di Gabriele Santoro
ROMA (28 giugno) – Adieu vecchio Le Monde: è arrivata la svolta storica spesso rinviata, malinconicamente attesa e molto temuta. Il quotidiano di riferimento francese, in edicola dal dicembre 1944 sotto la spinta ideale di Charles De Gaulle e forgiato dal primo direttore, il cattolico severo Hubert Beuve Mery, ammaina la bandiera dell’autosufficienza economica ed editoriale dei propri giornalisti cedendo all’allettante e necessaria offerta di ricapitalizzazione del trio Bergé-Niel-Pigasse. «Nel momento in cui sarebbe facile farsi cadere nella nostalgia per un’epoca d’oro - recita il comunicato della società dei redattori - il gruppo Le Monde e i suoi dipendenti sono pronti a nuova era nella quale i principi di rigore e indipendenza che incarniamo da sempre non saranno traditi».
Il via libera decisivo è arrivato dal consiglio di sorveglianza che ha ratificato (su 20 voti 11 a favore e 9 astenuti) il voto plebiscitario (circa il 90% di media di adesioni delle varie anime del giornale, dalla società dei redattori a quella del personale amministrativo che detengono il 49.10% delle azioni, e degli altri rami del gruppo editoriale) in favore dell’offerta munifica dei tre finanzieri: un investimento complessivo da 110 milioni di euro, un’altra decina di milioni destinata alla formazione di una quota di minoranza dei dipendenti, infine la garanzia di un comitato etico (Pole d’independance, ndr) per «scoraggiare le pressioni interne ed esterne sui contenuti editoriali» del nuovo assetto dell’azionariato. Il direttore dovrà essere nominato con l’accordo di almeno il 60% dei membri della società dei redattori. Il lavoro della redazione web sarà integrato e coordinato con quello delle altre redazioni. Si punta sull’arricchimento dell’offerta editoriale nel weekend.
Il presidente Nicolas Sarkozy, spesso nel mirino della critica di Le Monde, non ha gradito questa scelta per l’orientamento politico socialista della cordata. L’inquilino dell’Eliseo avrebbe preferito l’altra offerta in campo con la cordata franco-spagnola del gruppo SFA, editore del settimanale Nouvel Observateur, in partnership con la spagnola Prisa (già editrice de El Pais) e l’operatore telefonico nazionale France Telecom. Questa seconda offerta ammontava a 100 milioni di euro (45 SFA-PAR, 35 Prisa, 20 France Telecom). Tra le priorità indicate da Claude Perdriel del Nouvel Observateur rientravano la modernizzazione della tipografia, un piano di tagli del personale con prepensionamenti. La società dei redattori avrebbe potuto esercitare il diritto di veto sulla nomina del direttore. Uscita da gentiluomo per Perdriel che ha rispettato la volontà dei protagonisti del quotidiano, ritirando la propria offerta prima del consiglio di sorveglianza.
I nuovi proprietari. Pierre Bergé è un industriale di lungo corso, classe 1930, compagno storico di Yves Saint-Laurent e cofondatore dell’omonima casa di moda, vecchio e convinto sostenitore del presidente socialista François Mitterand con numerosi interessi nel campo culturale e dei diritti umani. Matthieu Pigasse, classe 1968, è un banchiere di Lazard, molto vicino a politici socialisti di spicco come Laurent Fabius e Dominique Strauss Kahn (presidente del Fondo Monetario Internazionale e in predicato di tornare sulla scena politica francese, ndr), nonché proprietario del magazine Les Inrockuptibles. Xavier Niel, classe 1967, patron dell’internet provider Free, dodicesimo uomo più ricco di Francia nel 2009 con un patrimonio intorno ai 2.68 miliardi di euro.
«Nessuna offerta è quella che si poteva sognare». Questo è lo stato d’animo che domina la pancia di Le Monde e il travaglio personale del direttore Eric Fottorino, già in precedenza penna di punta del quotidiano, che ha ceduto le chiavi e al contempo salvato un’istituzione unica del giornalismo mondiale. «Dal mio ingresso in Rue des Italiens venticinque anni fa non avrei mai pensato di avere la responsabilità di consegnare tutti noi a un’azionista di maggioranza. È il momento della scelta, a chi diamo le chiavi di Le Monde senza vendere la nostra indipendenza editoriale? Non voglio influenzare il voto. Ricordo che l’indipendenza è uno stato d’animo ed è soprattutto nelle nostre menti».
Le Monde è un bene comune. La vecchia guardia del quotidiano costituita dai precedenti presidenti della società dei redattori lancia un messaggio chiaro ai propri futuri editori. «L’avvenire di Le Monde non può prestarsi a speculazioni in funzione di interessi politici o economici estranei alla libertà della stampa. Le Monde deve restare il luogo dell’esercizio delle libertà di pensare, di indagare e di scrivere. Le Monde è un bene comune, che deve essere tutelato».
Come è finita l’eccezione del “giornale dei giornalisti”? Le Monde è sommerso da una montagna di debiti, circa 100 milioni di euro, con una rata da dieci da saldare già a luglio, c’è una formula editoriale da rilanciare a fronte di una progressiva erosione del pubblico dei lettori (320mila copie la tiratura) e soprattutto un gruppo da ristrutturare. Nella sua lunga, appassionante e complicata storia il foglio parigino ha conosciuto balzi in avanti strepitosi e altrettanti crolli pericolosi che ne hanno messo spesso in gioco l’esistenza. Come dimenticare la “giornata delle porte aperte” del 1995 in cui furono le sottoscrizioni dei lettori a salvarlo dal crack finanziario. Un giornale che ha perso la capacità di fidelizzare il lettore con battaglie ideali forti: il furore giornalistico coinvolgente del Maggio francese, la critica feroce all’esercito nazionale nella guerra d’Algeria, l’ostilità alla deriva del mitterandismo e le splendide corrispondenze da tutto il mondo.
La vittoria alle elezioni presidenziali di Nicolas Sarkozy ha coinciso con la fine dell’era di Jean-Marie Colombani, il giornalista del “Siamo tutti americani” all’indomani dell’11 settembre. Una direzione ultradecennale, che se in un primo momento aveva rilanciato le ambizioni del quotidiano con lo sbarco sul web, con numerose acquisizioni e innovazioni dell’edizione cartacea poi non ha mai risolto i nodi strutturali del malfunzionamento della scommessa editoriale più bella del dopo secondo guerra mondiale. Si è costruito un colosso dai piedi di argilla.
Lentezza nei meccanismi decisionali, un management non all’altezza e un prodotto con pochi slanci della “Grandeur” pioneristica del primo Le Monde. Paradigmatica è stata l’idea di Colombani di dividere i destini del Le Monde cartaceo e da quello sul web con la creazione della società indipendente Le Monde Interactif. Una scelta dettata dalla volontà di non appesantire conti già in rosso, ma che si è rivelata un boomerang visto il successo del giornale on-line. Una delle prime mosse del nuovo corso sarà quello di riaccordare le due entità.
Nel cambiamento irrinunciabile non si modifica tuttavia la sfida originale di Le Monde, che dovrà essere raccolta dal nuovo management, sintetizzata nell’editoriale celebrativo del numero mille a firma del direttore Beuve Mery. «Le Monde raggiunge il millesimo numero. Breve tappa nella vita di un grande giornale. Nei nostri primi tre anni abbiamo vissuto agiatamente nella più perfetta indipendenza. Le Monde si sforzerà di assicurare ai propri lettori, senza il pregiudizio sulle opinioni politiche che animano le discussioni, l’informazione più completa, più seria e più vera possibile».
Il frutto che era proibito raccogliere si trovava sull'Albero della Conoscenza. Il significato è che tutte le sofferenze sono dovute al tuo desiderio di capire com'è che vanno le cose. Saresti potuto rimanere nel Giardino dell'Eden se solo avessi tenuto chiusa la tua fottuta bocca e non avessi fatto alcuna domanda. Frank Zappa - Playboy, 2 maggio 1993
lunedì 28 giugno 2010
martedì 22 giugno 2010
José Mourinho: nato per vincere
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=107506
di Gabriele Santoro
ROMA (21 giugno) – Un’estate per costruire l’Inter ideale. Otto mesi di traguardi intermedi tagliati quasi sempre in testa in un fiume di parole taglienti e fuochi d’artificio verbali. Trenta giorni per concretizzare cinicamente e scrupolosamente una storica tripletta nel segno del “Principe” Diego Milito.
