martedì 4 dicembre 2018

Michael Dobbs, da House of Cards al Giorno dei Lord: «Addio, Underwood: arriva Jones il ribelle»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 19

di Gabriele Santoro

Dopo il successo planetario come autore e poi sceneggiatore di House of Cards, dalla creatività e dalla conoscenza della politica di Michael Dobbs, classe 1948, membro del partito conservatore inglese e a lungo collaboratore di Margaret Thatcher, è nato un nuovo ciclo di thriller, che l’editore Fazi pubblica in Italia. Il giorno dei Lord (Traduzione di Stefano Tummolini, 376 pagine, 16 euro) è il primo episodio con protagonista Harry Jones, che presto diventerà una serie televisiva.

Jones è un personaggio politico che si differenzia dall’ideal tipo del genere. Non c’è nulla del cinismo di Frank Underwood. La carriera nell’esercito britannico gli consente di aprire molte porte, nonostante il carattere tempestoso e ribelle. Nel thriller di Dobbs, ospite d’eccezione a Più libri più liberi (venerdì 7 alle 19), la cerimonia d’apertura del Parlamento britannico, che una volta all’anno riunisce le principali personalità del Regno a cominciare da Elisabetta II, è sconvolta da un attentato terroristico di matrice islamista. 

Nel palazzo del potere di Westminster, straordinariamente mal protetto, i terroristi dovranno affrontare il coraggio e l’abilità di Jones. Un aspetto interessante del lavoro di Dobbs è il modo in cui riesce a rappresentare una sorta di paura globale diffusa e indistinta, che caratterizza il nostro tempo e spesso dissolve i contorni del reale.

Dobbs, in quale modo ha costruito Jones? 
«Dopo House of Cards, gli spettatori in qualsiasi parte del mondo mi dicevano: “Diffidiamo dei politici ed è anche colpa tua”. Ho speso molto tempo a descrivere il lato oscuro dei politici e della politica. Poi ho trovato interessante, spero non solo per me, creare un personaggio totalmente diverso. Harry è un ex militare benestante. Nessuno può impartirgli ordini. Può perdere il ruolo nell’esercito, le elezioni e qualche ambizione, ma non l’indipendenza che lo eleva. Lotta contro avversità emotive e psicologiche. È animato dall’ossessione per il padre ed è pronto a disobbedire alle regole per ciò che ritiene sia giusto».

L’assalto terroristico ai luoghi cardine della democrazia britannica evoca la sua vulnerabilità. La forza della democrazia è sopravvalutata, usando le parole di Underwood? 
«No, credo sia forte. La democrazia e le istituzioni parlamentari hanno la flessibilità, che appare come una fragilità, ma la rende capace di sopravvivere agli shock e alle sfide incontrate lungo la strada. Negli ultimi cent’anni abbiamo assistito al collasso senza ritorno di sistemi irreggimentati come le dittature fasciste e lo stalinismo. La democrazia in una maniera talvolta strana e illogica procede, perché ha la flessibilità per resistere alla pressione e adattarsi agli eventi. In qualche modo è un sistema di governo incredibilmente frustrante. Ma la storia mostra che è ancora più forte e funzionale di qualsiasi altra alternativa».

A parte il glamour, qual è il senso della Corona nella società e perché giganteggia ancora la regina Elisabetta II?
«Dopo un ventennio, terribile per molte ragioni, la famiglia reale britannica ha saputo ammodernarsi. Elisabetta II, la monarca più longeva, è amata e rispettata profondamente. I nipoti hanno catturato e riempito nuovamente l’immaginario. Piacciono alle persone che s’identificano con loro e pensano siano un modello positivo. Negli ultimi quarant’anni la famiglia reale non ha mai occupato una posizione così centrale nella società. Il paese preferisce lo stile, il divertimento, il colore e soprattutto la stabilità della Corona ai politici e al presidente che eleggiamo ogni quattro anni».

Lei ha scritto una biografia di Churchill. L’ha aiutata a definire l'equilibrio tra coraggio e compromesso in politica?
«È una domanda interessante. Non ho voluto scrivere la biografia, perché credo che sia stato perfetto. Era un uomo, anche lui aveva debolezze e ha commesso ogni sorta di errore. È diventato lo statista che conosciamo, perché ha saputo misurarsi con le proprie vulnerabilità intime. Era ossessivo e arcigno, si distingueva dagli altri fin dall'adolescenza. Rifiutava la resa. Churchill si dimostrò libero dall’influenza del proprio circolo, come dovrebbe essere un politico. Churchill, colto, intelligente e vitale non si è tirato indietro nel momento in cui la storia doveva essere determinata non dall’interesse personale e da quello di classe».

