mercoledì 9 novembre 2011

La crisi del basket azzurro: mancanza di regole certe e poco spazio ai giovani

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di Gabriele Santoro

ROMA – Il risultato deludente della nazionale italiana all’ultimo campionato europeo in Lituania ha riacceso il dibattito sul cortocircuito tecnico e strutturale alla base del mancato ricambio generazionale che affligge da quasi un decennio il basket azzurro. E all'orizzonte non ci sono novità sostanziali. Tra i primi trenta marcatori della massima serie ci sono solo Hackett e Datome. Amoroso, Soragna e Hackett sono gli unici a stare in campo con una media superiore ai 30 minuti. Il fanalino di coda Casale Monferrato è la squadra più italiana con sei cestisti e una media di utilizzo di 19 minuti. Il quintetto base dell’Under 20 vicecampione d’Europa passa dall’eccezione Gentile al promettente Cervi (centro di 215 cm, classe ’91, 1.5 punti, 7.3 minuti) che a Reggio Emilia fa panchina dietro al trentasettenne Chiacig (6.6 punti, 25.4 minuti). Melli (4.7 punti, 11.3 minuti), Polonara (4.4 punti, 8.6 minuti) e De Nicolao (1 punto, 3.5 minuti) cercano spazio a Milano, Teramo e Treviso, mentre Moraschini ha trovato collocazione a Sant'Antimo, in fondo alla Legadue.

Non ci sono nuovi talenti o le scelte dei club non gli consentono di emergere? Quante squadre di serie A investono veramente nello sviluppo del proprio settore giovanile? Le regole che impongono il numero minimo di italiani in campo sono la soluzione? In Italia due società come la Benetton Treviso e la Stella Azzurra, con l’evidente differenza di dimensioni, hanno creato una cultura aziendale e sportiva che scommette sui giovani.

La Benetton Treviso con la cittadella dello sport “Ghirada”, dotata di una foresteria stile college americano e impianti di ottima qualità con accesso gratuito per tutti, è da vent’anni un punto di riferimento nella formazione di talenti. «Dai primi Anni Novanta a oggi sono oltre cento gli atleti usciti dal nostro vivaio che hanno militato nei vari campionati nazionali. Attualmente in prima squadra abbiamo cinque ragazzi, classe ’90-’93, cresciuti con noi che lottano per il posto. Alessandro Gentile è senz’altro la punta del diamante», spiega Paolo Pressacco, responsabile del settore giovanile della squadra trevigiana.

Dal minibasket agli juniores quanti prospetti gravitano nell’orbita Benetton? «Con il progetto “Pool crescere insieme” abbiamo coinvolto trenta società del territorio - prosegue Pressacco - e sono circa 1500 i bambini del minibasket che successivamente costituiscono il bacino per il nostro reclutamento. Una volta raggiunti i 13-14 anni di età gli allenatori e osservatori ci indicano i ragazzi con le migliori attitudini e potenzialità». A fine stagione la famiglia Benetton lascerà il timone del club, ma continuerà a investire nella Ghirada. Quanto costa mantenere la vostra attività? «Le spese si aggirano intorno ai 350mila euro annui».

Le strategie dei club dipendono esclusivamente dagli effetti prodotti della sentenza Bosman? «La competizione e la concorrenza si sono sicuramente alzate - sostiene il dirigente Benetton - quando avevamo due soli americani in squadra era tutto più semplice. Ma c’è un problema di cultura sportiva: in passato i giovani erano il capitale sociale, oggi sono considerati come un costo che a breve termine sicuramente non fattura introiti e non può essere ammortizzato». Quindi c’è spazio solo per i talenti assoluti? «Purtroppo abbiamo una grave carenza anche alla voce allenatori. Dove non straborda il talento fisico o tecnico serve un lavoro ancora più mirato, continuo e duro. Ci mancano i mediani, “quelli che a volte vinci casomai i mondiali”, che sono altrettanto preziosi».

Lei è stato un playmaker e la scuola italiana ne ha sempre sfornati tanti e di grandissimo spessore; Brunamonti, Gentile, Pozzecco solo per citarne qualcuno. Sulla carenza di pivot si dà la responsabilità alle mamme e ai papà che non fanno più figli oltre i due metri, ma sui play ci sono poche scuse. «È vero - conclude Pressacco - ma il ruolo e anche la lingua sono cambiate: si deve parlare l’inglese. Si cerca una maggiore propensione al tiro e alla fisicità. La figura del play ragionatore, prodotto della nostra scuola, è in via d’estinzione. Un nome: Andrea De Nicolao (regista dell’Under 20 vicecampione d’Europa, ndr), classe ’91, 185 centimetri, buone qualità, tanta grinta e voglia di lavorare».

A Roma una delle società che vive di e per i giovani è la Stella Azzurra. Nel mondo frastagliato delle leghe minori il factotum Germano D’Arcangeli getta nella mischia ragazzini dalla faccia tosta e con la fame di arrivare. «Da noi non c’è spazio per i fannulloni. Abbiamo il coraggio di credere nelle qualità di chi ha talento e si impegna quotidianamente».

Nell’attuale sistema di regole le nuove leve possono ritagliarsi uno spazio? «No, sono necessarie riforme vere - afferma D’Arcangeli - a partire da quella dei campionati: bastano una serie A, una B e una terza Lega di sviluppo in cui si formino e giochino, abolendo la mole di leghe improduttive e disorganizzate (trasferte lunghissime, arbitraggi non all’altezza, costi insostenibili)».

Lei è un allenatore. Non ha responsabilità anche la vostra categoria. «Il diktat “vinci o sei fuori” porta a trascurare il lavoro in profondità. Qualsiasi discorso sulla programmazione è superfluo. Anche nelle minors si preferisce il vecchio “marpione” che garantisce esperienza rispetto al ragazzo. Se l’ultima generazione dei Melli e Cervi ha possibilità di affermarsi, sono preoccupato per i ’93-’94, promettenti, che semplicemente fanno numero sulle panchine di A e non trovano minuti neanche nelle altre categorie». Esiste un problema nella fase del reclutamento? «Credo sia una favola - dice il coach romano - è solo una questione di volontà e organizzazione. Oltre a noi in Italia le società che lo fanno veramente sono la Virtus Bologna, Biella, Treviso, Casalpusterlengo e Virtus Siena. Poi certo non basta prendere un ragazzo a 15 e aspettare che a 20 diventi un giocatore».

Una risorsa per il futuro sono gli italiani di seconda generazione o per formazione. «È inspiegabile ostinarsi a non esplorare questo mondo - conclude D’Arcangeli - come invece hanno fatto molte altre nazionali. Si tratta di un bacino fondamentale a cui attingere per colmare anche il gap fisico che ci penalizza. Quale strumento migliore dello sport può rispondere alle istanze d'integrazione che vengono dalla società?»

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