Una notte magica per regalare ai tifosi interisti l’agognata Champions League in quel Santiago Bernabeu già scelto per saziare l’intima, voluttuosa fame di successi e di nuovi primati da tagliare. L’uragano José Mourinho in due anni ha fatto impazzire di gioia una tifoseria, ha eccitato e provocato stampa e televisioni con le costanti esternazioni da prima pagina e ha quantomai diviso l’Italia calcistica. Le lacrime finali in terra spagnola consumate con rapida disinvoltura sono sembrate più un corollario dovuto al trionfo, al protocollo d’addio all’Inter. Disarmante la lucidità e i tempi contingentati dell’annuncio di un altrove sportivo madridista già irresistibilmente meditato da mesi e da riempire di nuovi tituli. La poesia e i sentimenti con cui lo Special One ha conquistato indelebilmente il popolo nerazzurro si chiamano assoluta dedizione alla professione, trofei in serie e slogan in cui immedesimarsi e vendere come una maglietta di Samuel Eto’o.
José Marinho, giornalista sportivo portoghese di punta ora passato dall’altra parte della barricata come direttore sportivo del Guimaraes, grande conoscitore e confidente del celebre connazionale nel libro José Mourinho: nato per vincere (Cavallo di ferro, euro 14, pag. 228) racconta i segreti di uno stile inimitabile in panchina. «Un allenatore a cui piace la controversia, che si nutre di provocazione e che seduce per il suo gusto quasi schizofrenico dello scontro. È un uomo che per sua natura gioca all’attacco, ma che acquista grandezza nel modo in cui si difende». A immagine e somiglianza dell’Inter triplete. Una guida preziosa, aggiornata fino al successo di Madrid con le pagine a firma di Darwin Pastorin, per i Mou-dipendenti e per chi già inizia a sentirne la mancanza. Il libro approfondisce soprattutto l’esperienza al Chelsea di Roman Abramovich, in cui oltre a spendere con criterio le fortune del milionario russo è stata «rifondata una società e una squadra con uno spirito vincente. Il Chelsea prima identificato con la tifoseria chic di un ricco quartiere londinese, ora ha supporters in tutto il mondo».
Una nuova identità che è passata dalla costruzione di aspetti tangibili, come il fantastico centro di allenamenti di Cobham, e intangibili come la capacità di infondere nei giocatori una fiducia assoluta. «José è il primo produttore mondiale di autostima». Un tratto comune a tutte le esperienze del portoghese è la missione di far credere ai propri calciatori di essere i migliori al mondo. Così lo Special One spiega come abbia conquistato subito la squadra al suo sbarco londinese: «Dovevo dire chi ero, come funzionavo e, soprattutto, che ero un drogato del successo. E volevo sapere se anche loro avevano il mio stesso vizio».
Marinho snocciola i numeri straordinari dell’esperienza inglese: sei titoli di cui due scudetti in tre anni, 269 punti in tre Premier League contro i 249 dello United, 95 punti e record nella prima stagione. Non mancano le classiche punture di spillo a tecnici avversari come Claudio Ranieri e Rafael Benitez, erede designato sulla panchina interista. “Il rumore dei nemici” trasuda dalle pagine di Marinho, ma anche la stima per Van Gaal da cui ha imparato l’attenzione maniacale a tutti i dettagli. Il giornalista portoghese raccoglie poi una provocazione paradossale “E se Mourinho ci avesse rubato il calcio?” «Lui è l’uomo che sta rovinando il calcio con l’egemonia della sua perfezione. Mou è così competente in tutti gli aspetti del suo universo che nel considerarsi speciale ci ha rubato il calcio e l’ha tenuto tutto per sé». Si legge uno scambio di email tra l’autore e il tecnico precedente all’arrivo in Italia, dove riecheggia già la frase simbolo dell’addio al Bel Paese: «Non mi piace l’ipocrisia del calcio italiano. Non cambierò questo paese, ma neanche loro cambieranno me». Nulla lasciato all’improvvisazione.
Sia chiaro niente a che vedere con la romantica e appassionante prosa calcistica di Osvaldo Soriano, dove non c’è spazio per l’ammirazione di strategie comunicative o pianificazioni di sorta. Che cosa avrebbe scritto Soriano di Mourinho e del suo calcio fondato sul primato del denaro, sull’equilibrio tecnico/tattico e su una mentalità vincente? Lo scrittore argentino che in ”Ribelli, sognatori e fuggitivi” definiva così il ruolo dei tecnici: «Si ha la tendenza a esagerare la loro importanza. È stato patetico vedere il prof. jugoslavo Milutinovic, c.t. del Messico, tracciare un disegno fatto di punti, linee e crocette su un pezzo di carta mostrato allo sgomento Carlos de los Cobos, il quale si stava preparando per entrare al posto di Tomas Boy».
Il Soriano a cui basta una sola vittoria per restituire lo spazio infinito di una gioia lunga una vita e per celebrare il mito di un piccolo allenatore come el bambino Vieira «che si è intestardito a vincere il titolo con la società della sua infanzia, la derelitta su cui neanche un cane avrebbe scommesso un soldo, e a farci felici». «Magico San Lorenzo, cazzo! Vent’anni dopo el Ciclon torna a essere grande. Queste righe che sto scrivendo scendono dalla mano di Dio Onnipotente, vedo le lettere di “San Lorenzo campione” con la stessa nitidezza con cui Beethoven riusciva a udire al di là dei brusii e della sordità. Questo non sarà il Boca né il River ma ha la sua storia e un cuore grande come una lingua di cinghiale!» Marinho ci regala anche una lettera sincera del compianto Bobby Robson, maestro e amico dello Special One. «José mi piacerebbe che la tua reputazione fosse più simile a quella di Bill Shankly e meno a quella di Napoleone, un generale senz’altro brillante ma che, comunque, è finito male per il suo gusto per il conflitto».
di Gabriele Santoro
ROMA (21 giugno) – Un’estate per costruire l’Inter ideale. Otto mesi di traguardi intermedi tagliati quasi sempre in testa in un fiume di parole taglienti e fuochi d’artificio verbali. Trenta giorni per concretizzare cinicamente e scrupolosamente una storica tripletta nel segno del “Principe” Diego Milito.
Una notte magica per regalare ai tifosi interisti l’agognata Champions League in quel Santiago Bernabeu già scelto per saziare l’intima, voluttuosa fame di successi e di nuovi primati da tagliare. L’uragano José Mourinho in due anni ha fatto impazzire di gioia una tifoseria, ha eccitato e provocato stampa e televisioni con le costanti esternazioni da prima pagina e ha quantomai diviso l’Italia calcistica. Le lacrime finali in terra spagnola consumate con rapida disinvoltura sono sembrate più un corollario dovuto al trionfo, al protocollo d’addio all’Inter. Disarmante la lucidità e i tempi contingentati dell’annuncio di un altrove sportivo madridista già irresistibilmente meditato da mesi e da riempire di nuovi tituli. La poesia e i sentimenti con cui lo Special One ha conquistato indelebilmente il popolo nerazzurro si chiamano assoluta dedizione alla professione, trofei in serie e slogan in cui immedesimarsi e vendere come una maglietta di Samuel Eto’o.
José Marinho, giornalista sportivo portoghese di punta ora passato dall’altra parte della barricata come direttore sportivo del Guimaraes, grande conoscitore e confidente del celebre connazionale nel libro José Mourinho: nato per vincere (Cavallo di ferro, euro 14, pag. 228) racconta i segreti di uno stile inimitabile in panchina. «Un allenatore a cui piace la controversia, che si nutre di provocazione e che seduce per il suo gusto quasi schizofrenico dello scontro. È un uomo che per sua natura gioca all’attacco, ma che acquista grandezza nel modo in cui si difende». A immagine e somiglianza dell’Inter triplete. Una guida preziosa, aggiornata fino al successo di Madrid con le pagine a firma di Darwin Pastorin, per i Mou-dipendenti e per chi già inizia a sentirne la mancanza. Il libro approfondisce soprattutto l’esperienza al Chelsea di Roman Abramovich, in cui oltre a spendere con criterio le fortune del milionario russo è stata «rifondata una società e una squadra con uno spirito vincente. Il Chelsea prima identificato con la tifoseria chic di un ricco quartiere londinese, ora ha supporters in tutto il mondo».
