mercoledì 9 novembre 2011

Basile vs Gentile: il vecchio e il bambino del basket italiano

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di Gabriele Santoro

ROMA – Quanti cestisti italiani sono determinanti nelle vittorie dei propri club? Pochi, se non pochissimi. Nell’ultima giornata del campionato di basket si sono affrontate due splendide eccezioni: il “vecchio” Gianluca Basile, classe ’75, e il “bambino” Alessandro Gentile, classe ’92. Il primo è tornato in Italia, a Cantù, dopo l’esperienza dorata al Barcellona; il secondo sta sbocciando nella culla della Benetton Treviso. Rappresentano il passato, il presente e il futuro della pallacanestro azzurra alla ricerca affannosa di talenti e forze fresche. In comune hanno il temperamento e la faccia tosta.

Gentile (24.3 minuti e 10.3 punti di media a partita), figlio del play Nando che rese grande Caserta e oggi è l’allenatore di Veroli, è il prospetto più interessante della sua generazione e da due anni ha conquistato il posto nel quintetto di partenza della formazione trevigiana. È una guardia pura che può fare canestro in tutti i modi e ha il fisico per imporsi anche in difesa. Durante l’estate con i coetanei dell’Under 20 ha riportato l’Italia sul podio europeo. Nel pantheon cestistico di "Gentilino", il suo soprannome, ci sono Kobe Bryant e i Lakers, ma anche Bodiroga ammirato ad Atene quando dominava con papà Nando al Panathinaikos.

Il "Baso" invece tra Michael Jordan e Drazen Petrovic sceglie MJ, «ma che talento il Mozart dei canestri». Basile (18.5 minuti e 11 punti di media per gara) ha scritto alcune delle pagine più intense e vincenti dell’Italbasket (209 presenze, 1602 punti) come la semifinale olimpica del 2004 contro la Lituania. A Bologna ha vissuto da capitano la stagione migliore della Fortitudo con due scudetti e derby memorabili contro la Virtus. Un antidivo dallo sguardo profondo sempre misurato nelle parole, umile e generoso fuori dall'ordinario. Il leader a cui affidare la palla arancione quando scotta per i tiri “ignoranti” da infilare nel nylon e un difensore eccellente. Di mestiere playmaker e guardia con la stimmate del tiratore: perfetto nell’uscita dai blocchi, dotato di una straordinaria pulizia stilistica nella meccanica di tiro e di un tempo di esecuzione inafferrabile per l'avversario di turno.

Il basket è…
G. «Un gioco che emoziona e se ti conquista subito non c’è modo di tradirlo. Non è per solisti: ti diverti se entri nello spirito di squadra. E fin da piccolo mi ha permesso di costruire rapporti di amicizia bellissimi».
B. «È rapido, coinvolgente e adrenalinico. Uno sport su misura e accogliente per le famiglie molto più del calcio. Da spettatore tra lo spettacolo di una partita di alto livello sul rettangolo verde e una sul parquet scelgo sempre la seconda».

Diciotto anni di differenza, due storie diverse e un destino comune a canestro assecondato lontano da casa.
G. «Dopo aver mosso i primi passi con la squadra di Maddaloni (Caserta) ho fatto le valigie e sono andato da solo a Bologna nel settore giovanile della Virtus. Ma non ha funzionato e l’anno successivo, 2007, sono approdato a Treviso. Qui ci sono l’ambiente e l’organizzazione ideale per crescere come giocatore e persona. I primi tempi senza la famiglia sono stati duri. Ora ci siamo riuniti e sono migliorate molte cose dentro e fuori il campo, a partire dall’alimentazione».
B. «È cominciato tutto grazie al mio professore di educazione fisica. Poi il primo canestro mobile nel giardino di casa, dove ho preso confidenza con la retina. A diciotto anni c'è stata la svolta: dopo un provino sono arrivato a Reggio Emilia e lì è decollata la mia carriera. In Puglia e nelle altre regioni meridionali c’è grande passione per il basket, ma manca il resto: grandi club di riferimento come Caserta nei primi Anni Novanta, impianti, allenatori e spesso sei costretto a partire. A Ruvo di Puglia mi allenavo solo tre volte a settimana…».

Quanto e come incide il fattore età quando si scende in campo?
G. «In realtà non mi sono mai sentito un bambino anche se ho esordito in Serie A a sedici anni. Quando indosso la canotta non penso all’anagrafe: sono un giocatore come gli altri. Dalla prima palla a due ho cercato di guadagnare il rispetto e la considerazione dei compagni e degli avversari».
B. «Il tempo è volato ed è meglio non pensare che ho già 36 anni. Alla mia età sono fondamentali il recupero dello sforzo, la gestione delle energie e le motivazioni».

