mercoledì 12 dicembre 2018

Dopo Srebrenica


di Gabriele Santoro

A ventitré anni dalla fine di una delle guerre jugoslave più efferate, nella terra di confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, disegnata dal fiume Drina, regna il silenzio.

Una volta superata Zvornik, percorrendo la strada statale che giunge a Srebrenica, s’incontrano molte case mai riabitate, che mostrano ancora i segni profondi della guerra. I ruderi dei luoghi delle esecuzioni di massa, da Branjevo alle scuole di Bratunac, passando per il magazzino di Kravica e Pilica, sono i testimoni silenti di ciò che accadde tra il 10 e il 19 luglio del 1995.

Dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate da Ratko Mladić, comandante militare serbo bosniaco dell’allora esercito noto come Vojska Republike Srpske, condannato con Radovan Karadžić e altre dodici persone all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi (i bosniaci musulmani). In pochi giorni scomparvero oltre ottomila persone.


In quello che a Potočari, frazione alle porte di Srebrenica, era il quartiere generale delle Nazioni Unite, ora un cartello recita: “Il fallimento della comunità internazionale”. L’ONU aveva dichiarato Žepa e Srebrenica “zone sicure”. Nel biennio 1994-’95 la presidiò con un contingente di Caschi blu olandesi, rivelatosi tragicamente non all’altezza e inerte nella missione di interposizione e di protezione dei civili.

Sulla collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono le spoglie mortali di 6539 delle 6973 vittime finora accertate grazie al DNA con un grado di affidabilità pari al 99.95%.

Il primo dato, che fotografa l’odierna paralisi della seconda municipalità più estesa della Bosnia ed Erzegovina, è il declino demografico. In assenza di un censimento ufficiale aggiornato, che è materia politica scottante, fonti amministrative locali stimano la presenza di appena 1500 abitanti a Srebrenica e non oltre seimila nell’intera area. Prima della guerra la zona era popolata da 36000 persone con una netta prevalenza dei bosgnacchi sui serbi bosniaci. Ora le due parti si equivalgono.

Esistevano otto scuole di ogni ordine e grado con ottomila studenti. Il lunedì mattina è un momento d’incontro emozionante a Srebrenica. È impossibile separare lungo la linea etnica gli studenti e le studentesse, che camminano sulla principale arteria stradale verso la scuola. Le classi superano la frontiera dell’appartenenza, ma sono frequentate solo da 850 alunni. E la guerra, come d’altra parte succede in Serbia, è bandita dai sussidiari. Non si parla della guerra, ma si respira.

Nel 1992 Srebrenica era una delle zone più benestanti della Bosnia con diecimila occupati. Oggi il numero è stimato in 500 unità. L’ospedale contava 35 medici. Attualmente cinque dottori tengono in funzione un ambulatorio. Il grande cinema, che a pochi passi dalla piazza principale del paese costituiva un centro culturale di rilievo, è uno scheletro di cemento crivellato di colpi di arma da fuoco. Alcuni lavori di messa in sicurezza della struttura sono cominciati appena concluse le elezioni politiche del 7 ottobre.

La città è piena di confini invisibili. I carnefici di ieri e i familiari delle vittime talvolta sono vicini di casa o di ufficio. In una realtà così complessa, c’è chi ha il coraggio di erigere ponti di dialogo. Valentina Gagić Lazić, serbo bosniaca, arrivata a Srebrenica nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo, è fra i creatori della comunità interetnica Adopt Srebrenica, inaugurata nel 2005 col sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza.

“Nell’aprile del 1992 avevo diciannove anni – racconta Gagić. Dopo il referendum, la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina e l’inizio delle ostilità belliche, trascorsi sei mesi in Slovacchia. Poi decisi di tornare a casa, illudendomi che la guerra sarebbe durata poco. Il matrimonio, la gravidanza e la nascita di mio figlio Nikola mi hanno in parte preservato dalla follia del conflitto”.

Gagić ha studiato a Sarajevo in un ambiente multiculturale. Per l’intero periodo bellico è rimasta in contatto con gli amici più cari di etnie diverse: “Abbiamo cercato di sostenerci a vicenda. Nel 1992 avevo diciotto anni, tutta la vita davanti. Ingenuamente pensavo che avremmo potuto fermare la guerra, scendendo in piazza con l’illusione di poter modificare il corso degli eventi. Scrivevo appelli ai miei connazionali, dicendo che era una follia dividere la Bosnia. E chi ancora lo immagina, sa che può finire solo nel sangue”.

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