Una nuova identità che è passata dalla costruzione di aspetti tangibili, come il fantastico centro di allenamenti di Cobham, e intangibili come la capacità di infondere nei giocatori una fiducia assoluta. «José è il primo produttore mondiale di autostima». Un tratto comune a tutte le esperienze del portoghese è la missione di far credere ai propri calciatori di essere i migliori al mondo. Così lo Special One spiega come abbia conquistato subito la squadra al suo sbarco londinese: «Dovevo dire chi ero, come funzionavo e, soprattutto, che ero un drogato del successo. E volevo sapere se anche loro avevano il mio stesso vizio».
Marinho snocciola i numeri straordinari dell’esperienza inglese: sei titoli di cui due scudetti in tre anni, 269 punti in tre Premier League contro i 249 dello United, 95 punti e record nella prima stagione. Non mancano le classiche punture di spillo a tecnici avversari come Claudio Ranieri e Rafael Benitez, erede designato sulla panchina interista. “Il rumore dei nemici” trasuda dalle pagine di Marinho, ma anche la stima per Van Gaal da cui ha imparato l’attenzione maniacale a tutti i dettagli. Il giornalista portoghese raccoglie poi una provocazione paradossale “E se Mourinho ci avesse rubato il calcio?” «Lui è l’uomo che sta rovinando il calcio con l’egemonia della sua perfezione. Mou è così competente in tutti gli aspetti del suo universo che nel considerarsi speciale ci ha rubato il calcio e l’ha tenuto tutto per sé». Si legge uno scambio di email tra l’autore e il tecnico precedente all’arrivo in Italia, dove riecheggia già la frase simbolo dell’addio al Bel Paese: «Non mi piace l’ipocrisia del calcio italiano. Non cambierò questo paese, ma neanche loro cambieranno me». Nulla lasciato all’improvvisazione.
Sia chiaro niente a che vedere con la romantica e appassionante prosa calcistica di Osvaldo Soriano, dove non c’è spazio per l’ammirazione di strategie comunicative o pianificazioni di sorta. Che cosa avrebbe scritto Soriano di Mourinho e del suo calcio fondato sul primato del denaro, sull’equilibrio tecnico/tattico e su una mentalità vincente? Lo scrittore argentino che in ”Ribelli, sognatori e fuggitivi” definiva così il ruolo dei tecnici: «Si ha la tendenza a esagerare la loro importanza. È stato patetico vedere il prof. jugoslavo Milutinovic, c.t. del Messico, tracciare un disegno fatto di punti, linee e crocette su un pezzo di carta mostrato allo sgomento Carlos de los Cobos, il quale si stava preparando per entrare al posto di Tomas Boy».
Il Soriano a cui basta una sola vittoria per restituire lo spazio infinito di una gioia lunga una vita e per celebrare il mito di un piccolo allenatore come el bambino Vieira «che si è intestardito a vincere il titolo con la società della sua infanzia, la derelitta su cui neanche un cane avrebbe scommesso un soldo, e a farci felici». «Magico San Lorenzo, cazzo! Vent’anni dopo el Ciclon torna a essere grande. Queste righe che sto scrivendo scendono dalla mano di Dio Onnipotente, vedo le lettere di “San Lorenzo campione” con la stessa nitidezza con cui Beethoven riusciva a udire al di là dei brusii e della sordità. Questo non sarà il Boca né il River ma ha la sua storia e un cuore grande come una lingua di cinghiale!» Marinho ci regala anche una lettera sincera del compianto Bobby Robson, maestro e amico dello Special One. «José mi piacerebbe che la tua reputazione fosse più simile a quella di Bill Shankly e meno a quella di Napoleone, un generale senz’altro brillante ma che, comunque, è finito male per il suo gusto per il conflitto».
venerdì 18 giugno 2010
Lakers campioni Nba 2010
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=107078
di Gabriele Santoro
ROMA (18 giugno) – I Los Angeles Lakers restano sul tetto della pallacanestro mondiale, l’Nba. Allo Staples Center è stata scritta una nuova pagina nella sfida storica contro i rivali di sempre, i commoventi Boston Celtics, non da un uomo solo al comando, Kobe Bryant (23 punti con 6/30 al tiro), ma da una squadra intera guidata in panchina dal numero uno assoluto, Phil Jackson (11 titoli Nba). È il sedicesimo anello a finire nella ricca bacheca Lakers, certamente uno dei più sofferti: vincere dopo sette gare per 83-79 contro questi Celtics tirando con il 32% da2, il 20% da3 e il 67% dai liberi è un’impresa quasi mistica.
La redenzione del cattivo ragazzo Ron Artest (20 punti, 5 recuperi), il talento esplosivo di Pau Gasol (19 punti, 18 rimbalzi di cui 9 offensivi), la chiave tattica Lamar Odom (+13 di plus/minus con lui in campo), la tripla ancora una volta decisiva dell’intramontabile Derek Fisher e i due tiri liberi di Vujacic regalano a Bryant, annullato dalla difesa Celtics e dalla pressione mentale della posta in palio, il quinto anello a un passo dai sei di Michael Jordan. Doc Rivers non può rimproverare nulla ai propri Celtics, che giocano un basket stellare frutto di un’intensità difensiva unica, di una circolazione di palla fantastica e della regia di Rajon Rondo (14 punti, 10 assist, 8 rimbalzi), ormai consacrato stella assoluta dell’Nba. Il terzetto d’assi Garnett-Allen-Pierce chiude, senza doppiare il titolo 2008, un ciclo che rende onore alla storia della franchigia con il trifoglio sul cuore. Una squadra sempre unita, pronta a vincere e a perdere le partite insieme.
Allo Staples Center non è serata per gli esteti, per le magie da video-tape: l’intensità gettata sul parquet è selvaggia, una concretezza coinvolgente da narrare con la lotta ai rimbalzi (chiave di volta della partita) e nei tuffi per recuperare un pallone. Il verbo di Jackson: «Durante i time-out, quando la palla non voleva entrare (22/72 al tiro per i gialloviola al 36’, ndr), ho detto ai miei semplicemente: continuate a prendere rimbalzi». A metà del terzo periodo con i Celtics sul +13, 49-36, e in pieno controllo emotivo della partita Jackson toglie lo statico Bynum per il playmaker aggiunto Odom ed è la svolta Lakers con la rimonta e il sorpasso firmati dal trio Fisher-Artest-Bryant, 64-68. Nell’ultimo minuto di gara, la centododicesima partita dell’anno per le due squadre, l’indomito spirito Celtics spinge Wallace, Allen e Rondo (canestro impossibile) a infilare tre triple che tengono con il fiato sospeso lo Staples Center (19mila spettatori e il solito parterre hollywoodiano), 79-81 con 11” da giocare. Va in lunetta Sasha Vujacic, scoperto da Bogdan Tanjevic e svezzato alla Snaidero Udine, la mano è ferma con 2/2 e l’ultima preghiera di Boston si spegne lontano dal ferro.
Kobe Bryant riceve il titolo di miglior giocatore delle Finals dalle mani di Bill Russell, leggendaria bandiera dei Celtics dominatori. Il successo più importante del numero 24 gialloviola è di aver trovato nel momento più difficile dei compagni di strada in grado di fargli scalare l’ultimo chilometro prima della vetta ambita. Compagni che hanno ripagato la sua ennesima stagione da trascinatore. Ci sono poche parole per descrivere l’impatto decisivo della roulette russa Ron Artest, mattatore a sorpresa di quest’annata. Poi sul tetto del mondo c’è un europeo come lo spagnolo Pau Gasol, miscela esplosiva di talento ed intensità agonistica nella notte più importante. Dopo il back-to-back (due anelli consecutivi) la franchigia californiana già si proietta verso il three peat (tre anelli consecutivi), ma ora è il momento dei festeggiamenti con i classici cappelli e t-shirt celebrative. Dal parquet riecheggiano le parole di David Stern, gran cerimoniere dell’Nba contemporanea, che ringrazia tutti per lo show, sprizzano i larghi sorrisi di Magic Johnson che incorona Bryant ed è un piacere speciale vedere un altro grande Laker come Kareem Abdul Jabbar, impegnato a vincere la partita più complicata della propria vita.
