, ma è meglio aver scongiurato il rischio».
Nel 1942 Shirley varcò la soglia del Brooklyn College non ancora diciottenne. Era una degli appena sessanta studenti con la pelle nera nel più grande dei cinque college urbani con il campus economicamente più abbordabile. Al college Shirley cominciò a scontrarsi, a rivoltarsi contro il mondo. La scuola era ricca di organizzazioni e attività extracurricolari politicamente orientate, la maggior parte di esse progressiste. La famiglia l’aveva tenuta a lungo protetta dalla realtà circostante, «ma ero nera e nessuno doveva spiegarmi che cosa significasse». Non importava quanto fosse ben preparata, la società non le avrebbe dato alcuna opportunità.
Al college c’era un collettivo politico, l’Harriet Tubman Society, che Shirley frequentò dal secondo anno. La figura della combattente Harriet Tubman, che si era sottratta alla schiavitù indicando agli altri la via per la libertà, sarà dirimente per Chisholm.
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