Perché faticano a emergere i nuovi talenti italiani?
G.«Il nostro movimento produce giocatori bravi. Ma spesso l'obbligo di vincere subito e la paura di perdere il posto in panchina non consente agli allenatori di scommettere sulle loro qualità. Spero che anche altri ragazzi abbiano la mia opportunità e lo spazio per dimostrare quanto valgono. Poi spetta a noi lavorare più duramente».
B. «La sentenza Bosman è stata il primo passo verso lo smantellamento dei settori giovanili. Noto però anche una diversa mentalità dei ragazzi: il basket non è più la prima ragione di vita e si accontentano troppo. In molti sembrano che lo vivano più come un hobby che una professione».

Il rapporto con gli allenatori.
G.«È sempre stato ottimo a partire da coach Frank Vitucci che mi ha lanciato in prima squadra. Repesa, che ha allenato anche il “Baso”, mi ha insegnato moltissimo sul piano tecnico e a livello personale con lezioni di vita. L’attuale, Djordjevic, è come un maestro. Papà Nando (il suo primo coach a Maddaloni, ndr)? Sono molto fortunato ad avere il suo esempio. Mi consiglia e aiuta ad affrontare situazioni che ha già vissuto. Quando sbaglio mi rimprovera, mentre i complimenti latitano».
B. «Non sono mai stato una testa calda. Non dimentico nessuno dai primi maestri come Consolini e Lombardi. Le vittorie hanno reso speciale il rapporto con Repesa, Recalcati e Pascual. Mi dispiace non essere stato allenato da Zelimir Obradovic (il santone serbo alla guida del Panathinaikos, ndr) e da Ettore Messina».

L’Nba è l’obiettivo e il rimpianto di una carriera straordinaria?
G. «Almeno per il momento non ci penso. Voglio crescere passo dopo passo e affermarmi nel mio Paese».
B.«Non è un rimpianto: non avevo l’atletismo per competere oltre oceano e amo la pallacanestro europea. Al Barcellona ho vissuto delle stagioni fantastiche con la conquista dell’Eurolega e della Liga. Io e Messi? Con i calciatori del Barça ci si incontrava solo nelle iniziative organizzate dal club, ma c’era la consapevolezza di rappresentare la stessa realtà sportiva e la Catalogna intera».

La maglia azzurra: le emozioni di chi ancora deve indossare quella senior e il ricordo di chi ha segnato un'epoca ricca di successi.
G. «Non so quando avverrà il salto in quella maggiore, ma è un mio obiettivo e sarà una sensazione incredibile. Dopo la finale europea Under 20 persa contro la Spagna ero arrabbiatissimo, volevo l’oro e ho gustato poco la premiazione. A mente fredda rimane l’orgoglio di avere ben rappresentato la mia comunità».
B. «L’argento olimpico di Atene 2004 vale quanto una carriera intera. Purtroppo il movimento non ha saputo sfruttare la visibilità e l’onda lunga di quel successo. Non avevamo il fisico e il talento dei tre alfieri in Nba (Bargnani, Belinelli, Gallinari), ma serve altro per creare un gruppo vincente come il carattere e la mentalità. Nel mio ultimo periodo in azzurro ho giocato anche con loro e provato la difficoltà di trovare un linguaggio tecnico comune. In America è quasi un altro sport e oggi c’è un divario macroscopico tra loro e il resto della selezione italiana. Occorre avere pazienza e credere nel progetto partito due anni fa».

L’avversario più spigoloso e quello più difficile su cui difendere.
G. «Antipatici? Non ci sono, altrimenti quando li affronto chissà che “mazzo” mi fanno! Avversari forti li incontro ogni domenica e non saprei scegliere».
B. «Louis “Sweet Lou” Bullock: quando giocava a Verona mi segnò trenta punti in faccia. Da quel momento ho iniziato a difendere forte…».

Il compagno di squadra con cui ha legato di più.
G. «Il mio capitano Massimo Bulleri: è un esempio da seguire quotidianamente in palestra».
B. «Senz’altro in nazionale: condividi per almeno due mesi l’intera giornata con i compagni. Ero quasi sempre in camera con Galanda, Andrea Meneghin e Bulleri, e si è creato un bel rapporto di amicizia».

La vita oltre alla palla a spicchi.
G. «Ho tanti amici tra i compagni di squadra, quando non siamo in trasferta usciamo per andare al cinema o per una pizza. Guardo ogni genere di film, soprattutto i polizieschi e in generale quelli di azione. Il preferito? Scarface. A tavola? La pizza ai quattro formaggi. Il valore più importante è la famiglia. La fidanzata? La prossima domanda, grazie».
B. «La sera mi godo le mie tre figlie. Per il resto ho sempre vissuto la professione con un impegno e una dedizione totale. Anche da ragazzino ero un tipo tranquillo. Il mare e la Sardegna sono la mia passione estiva da condividere con la famiglia».

Che cosa direbbe a Basile?
G. «Il “Baso” è un simbolo della nostra pallacanestro e un modello per noi giovani. Da lui prenderei tutto e gli dico vacci piano quando giochi contro di noi!»

Un consiglio a Gentile.
B. «Alessandro ha mezzi fisici e tecnici importanti. Da quello che ho visto ha anche un caratterino tosto. Consigli? Li lascio al papà Nando…».

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