La partita. Christina Aguilera apre la notte senza ritorno intonando “The Star Spangled Banner” (l’inno nazionale Usa, ndr) in uno Staples Center assorto in religioso silenzio. Phil Jackson nello spogliatoio sulla lavagna disegna un rebus facile, facile: “One game to the title (parola rappresentato dall’anello) e poi scherza “ricordate che domani non c’è allenamento”. Doc Rivers cita a braccio l’antenato eccellente Red Auerbach: “Get the ball, don’t give up the ball” e le parole dell’infortunato Kendrick Perkins. Il coach di Boston sa che l’impresa è ardua: nell’Nba solo tre squadre su sedici sono riuscite nell’impresa di vincere gara sette in trasferta. Alla palla a due stupisce subito la timidezza di Kobe Bryant, che a differenza di gara sei non aggredisce la partita. I Lakers litigano con il ferro, ma conquistano ben 6 extra-possessi grazie ai rimbalzi offensivi. Fisher spezza l’incantesimo con una tripla, mentre Rasheed Wallace sostituto in quintetto di Perkins sfida Gasol con 4 punti consecutivi. La mente dei Celtics Rajon Rondo sale di tono in transizione e innesca meravigliosamente i compagni per il 14-23 del 12’, 13-3 di break negli ultimi 4’ del periodo. La difesa bianco verde costringe Los Angeles a un emblematico 6/27 dal campo. Stecca il primo violino Bryant, allora a far suonare l’orchestra ci pensa l’energia rumorosa di Ron Artest con 12 punti per il -2, 23-25. Ray Allen paga lo sforzo difensivo su Kobe nella metà campo offensiva con 1/9 al tiro. Il tassametro dei rimbalzi per i padroni di casa corre a 15 e grazie a questa voce statistica al 24’ si è sotto solo 34-40.
Al rientro dal riposo lungo Bryant prosegue a litigare con il canestro, 3/17 per lui e 14/54 complessivo il team, mentre Rondo detta legge e affonda il rivale diretto Fisher. Boston scappa fino al +13, 36-49. Phil Jackson ne ha viste abbastanza e chiama time-out: fuori Bynum dentro Odom. Si apre l’area per Gasol, Artest e lo stesso Bryant con i Celtics che iniziano a produrre troppe palle perse. L’intensità dei gialloviola si tramuta in tanti viaggi in lunetta. Fisher, dopo una parentesi nello spogliatoio per una botta al ginocchio, mette il siluro del 64-64 a 6’ dalla sirena finale. L’altra tripla decisiva la infila Artest con tanto di baci al pubblico, 79-73. L’ultimo arrembaggio bianco verde è reso vano dai liberi di Gasol e Vujacic per il 83-79 finale.
di Gabriele Santoro
ROMA (18 giugno) – I Los Angeles Lakers restano sul tetto della pallacanestro mondiale, l’Nba. Allo Staples Center è stata scritta una nuova pagina nella sfida storica contro i rivali di sempre, i commoventi Boston Celtics, non da un uomo solo al comando, Kobe Bryant (23 punti con 6/30 al tiro), ma da una squadra intera guidata in panchina dal numero uno assoluto, Phil Jackson (11 titoli Nba). È il sedicesimo anello a finire nella ricca bacheca Lakers, certamente uno dei più sofferti: vincere dopo sette gare per 83-79 contro questi Celtics tirando con il 32% da2, il 20% da3 e il 67% dai liberi è un’impresa quasi mistica.
La redenzione del cattivo ragazzo Ron Artest (20 punti, 5 recuperi), il talento esplosivo di Pau Gasol (19 punti, 18 rimbalzi di cui 9 offensivi), la chiave tattica Lamar Odom (+13 di plus/minus con lui in campo), la tripla ancora una volta decisiva dell’intramontabile Derek Fisher e i due tiri liberi di Vujacic regalano a Bryant, annullato dalla difesa Celtics e dalla pressione mentale della posta in palio, il quinto anello a un passo dai sei di Michael Jordan. Doc Rivers non può rimproverare nulla ai propri Celtics, che giocano un basket stellare frutto di un’intensità difensiva unica, di una circolazione di palla fantastica e della regia di Rajon Rondo (14 punti, 10 assist, 8 rimbalzi), ormai consacrato stella assoluta dell’Nba. Il terzetto d’assi Garnett-Allen-Pierce chiude, senza doppiare il titolo 2008, un ciclo che rende onore alla storia della franchigia con il trifoglio sul cuore. Una squadra sempre unita, pronta a vincere e a perdere le partite insieme.
Allo Staples Center non è serata per gli esteti, per le magie da video-tape: l’intensità gettata sul parquet è selvaggia, una concretezza coinvolgente da narrare con la lotta ai rimbalzi (chiave di volta della partita) e nei tuffi per recuperare un pallone. Il verbo di Jackson: «Durante i time-out, quando la palla non voleva entrare (22/72 al tiro per i gialloviola al 36’, ndr), ho detto ai miei semplicemente: continuate a prendere rimbalzi». A metà del terzo periodo con i Celtics sul +13, 49-36, e in pieno controllo emotivo della partita Jackson toglie lo statico Bynum per il playmaker aggiunto Odom ed è la svolta Lakers con la rimonta e il sorpasso firmati dal trio Fisher-Artest-Bryant, 64-68. Nell’ultimo minuto di gara, la centododicesima partita dell’anno per le due squadre, l’indomito spirito Celtics spinge Wallace, Allen e Rondo (canestro impossibile) a infilare tre triple che tengono con il fiato sospeso lo Staples Center (19mila spettatori e il solito parterre hollywoodiano), 79-81 con 11” da giocare. Va in lunetta Sasha Vujacic, scoperto da Bogdan Tanjevic e svezzato alla Snaidero Udine, la mano è ferma con 2/2 e l’ultima preghiera di Boston si spegne lontano dal ferro.
Kobe Bryant riceve il titolo di miglior giocatore delle Finals dalle mani di Bill Russell, leggendaria bandiera dei Celtics dominatori. Il successo più importante del numero 24 gialloviola è di aver trovato nel momento più difficile dei compagni di strada in grado di fargli scalare l’ultimo chilometro prima della vetta ambita. Compagni che hanno ripagato la sua ennesima stagione da trascinatore. Ci sono poche parole per descrivere l’impatto decisivo della roulette russa Ron Artest, mattatore a sorpresa di quest’annata. Poi sul tetto del mondo c’è un europeo come lo spagnolo Pau Gasol, miscela esplosiva di talento ed intensità agonistica nella notte più importante. Dopo il back-to-back (due anelli consecutivi) la franchigia californiana già si proietta verso il three peat (tre anelli consecutivi), ma ora è il momento dei festeggiamenti con i classici cappelli e t-shirt celebrative. Dal parquet riecheggiano le parole di David Stern, gran cerimoniere dell’Nba contemporanea, che ringrazia tutti per lo show, sprizzano i larghi sorrisi di Magic Johnson che incorona Bryant ed è un piacere speciale vedere un altro grande Laker come Kareem Abdul Jabbar, impegnato a vincere la partita più complicata della propria vita.