La prima edizione di House of Cards è uscita l’anno della caduta del Muro del Berlino. Che cosa è diventata la politica?
«La politica era animata dalle ideologie. Le persone lottavano per valori a lungo termine e per la trasformazione della società. Il dato fondamentale è che l’Occidente non è più al volante del mondo. Non siamo più forti e rispettati come trent’anni fa. Non lo è la nostra cultura in decadenza. Dovremmo posare uno sguardo critico sui nostri errori, prima di suggerire al mondo di diventare come noi o imporci con esiti disastrosi come in Iraq, Afghanistan o Libia. Dovremmo esercitare il softpower più della forza militare».

Lei preferisce non commentare l'estromissione dalla serie di Kevin Spacey. Ma le manca Frank Underwood?
«(Sorride, ndc). Ho la signora Underwood, che ha colmato il vuoto in modo straordinario. Provo un senso di tristezza, perché si conclude House of Cards. La sensazione negativa è alleviata dalla maniera forte in cui la serie esce di scena. Chissà, forse non sarà la fine e in futuro tornerà. Stiamo lasciando gli Stati Uniti, credo e spero col pensiero che è stato molto divertente e il desiderio di rifarlo».

Netflix è cresciuta e si è affermata insieme a House of Cards. Come valuta l’impatto di questa realtà produttiva?
«La questione è interessante e complessa. Non possediamo il numero preciso di quante persone abbiano guardato House of Cards, ma sono milioni e in tutto il mondo. Il mercato di House of Cards è globale, includendo la Cina. Adesso il prodotto è disponibile sullo schermo quando e come vuoi. Questa è la novità fondamentale. Prima parlavo dell’importanza dei valori culturali del softpower, che arriva dove non può quello militare. L’impatto di queste produzioni televisive, la cui qualità sta crescendo, va ben oltre l’essere buon intrattenimento. Nasce un audience globale, che condivide valori in un mondo sempre più conflittuale e politicamente frammentato. Serie come House of Cards rendono il mondo più piccolo e avvicinano le persone. È un’età dell’oro per i telespettatori, che hanno più scelta, e per gli autori televisivi: sul piccolo possiamo realizzare cose semplicemente inimmaginabili quindici anni fa. Realtà come Netflix o HBO consentono investimenti rilevanti, che si riflettono sulla qualità delle produzioni».

A proposito di scenari globali. La spinta isolazionistica della Brexit non crede sia la condanna definitiva all’irrilevanza?
«L’Unione Europea si è ripiegata su sé stessa e sembra ancora ferma al ventesimo secolo. La Brexit non equivale all’isolamento. Al contrario, intendiamo aprirci al resto del mondo, realizzando una Gran Bretagna di nuovo globale. L'Unione Europea rifiuta di cambiare sé stessa e occorreva agire, perché il mondo là fuori si trasforma velocemente. Nuovi mercati, idee e sfide provengono sempre meno dal Nord Europa».

Tra pochi giorni il parlamento britannico è chiamato a esprimersi sulla bozza di accordo con l’UE sulla Brexit. Theresa May reggerà? 
«Intravedo poche possibilità che il parlamento lo approvi. Resterei molto sorpreso dall’eventuale sostegno al compromesso di May. Ritengo sia molto difficile per lei restare in carica, qualora una maggioranza decidesse di rigettare l'accordo. Lei è una politica tenace, ma se perde la sfida parlamentare, le persone vorranno affidare ad altre figure l’opportunità di raggiungere una soluzione».

La Gran Bretagna odierna è figlia di Margaret Thatcher?
«Negli anni Settanta eravamo spariti dallo scacchiere mondiale senza lasciare traccia. Il paese era considerato l’ingovernabile malato d’Europa. Thatcher ha corso azzardi per imprimere una svolta senza molte cortesie. È stata responsabile insieme con molti altri del cambiamento sostanziale del volto della Gran Bretagna. Ma è costato moltissimo. Essere al suo fianco per molto tempo è stato un privilegio doloroso».

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