domenica 23 dicembre 2018

Una superpotenza di nome Michelle

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 21

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Michelle LaVaughn Robinson è stata per lunghi tratti la figura più amata e popolare dell’amministrazione Obama. Il legame dell’ex first lady con gli americani non si è reciso dopo aver lasciato la Casa Bianca. Lo dimostra ciò che sta succedendo con l’autobiografia Becoming (Garzanti, 495 pagine, 25 euro, traduzione di Chicca Galli). Nel cuore della presidenza Trump è il testo più venduto del 2018. E si candida a divenire uno dei memoir politici di maggior successo nella storia dell’editoria non solo statunitense.

A un mese di distanza dalla pubblicazione, l’editore Crown Publishing, che è parte della Penguin Random House, ha annunciato la vendita oltreoceano di tre milioni di copie. Nel Regno Unito non accadeva dal 2008, con JK Rowling, che un’autrice giungesse al vertice delle classifiche. In tre settimane i lettori d’oltremanica hanno acquistato quattrocentomila esemplari. Nel mondo, le copie stampate del libro, tradotto in trentatré lingue, sono sei milioni. Becoming è alla seconda ristampa in Italia. 

Negli Stati Uniti le tappe del tour di presentazione, gestito da Live nation, registrano ovunque il tutto esaurito. Dopo l’apertura nella natia Chicago, allo United Center in dialogo con Oprah Winfrey, è cominciato un lungo viaggio, che ricorda i giorni delle campagne elettorali. La passione riscontrata ha prodotto per il 2019 l’aggiunta di ventuno nuovi appuntamenti pubblici con Michelle Obama. Ad aprile approderà in Europa con sei date da Copenaghen ad Amsterdam. Non è da escludere il suo arrivo anche in Italia.

La ragazza del South Side di Chicago, usando un appellativo scelto da Barack Obama, ama la propria storia in costante evoluzione dalla working class e ha saputo raccontarla con il supporto di un editor del calibro di Molly Stern.

Nel suo complesso il South Side è la più grande enclave nera del paese. In quel luogo si comprende il percorso di Michelle Obama, la seconda delle quarantatré donne, che l’avevano preceduta, a entrare alla Casa Bianca con una carriera professionale attiva. Era madre di due figlie e guadagnava trecentomila dollari all’anno come vicepresidente dell’University of Chicago Medical Center. Tra le first lady statunitensi è stata la terza in possesso di una laurea e della specializzazione successiva.

La traiettoria dell’esistenza di Michelle è cambiata proprio a scuola. La Whitney M. Young Magnet High School le consentì di uscire dal quartiere e dallo stato di segregazione in cui era nata. Non casualmente, una visita molto significativa per l’ex first lady è stata a Topeka, dove nel 1951 Oliver Brown citò in giudizio il consiglio d’amministrazione scolastico per l’esclusione della figlia Linda. L’azione legale, nota come «Brown v. Board of Education», abbatté la segregazione razziale nelle scuole pubbliche e permise anche a Michelle di avere le opportunità negate ai nonni, discendenti di schiavi, e ai propri genitori.

Le sconsigliarono di provare ad accedere a Princeton. Sui 1100 iscritti alla classe di corso di Robinson, gli afroamericani erano 94. Nel 1985 si laureò con lode in sociologia nel prestigioso ateneo. Tre anni più tardi, conseguì il titolo presso la Scuola di legge di Harvard. È interessante la domanda fondamentale della tesi discussa a Princeton: come si trasforma il ruolo dei neri nella società, quando s’immergono in un’istituzione elitaria bianca com’era l’università?


In Becoming Michelle ci conferma che non viviamo nella società post-razziale, in cui qualcuno immaginò di essere entrato dopo l’elezione del marito, personificazione con lei del sogno americano. «Alle first lady bianche la carica conferiva quasi di diritto una certa aura di eleganza, sapevo che per me non sarebbe stato lo stesso», ha scritto. Ma evoca la piena consapevolezza di un lungo cammino di libertà, non concluso, in una struttura sociale e culturale del potere ancora essenzialmente bianca.

Robinson con le proprie capacità relazionali ha saputo ribaltare la percezione delle sue rivendicazioni, costruendo con sapienza un processo che porta milioni di americani a immedesimarsi nelle possibilità della sua strada. Con le battaglie non ideologiche per una corretta dieta alimentare, per l’accesso all’istruzione e con il sostegno alle famiglie dei militari si è sottratta alla disputa politica quotidiana, rimanendo un perno essenziale delle campagne elettorali di Barack Obama.

Dai tempi di Jacqueline Kennedy, una first lady non assurgeva a icona del fashion a proprio agio nella trincea politica. Già il 12 febbraio del 2009 il New York Times la definì «padrona della moda americana». 

Michelle affronta anche questioni intime, confessando il dolore di un aborto spontaneo, risalente a venti anni fa, e di aver usato la fecondazione in vitro per la nascita di Malia e Sasha. Le due figlie occupano uno spazio importante nella narrazione di una storia d’amore, che è ormai parte della biografia di una nazione. L’autrice, posando lo sguardo sul futuro con una dura presa di posizione sul presente contro Trump, sembra dissipare l’ipotesi di una propria ambizione elettorale. D’altra parte, era scettica anche all’idea che la politica fosse per Barack il modo migliore per lasciare un segno nel mondo.

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