La partita. Christina Aguilera apre la notte senza ritorno intonando “The Star Spangled Banner” (l’inno nazionale Usa, ndr) in uno Staples Center assorto in religioso silenzio. Phil Jackson nello spogliatoio sulla lavagna disegna un rebus facile, facile: “One game to the title (parola rappresentato dall’anello) e poi scherza “ricordate che domani non c’è allenamento”. Doc Rivers cita a braccio l’antenato eccellente Red Auerbach: “Get the ball, don’t give up the ball” e le parole dell’infortunato Kendrick Perkins. Il coach di Boston sa che l’impresa è ardua: nell’Nba solo tre squadre su sedici sono riuscite nell’impresa di vincere gara sette in trasferta. Alla palla a due stupisce subito la timidezza di Kobe Bryant, che a differenza di gara sei non aggredisce la partita. I Lakers litigano con il ferro, ma conquistano ben 6 extra-possessi grazie ai rimbalzi offensivi. Fisher spezza l’incantesimo con una tripla, mentre Rasheed Wallace sostituto in quintetto di Perkins sfida Gasol con 4 punti consecutivi. La mente dei Celtics Rajon Rondo sale di tono in transizione e innesca meravigliosamente i compagni per il 14-23 del 12’, 13-3 di break negli ultimi 4’ del periodo. La difesa bianco verde costringe Los Angeles a un emblematico 6/27 dal campo. Stecca il primo violino Bryant, allora a far suonare l’orchestra ci pensa l’energia rumorosa di Ron Artest con 12 punti per il -2, 23-25. Ray Allen paga lo sforzo difensivo su Kobe nella metà campo offensiva con 1/9 al tiro. Il tassametro dei rimbalzi per i padroni di casa corre a 15 e grazie a questa voce statistica al 24’ si è sotto solo 34-40.
Al rientro dal riposo lungo Bryant prosegue a litigare con il canestro, 3/17 per lui e 14/54 complessivo il team, mentre Rondo detta legge e affonda il rivale diretto Fisher. Boston scappa fino al +13, 36-49. Phil Jackson ne ha viste abbastanza e chiama time-out: fuori Bynum dentro Odom. Si apre l’area per Gasol, Artest e lo stesso Bryant con i Celtics che iniziano a produrre troppe palle perse. L’intensità dei gialloviola si tramuta in tanti viaggi in lunetta. Fisher, dopo una parentesi nello spogliatoio per una botta al ginocchio, mette il siluro del 64-64 a 6’ dalla sirena finale. L’altra tripla decisiva la infila Artest con tanto di baci al pubblico, 79-73. L’ultimo arrembaggio bianco verde è reso vano dai liberi di Gasol e Vujacic per il 83-79 finale.
mercoledì 16 giugno 2010
Atletica, al Golden Gala Powell vola. Vlasic regina dell'alto
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=105978
di Gabriele Santoro
ROMA (10 giugno) - Nella notte della grande atletica allo Stadio Olimpico con il Golden Gala non tradiscono le attese lo sprinter giamaicano Powell e la saltatrice croata Vlasic, padroni dei 100 metri e del salto in alto. In assenza del marziano Usain Bolt, Walter Dix si conferma la prima alternativa sui 200 metri cancellando con 19.86 il record di Michael Johnson del 1999 a Roma. In molte gare sono stati fatti registrare i migliori tempi stagionali, senza però il grandissimo exploit.
Grande assente della serata l'Italia, che priva di Andrew Howe ha collezionato un magro bottino: seconda la staffetta azzurra della 4X100 (38.72), settimo tempo di Collio (10.29) nei 100 metri e della Cusma negli 800 metri, quinta La Mantia nel triplo, ultima Zahra Bani nel giavellotto, ottavo Formichetti nel lungo, sesto Licciardello nei 400 metri, infine non giudicabile la prestazione della rientrante Di Martino comunque quarta.
Asafa Powell torna a dominare i cento metri al Golden Gala: miglior prestazione mondiale stagionale con 9.82 e quarto successo consecutivo nell'ultimo mese. Il giamaicano raccoglie gli applausi di uno Stadio Olimpico che offre un buon colpo d'occhio con circa trentamila spettatori. Powell dopo una brutta partenza stacca nettamente la coppia francese Christophe Lemaitre-Mbandjock. «Ho corso un grande tempo, nonostante una pessima partenza e un tempo di reazione lento. Questa prestazione conferma il buono stato di forma e mi piace il pubblico di Roma che si fa sempre sentire». Gli sprinter d'Oltralpe si fermano a 9 centesimi dall'abbattere la fatidica soglia dei 10 secondi sotto i quali un atleta bianco non è mai sceso.
Nell'altra gara più attesa, il salto in alto, Blanka Vlasic e Chaunte Howard-Lowe regalano sorrisi, balletti e rinnovano un duello diretto destinato a dominare ancora a lungo la scena mondiale. Alla fine vince la croata con la misura 2.03, molto lontano dal record di 2.09 della Kostadinova, fermandosi a 2.05 dopo il terzo errore della Howard. La Vlasic ha rischiato una clamorosa eliminazione, azzeccando solo al terzo salto l'1.98 sostenuta dagli applausi dello stadio.
Antonietta Di Martino, alla prima uscita in pedana della stagione, non va oltre il 1.95. «Non riuscivo a gestire la rincorsa. E' stato tutto difficile. Saltare 1.95 alla prima gara dopo un inverno condizionato dalla mononucleosi non è male. Erano nove mesi che non gareggiavo».
Walter Dix nei 200m abbassa il record del meeting di un certo Michael Johnson, scendendo dai 19.93 ai 19.86. Dwight Phillips conferma i buoni propositi e domina lo scontro diretto nel salto in lungo con il panamense Irving Saladino: sulla sabbia dell'Olimpico lo statunitense fa segnare 8.42, miglior salto del 2010. Saladino si ferma a un deludente 8.13.
Barbara Spotakova, come promesso alla vigilia del Meeting, vince e ritrova fiducia dopo un avvio di stagione negativo scagliando il giavellotto a 68.66m nuovo record al Golden Gala (superato il 68.22 della norvegese Hattestad nel 2000). «E' stata la mia migliore prestazione dell'anno, conserverò un buon ricordo di questa serata e di questa splendida città».Dayron Robles disputa una gara sottono con 13.14 sui 110 metri ostacoli.«Volevo una gara veloce e mi aspettavo di correre più forte. Il tempo atmosferico era ottimo, ho avuto problemi tecnici».
Riscatto sui 400 metri per Jeremy Wariner, che una volta messa alle spalle l'operazione al ginocchio fa registrare il miglior tempo mondiale stagionale con 44.73. «Sono felice della mia corsa, soprattutto della parte finale. E' stato un bel testa a testa con Angelo Taylor (44.74), ma sono rimasto concentrato solo sulla mia corsia». Nel lancio del peso lo statunitense Cantwell si conferma leader della Diamond League, eguagliando il record del meeting a 21.67.
Delusione forte nei 100 metri femminili con l'eliminazione della campionessa olimpica giamaicana Fraser e della Barber per doppia falsa partenza. Con una griglia così menomata vince Lashantea Moore con 11.04. Lashinda Demus sbanca tutto nei 400 ostacoli al femminile con 52.82: tempo dell'anno e record del Golden Gala. «Sono davvero in ottime condizioni di forma. Quest'anno non ci sono Olimpiadi e mondiali, posso lavorare per migliorare i tempi».
Negli 800 metri al femminile la marocchina Hachlaf Halima vince con il primato mondiale stagionale, 1.58.40, battendo la concorrenza della Jepkosgei e della Meadows entrambi sotto l'1.59. Male l'italiana Elisa Cusma, finita settima con un crollo nel rettilineo finale. Vittoria nel disco per il polacco Piotr Malachowski, 68.78 e miglior misura del Golden Gala. La brasiliana Fabiana Murer commette meno errori della tedesca Spiegelburg, leader della Diamond League, e si aggiudica il salto con l'asta con 4.70. L'etiope Imane Merga vince al fotofinish una gara strepitosa: quattro atleti in 81 decimi.Tripletta kenyota nei 1500m al maschile con i giovani Choge, Komen e Rono e nei 3000 siepi con la connazionale Cheiywa che fa segnare la miglior prestazione stagionale, 9.11.71. Nel triplo femminile miglior salto della cubana Savigne con 14.74.
di Gabriele Santoro
ROMA (10 giugno) - Nella notte della grande atletica allo Stadio Olimpico con il Golden Gala non tradiscono le attese lo sprinter giamaicano Powell e la saltatrice croata Vlasic, padroni dei 100 metri e del salto in alto. In assenza del marziano Usain Bolt, Walter Dix si conferma la prima alternativa sui 200 metri cancellando con 19.86 il record di Michael Johnson del 1999 a Roma. In molte gare sono stati fatti registrare i migliori tempi stagionali, senza però il grandissimo exploit.
Grande assente della serata l'Italia, che priva di Andrew Howe ha collezionato un magro bottino: seconda la staffetta azzurra della 4X100 (38.72), settimo tempo di Collio (10.29) nei 100 metri e della Cusma negli 800 metri, quinta La Mantia nel triplo, ultima Zahra Bani nel giavellotto, ottavo Formichetti nel lungo, sesto Licciardello nei 400 metri, infine non giudicabile la prestazione della rientrante Di Martino comunque quarta.
Asafa Powell torna a dominare i cento metri al Golden Gala: miglior prestazione mondiale stagionale con 9.82 e quarto successo consecutivo nell'ultimo mese. Il giamaicano raccoglie gli applausi di uno Stadio Olimpico che offre un buon colpo d'occhio con circa trentamila spettatori. Powell dopo una brutta partenza stacca nettamente la coppia francese Christophe Lemaitre-Mbandjock. «Ho corso un grande tempo, nonostante una pessima partenza e un tempo di reazione lento. Questa prestazione conferma il buono stato di forma e mi piace il pubblico di Roma che si fa sempre sentire». Gli sprinter d'Oltralpe si fermano a 9 centesimi dall'abbattere la fatidica soglia dei 10 secondi sotto i quali un atleta bianco non è mai sceso.
Nell'altra gara più attesa, il salto in alto, Blanka Vlasic e Chaunte Howard-Lowe regalano sorrisi, balletti e rinnovano un duello diretto destinato a dominare ancora a lungo la scena mondiale. Alla fine vince la croata con la misura 2.03, molto lontano dal record di 2.09 della Kostadinova, fermandosi a 2.05 dopo il terzo errore della Howard. La Vlasic ha rischiato una clamorosa eliminazione, azzeccando solo al terzo salto l'1.98 sostenuta dagli applausi dello stadio.
Antonietta Di Martino, alla prima uscita in pedana della stagione, non va oltre il 1.95. «Non riuscivo a gestire la rincorsa. E' stato tutto difficile. Saltare 1.95 alla prima gara dopo un inverno condizionato dalla mononucleosi non è male. Erano nove mesi che non gareggiavo».
Walter Dix nei 200m abbassa il record del meeting di un certo Michael Johnson, scendendo dai 19.93 ai 19.86. Dwight Phillips conferma i buoni propositi e domina lo scontro diretto nel salto in lungo con il panamense Irving Saladino: sulla sabbia dell'Olimpico lo statunitense fa segnare 8.42, miglior salto del 2010. Saladino si ferma a un deludente 8.13.
Barbara Spotakova, come promesso alla vigilia del Meeting, vince e ritrova fiducia dopo un avvio di stagione negativo scagliando il giavellotto a 68.66m nuovo record al Golden Gala (superato il 68.22 della norvegese Hattestad nel 2000). «E' stata la mia migliore prestazione dell'anno, conserverò un buon ricordo di questa serata e di questa splendida città».Dayron Robles disputa una gara sottono con 13.14 sui 110 metri ostacoli.«Volevo una gara veloce e mi aspettavo di correre più forte. Il tempo atmosferico era ottimo, ho avuto problemi tecnici».
Riscatto sui 400 metri per Jeremy Wariner, che una volta messa alle spalle l'operazione al ginocchio fa registrare il miglior tempo mondiale stagionale con 44.73. «Sono felice della mia corsa, soprattutto della parte finale. E' stato un bel testa a testa con Angelo Taylor (44.74), ma sono rimasto concentrato solo sulla mia corsia». Nel lancio del peso lo statunitense Cantwell si conferma leader della Diamond League, eguagliando il record del meeting a 21.67.
Delusione forte nei 100 metri femminili con l'eliminazione della campionessa olimpica giamaicana Fraser e della Barber per doppia falsa partenza. Con una griglia così menomata vince Lashantea Moore con 11.04. Lashinda Demus sbanca tutto nei 400 ostacoli al femminile con 52.82: tempo dell'anno e record del Golden Gala. «Sono davvero in ottime condizioni di forma. Quest'anno non ci sono Olimpiadi e mondiali, posso lavorare per migliorare i tempi».
Negli 800 metri al femminile la marocchina Hachlaf Halima vince con il primato mondiale stagionale, 1.58.40, battendo la concorrenza della Jepkosgei e della Meadows entrambi sotto l'1.59. Male l'italiana Elisa Cusma, finita settima con un crollo nel rettilineo finale. Vittoria nel disco per il polacco Piotr Malachowski, 68.78 e miglior misura del Golden Gala. La brasiliana Fabiana Murer commette meno errori della tedesca Spiegelburg, leader della Diamond League, e si aggiudica il salto con l'asta con 4.70. L'etiope Imane Merga vince al fotofinish una gara strepitosa: quattro atleti in 81 decimi.Tripletta kenyota nei 1500m al maschile con i giovani Choge, Komen e Rono e nei 3000 siepi con la connazionale Cheiywa che fa segnare la miglior prestazione stagionale, 9.11.71. Nel triplo femminile miglior salto della cubana Savigne con 14.74.
Atletica, giovedì il Golden Gala: Powell e Vlasic le stelle
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=105733
di Gabriele Santoro
ROMA (9 giugno) – I larghi sorrisi di un Asafa Powell in forma smagliante e la grinta pepata di Blanka Vlasic accendono la vigilia della trentesima edizione del Golden Gala. Una serata per gustare dagli spalti dello Stadio Olimpico (giovedì dalle 19.20 alle 23, biglietti in vendita da 5 a 25 euro) gare di atletica di altissimo livello grazie alla partecipazione di un cast di atleti di prim’ordine. Rispetto agli scorsi anni il meeting romano, quarta tappa del nuovo circuito della Iaaf Diamond League, è stato anticipato di qualche settimana ed è stato inserito nel contesto della “Settimana dell’atletica”(da giovedì a domenica tra Olimpico, Foro Italico e Stadio della Farnesina), che prevede le finali nazionali dei campionati studenteschi, i campionati italiani Master e il Festival del Fitness. «Vogliamo rilanciare questa manifestazione - sottolinea Anna Riccardi, direttrice del meeting - e per farlo abbiamo deciso di abbinare un programma agonistico di grande qualità alla partecipazione dei giovani mediante la sinergia con l’Unicef, Comitato olimpico italiano e Diamond League.
La capienza dello stadio è stata dimezzata e gli spettatori potranno stare il più vicino possibile alla pista. L’anticipo di un mese garantisce un maggiore afflusso di pubblico». Il budget previsto per questo Golden Gala è di circa due milioni di euro. Gli infortuni del numero uno mondiale Usain Bolt e di Tyson Gay hanno lasciato la gara regina dei 100 metri in mano ad Asafa Powell, che si sta godendo appieno questa solitudine in pista. Il giamaicano è reduce da tre successi dal 14 maggio a oggi: Doha, Ostrava e Oslo. «Mi sento solo senza i miei rivali? (Ride di gusto, ndr) Certo è più eccitante vincere quando tutti i migliori sono in pista e le gare hanno più appeal. D’altra parte però ho avuto un avvio di stagione straordinario e la gara di Ostrava è stata la migliore corsa. Finalmente mi sono riappacificato con gli infortuni». Powell ha un ottimo rapporto con l’Olimpico e il Golden Gala (6 apparizioni, 2 successi) e non nasconde mai la propria passione per Roma.
«Tornare qui è sempre un grande piacere. Spero di cancellare la sconfitta dell’anno passato e far divertire i romani». C’è attesa per i due giovani centometristi francesi, soprattutto Christophe Lemaitre che potrebbe essere il primo corridore bianco a scendere sotto i 10”. «Vedremo cosa sapranno offrire alla serata - chiosa Powell – se dovesse abbattere quel limite aprirebbe la strada a molti». Infine chiude sui propositi avveniristici di Tyson Gay: «Il record dei 100 metri sotto i 9.45? A parole anche sotto i nove secondi possiamo andare». Nella notte dell’Olimpico i fari saranno puntati sul salto in alto femminile. Una sfida che si annuncia eccitante con la stella croata Blanka Vlasic alla caccia del record mondiale di 2.09 fatto registrare ventitre anni fa proprio nello stadio capitolino dalla bulgara Kostadinova, con l’ascesa prepotente della statunitense Howard-Lowe e il rientro dell’italiana Di Martino (vincitrice a Roma l’anno scorso ai danni della Vlasic) alla prima gara stagionale dopo la mononucleosi.
La bella Vlasic non fa niente per nascondere lo scarso idillio con la pista romana, giudicata troppo morbida per lei. «Sì è vero non mi trovo bene nella rincorsa, ma mi adatterò per vincere. Nel 1987 è stato fatto il record qui? Si vede che da allora non è stata più rifatta. Questa città mi piace molto e poi è veramente vicina a casa (Spalato)». Al suo fianco Chaunte Howard, accompagnata dalla piccola figlia che freme per buttarsi nella piscina dello Sheraton, è molto carica e pronta a raddoppiare anche con il salto in lungo. «Cosa voglio fare da grande? In Jamaica ho ottenuto ottimi risultati anche nel lungo (6.61 m) e ai campionati statunitensi mi cimenterò su entrambi. Dopo le fatiche della gravidanza mi sento più forte mentalmente e spiritualmente. La mia vita ora è completa e sono pronta a vincere». Antonietta Di Martino non ha proclami battaglieri da recitare, ma vuole riprovare le sensazioni della gara: «A livello di risultati non posso chiedere molto a questo Golden Gala, voglio confermare i progressi degli allenamenti. È stato un inverno difficile per la mononucleosi e gli strascichi di stanchezza, ma ora tutto sembra alle spalle. Questa concorrenza mi stimola moltissimo, anche se non sento aria di record».
Nel ricco menù sono da seguire attentamente la gara del lancio del peso, con il dominio incontrastato degli Usa rappresentati da Reese Hoffa e Christian Cantwell, il salto in lungo maschile con il duello tra il panamense Irving Saladino e l’americano Dwight Phillips, che regala un siparietto esilarante con il connazionale Cantwell su quale sarà la sfida più spettacolare. Assenza pesante per i colori azzurri di Andrew Howe, tenuto a riposo precauzionale per un affaticamento muscolare. Il cubano Dayron Robles, campione olimpico in carica dei 110 mhs e detentore del record mondiale a 12.87, approfitterà delle ottime condizioni climatiche per cercare di migliorarsi. Nei 100m al femminile regalerà spettacolo la campionessa olimpica Sherly Ann-Fraser. C’è anche chi si vuole ritrovare, come la ceca Barbara Spotakova, oro olimpico e iridato e detentrice del record mondiale del lancio del giavellotto, che arrossisce dopo una battuta involontaria: «Fino a oggi non ho avuto buone performance. Preferisco sempre stadi di grandi dimensioni, in quelli piccoli non mi trovo a mio agio».
di Gabriele Santoro
ROMA (9 giugno) – I larghi sorrisi di un Asafa Powell in forma smagliante e la grinta pepata di Blanka Vlasic accendono la vigilia della trentesima edizione del Golden Gala. Una serata per gustare dagli spalti dello Stadio Olimpico (giovedì dalle 19.20 alle 23, biglietti in vendita da 5 a 25 euro) gare di atletica di altissimo livello grazie alla partecipazione di un cast di atleti di prim’ordine. Rispetto agli scorsi anni il meeting romano, quarta tappa del nuovo circuito della Iaaf Diamond League, è stato anticipato di qualche settimana ed è stato inserito nel contesto della “Settimana dell’atletica”(da giovedì a domenica tra Olimpico, Foro Italico e Stadio della Farnesina), che prevede le finali nazionali dei campionati studenteschi, i campionati italiani Master e il Festival del Fitness. «Vogliamo rilanciare questa manifestazione - sottolinea Anna Riccardi, direttrice del meeting - e per farlo abbiamo deciso di abbinare un programma agonistico di grande qualità alla partecipazione dei giovani mediante la sinergia con l’Unicef, Comitato olimpico italiano e Diamond League.
La capienza dello stadio è stata dimezzata e gli spettatori potranno stare il più vicino possibile alla pista. L’anticipo di un mese garantisce un maggiore afflusso di pubblico». Il budget previsto per questo Golden Gala è di circa due milioni di euro. Gli infortuni del numero uno mondiale Usain Bolt e di Tyson Gay hanno lasciato la gara regina dei 100 metri in mano ad Asafa Powell, che si sta godendo appieno questa solitudine in pista. Il giamaicano è reduce da tre successi dal 14 maggio a oggi: Doha, Ostrava e Oslo. «Mi sento solo senza i miei rivali? (Ride di gusto, ndr) Certo è più eccitante vincere quando tutti i migliori sono in pista e le gare hanno più appeal. D’altra parte però ho avuto un avvio di stagione straordinario e la gara di Ostrava è stata la migliore corsa. Finalmente mi sono riappacificato con gli infortuni». Powell ha un ottimo rapporto con l’Olimpico e il Golden Gala (6 apparizioni, 2 successi) e non nasconde mai la propria passione per Roma.
«Tornare qui è sempre un grande piacere. Spero di cancellare la sconfitta dell’anno passato e far divertire i romani». C’è attesa per i due giovani centometristi francesi, soprattutto Christophe Lemaitre che potrebbe essere il primo corridore bianco a scendere sotto i 10”. «Vedremo cosa sapranno offrire alla serata - chiosa Powell – se dovesse abbattere quel limite aprirebbe la strada a molti». Infine chiude sui propositi avveniristici di Tyson Gay: «Il record dei 100 metri sotto i 9.45? A parole anche sotto i nove secondi possiamo andare». Nella notte dell’Olimpico i fari saranno puntati sul salto in alto femminile. Una sfida che si annuncia eccitante con la stella croata Blanka Vlasic alla caccia del record mondiale di 2.09 fatto registrare ventitre anni fa proprio nello stadio capitolino dalla bulgara Kostadinova, con l’ascesa prepotente della statunitense Howard-Lowe e il rientro dell’italiana Di Martino (vincitrice a Roma l’anno scorso ai danni della Vlasic) alla prima gara stagionale dopo la mononucleosi.
La bella Vlasic non fa niente per nascondere lo scarso idillio con la pista romana, giudicata troppo morbida per lei. «Sì è vero non mi trovo bene nella rincorsa, ma mi adatterò per vincere. Nel 1987 è stato fatto il record qui? Si vede che da allora non è stata più rifatta. Questa città mi piace molto e poi è veramente vicina a casa (Spalato)». Al suo fianco Chaunte Howard, accompagnata dalla piccola figlia che freme per buttarsi nella piscina dello Sheraton, è molto carica e pronta a raddoppiare anche con il salto in lungo. «Cosa voglio fare da grande? In Jamaica ho ottenuto ottimi risultati anche nel lungo (6.61 m) e ai campionati statunitensi mi cimenterò su entrambi. Dopo le fatiche della gravidanza mi sento più forte mentalmente e spiritualmente. La mia vita ora è completa e sono pronta a vincere». Antonietta Di Martino non ha proclami battaglieri da recitare, ma vuole riprovare le sensazioni della gara: «A livello di risultati non posso chiedere molto a questo Golden Gala, voglio confermare i progressi degli allenamenti. È stato un inverno difficile per la mononucleosi e gli strascichi di stanchezza, ma ora tutto sembra alle spalle. Questa concorrenza mi stimola moltissimo, anche se non sento aria di record».
Nel ricco menù sono da seguire attentamente la gara del lancio del peso, con il dominio incontrastato degli Usa rappresentati da Reese Hoffa e Christian Cantwell, il salto in lungo maschile con il duello tra il panamense Irving Saladino e l’americano Dwight Phillips, che regala un siparietto esilarante con il connazionale Cantwell su quale sarà la sfida più spettacolare. Assenza pesante per i colori azzurri di Andrew Howe, tenuto a riposo precauzionale per un affaticamento muscolare. Il cubano Dayron Robles, campione olimpico in carica dei 110 mhs e detentore del record mondiale a 12.87, approfitterà delle ottime condizioni climatiche per cercare di migliorarsi. Nei 100m al femminile regalerà spettacolo la campionessa olimpica Sherly Ann-Fraser. C’è anche chi si vuole ritrovare, come la ceca Barbara Spotakova, oro olimpico e iridato e detentrice del record mondiale del lancio del giavellotto, che arrossisce dopo una battuta involontaria: «Fino a oggi non ho avuto buone performance. Preferisco sempre stadi di grandi dimensioni, in quelli piccoli non mi trovo a mio agio».
venerdì 4 giugno 2010
Nba, Bryant&Gasol: ai Lakers garauno delle Finals
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=104982
ROMA (4 giugno) – Ancora lui, sempre lui. Kobe Bryant segna trenta punti, domina emotivamente gara uno, 102-89, della nuova sfida con i Celtics e inizia a incidere la storia delle Finals 2010. In uno Staples Center vestito a festa con circa diciannove mila tifosi in delirio i Los Angeles Lakers scappano a cavallo dei due periodi centrali e poi controllano sempre la partita con un vantaggio che non scende mai sotto la doppia cifra. I giallo viola costruiscono il successo con il controllo indiscusso dell’area colorata, 48 punti a 30, chiudendo alle penetrazioni della mente dei Celtics Rajon Rondo. Delude il terzetto d’assi di Boston Pierce-Allen-Garnett.
Phil Jackson oltre allo show del protagonista assoluto si gode due stelle come Pau Gasol e Ron Artest, che dominano letteralmente la sfida sotto i tabelloni. Lo spagnolo negli oltre quarantasei minuti sul parquet, praticamente mai tenuto in panchina, mette a referto una doppia doppia con 23 punti ma soprattutto 14 rimbalzi dei quali ben 8 offensivi. Gasol ha fugato i dubbi, per chi ancora li serbasse dalle Finals 2008, su quanto sia un eccellente agonista oltre ad avere mani sopraffine. Arriva anche l’incoronazione del coach avversario, Doc Rivers «Se per due anni senti dirti che non sei in grado di essere abbastanza intenso, con ogni probabilità proverai a smentire tutti e certamente stasera Gasol l’ha fatto». Il + 26 di plus/minus (la statistica che rileva l’incidenza nel corso della gara del giocatore sull'andamento del punteggio la propria squadra) spiega quanto Artest (11.5 punti e 4 rimbalzi di media nei play-off ) sia diventato un perno fondamentale nel sistema pressoché perfetto della squadra californiana. Nota di merito anche ad Andrew Bynum, croce e delizia gialloviola, che si fa trovare pronto con punti e rimbalzi.
Delusione Boston? Il quintetto guidato in panchina da Doc Rivers non ha approcciato questa finale sullo stesso livello delle serie contro i Cleveland Cavaliers e gli Orlando Magic. Male nel tiro dalla lunga distanza, uno dei punti di forza dei biancoverdi, con 1/10 in cui spicca l’inusuale 0/6 della coppia Allen-Pierce. “The Truth” Pierce fattura 24 punti, di cui 12 dalla lunetta, ma a partita ormai ampiamente compromessa e perde nettamente lo scontro diretto con Bryant. Ma i Celtics perdono soprattutto tutti i duelli sotto i vetri: undici rimbalzi in meno (42-31) dei Lakers pesano moltissimo in negativo, 16-0 nelle secondi occasioni per i padroni di casa. Non devono ingannare i sedici punti di Kevin Garnett ancora lontano dalla forma migliore.
La partita. Alla palla a due Ron Artest e Paul Pierce accendono subito i fuochi d’artificio con un doppio fallo tecnico, scaturito da un reciproco strattonamento. Il leit-motiv del primo periodo è proprio l’aggressività esasperata su entrambi i lati del campo, che produce problemi di falli per diversi giocatori e molte gite in lunetta. Al 10’ la partita è in assoluto equilibrio, 18-18, e la frazione si chiude sul +5 Lakers, 26-21, grazie ai punti dalla panchina di Farmar e Brown. A metà del secondo quarto il trio Artest-Bryant-Gasol costruisce il break di 11-2 che produce la prima scossa, 48-37. Alla sirena del 24’ sono ben 28 i falli fischiati e 27 i tiri liberi concessi alle due squadre. Sulla sponda Celtics Pierce e Ray Allen non pervenuti. Al rientro dall’intervallo lungo ci pensa il solito Bryant con un periodo da 14 punti a indirizzare il primo episodio della serie finale. La tripla dell’84-64 di Ron Artest mette il sigillo definitivo. Negli ultimi 12’ di puro garbage time il proscenio è tutto per Paul Pierce, che poi in sala stampa archivia subito la debacle e rimanda tutto a garadue.
ROMA (4 giugno) – Ancora lui, sempre lui. Kobe Bryant segna trenta punti, domina emotivamente gara uno, 102-89, della nuova sfida con i Celtics e inizia a incidere la storia delle Finals 2010. In uno Staples Center vestito a festa con circa diciannove mila tifosi in delirio i Los Angeles Lakers scappano a cavallo dei due periodi centrali e poi controllano sempre la partita con un vantaggio che non scende mai sotto la doppia cifra. I giallo viola costruiscono il successo con il controllo indiscusso dell’area colorata, 48 punti a 30, chiudendo alle penetrazioni della mente dei Celtics Rajon Rondo. Delude il terzetto d’assi di Boston Pierce-Allen-Garnett.
Phil Jackson oltre allo show del protagonista assoluto si gode due stelle come Pau Gasol e Ron Artest, che dominano letteralmente la sfida sotto i tabelloni. Lo spagnolo negli oltre quarantasei minuti sul parquet, praticamente mai tenuto in panchina, mette a referto una doppia doppia con 23 punti ma soprattutto 14 rimbalzi dei quali ben 8 offensivi. Gasol ha fugato i dubbi, per chi ancora li serbasse dalle Finals 2008, su quanto sia un eccellente agonista oltre ad avere mani sopraffine. Arriva anche l’incoronazione del coach avversario, Doc Rivers «Se per due anni senti dirti che non sei in grado di essere abbastanza intenso, con ogni probabilità proverai a smentire tutti e certamente stasera Gasol l’ha fatto». Il + 26 di plus/minus (la statistica che rileva l’incidenza nel corso della gara del giocatore sull'andamento del punteggio la propria squadra) spiega quanto Artest (11.5 punti e 4 rimbalzi di media nei play-off ) sia diventato un perno fondamentale nel sistema pressoché perfetto della squadra californiana. Nota di merito anche ad Andrew Bynum, croce e delizia gialloviola, che si fa trovare pronto con punti e rimbalzi.
Delusione Boston? Il quintetto guidato in panchina da Doc Rivers non ha approcciato questa finale sullo stesso livello delle serie contro i Cleveland Cavaliers e gli Orlando Magic. Male nel tiro dalla lunga distanza, uno dei punti di forza dei biancoverdi, con 1/10 in cui spicca l’inusuale 0/6 della coppia Allen-Pierce. “The Truth” Pierce fattura 24 punti, di cui 12 dalla lunetta, ma a partita ormai ampiamente compromessa e perde nettamente lo scontro diretto con Bryant. Ma i Celtics perdono soprattutto tutti i duelli sotto i vetri: undici rimbalzi in meno (42-31) dei Lakers pesano moltissimo in negativo, 16-0 nelle secondi occasioni per i padroni di casa. Non devono ingannare i sedici punti di Kevin Garnett ancora lontano dalla forma migliore.
La partita. Alla palla a due Ron Artest e Paul Pierce accendono subito i fuochi d’artificio con un doppio fallo tecnico, scaturito da un reciproco strattonamento. Il leit-motiv del primo periodo è proprio l’aggressività esasperata su entrambi i lati del campo, che produce problemi di falli per diversi giocatori e molte gite in lunetta. Al 10’ la partita è in assoluto equilibrio, 18-18, e la frazione si chiude sul +5 Lakers, 26-21, grazie ai punti dalla panchina di Farmar e Brown. A metà del secondo quarto il trio Artest-Bryant-Gasol costruisce il break di 11-2 che produce la prima scossa, 48-37. Alla sirena del 24’ sono ben 28 i falli fischiati e 27 i tiri liberi concessi alle due squadre. Sulla sponda Celtics Pierce e Ray Allen non pervenuti. Al rientro dall’intervallo lungo ci pensa il solito Bryant con un periodo da 14 punti a indirizzare il primo episodio della serie finale. La tripla dell’84-64 di Ron Artest mette il sigillo definitivo. Negli ultimi 12’ di puro garbage time il proscenio è tutto per Paul Pierce, che poi in sala stampa archivia subito la debacle e rimanda tutto a garadue.
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