di Gabriele Santoro
ROMA - «Nel giugno del 2009 ho lasciato l’Iran per un viaggio che doveva essere di soli tre giorni. Da allora non sono più potuta rientrare. Mio marito e mia sorella sono stati arrestati, perché non potevano farlo con me, e i loro passaporti sono stati sequestrati. Hanno messo i sigilli al mio studio legale e alla mia Ong. I beni personali sono stati espropriati e messi in vendita all’asta».
L’elegante, risoluta e coraggiosa avvocatessa, premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi è da due giorni a Roma per partecipare ad alcuni eventi organizzati dal Telefono Rosa in occasione dell'odierna Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. «Negli ultimi anni ho seguito il lavoro di questa associazione, che è cresciuto ed è un supporto importante per le donne che subiscono soprusi e maltrattamenti».
L’impegno instancabile, le denunce e la lotta per il rispetto dei diritti umani l’hanno resa una persona sgradita e sovversiva agli occhi del governo di Teheran, che l’obbliga dal 2009 all’esilio a Londra. Shirin Ebadi è la donna delle prime volte. La prima giudice nel proprio paese, la prima persona iraniana e musulmana a ricevere il Nobel nel dicembre del 2003. L’avvocatessa si spende per dare voce nel mondo all’opposizione interna affievolita dalla repressione ed è un simbolo rivoluzionario per le donne che cercano un ruolo nuovo nelle società islamiche.
Ha vissuto l’euforia e la rapida disillusione seguita alla Rivoluzione islamica del ’79: «Alla fine del ’79 il Comitato rivoluzionario mi comunicò che ero destituita dalla mia carica di giudice ed ero retrocessa a segretaria del tribunale del quale ero presidente per il solo fatto di essere donna». Nel 2000 la sessantaquattrenne originaria di Hamadan ha affrontato il «silenzio devastante» dell’isolamento nel carcere di Evin e l’interdizione di cinque anni a svolgere il proprio lavoro «per aver difeso la famiglia di uno studente ucciso dai paramilitari autorizzati dallo Stato», come spiega nel libro Tre donne, una sfida di Marisa Paolucci.
Mentre racconta la propria vita da esule stringe tra le mani un foglio di carta spiegazzato, si commuove e il volto si riga di lacrime di rabbia. «Il regime iraniano mi ha costretta a scegliere tra l’amore per la mia famiglia e quello per la giustizia. Nei tanti incontri con gli studenti in giro per il mondo spesso mi viene chiesto se ne valga la pena e se non senta la mancanza dei miei affetti più cari. Un ragazzino mi ha suggerito un rimedio: fai un origami, scrivici i nomi delle persone a cui tieni e depositalo in mare. Ti sentirai meno sola e il tuo pensiero li raggiungerà».
Che cosa ne pensa della cosiddetta “primavera” araba? Avrà delle ripercussioni positive per la condizione delle donne nei paesi coinvolti dalle rivolte?«È una definizione che non mi convince, non basta destituire un dittatore per fare la rivoluzione. La primavera arriverà solo il giorno in cui avremo sistemi democratici, che assicurino anche pari diritti a uomini e donne. La visione predominante dell’universo femminile nei paesi di religione musulmana è miope. Si pensa che siano tutte chiuse in casa e accettino incondizionatamente questa situazione. In Iran, dopo le presidenziali del 2009, c’erano moltissime donne in prima fila per strada a protestare. Oggi in Egitto a piazza Tahrir è lo stesso e i militari hanno arrestato molte di loro sottoponendole a vessazioni. In Yemen una delle persone che ha combattuto con più energia il regime ha vinto l’ultimo premio Nobel per la pace (la giovane giornalista e attivista yemenita Tawakkul Karman, ndr)».
Sull’Iran tirano venti di guerra. Qual è la situazione all’interno del paese? «Il regime non ha la minima di intenzione di ascoltare la voce del popolo che chiede il cambiamento. Ma credo che un intervento di forze militari straniere sia controproducente e non compreso dagli iraniani. Alimenterebbe il sentimento nazionalistico, facendo passare in secondo piano le ragioni della protesta interna e aumenterebbe la repressione sul dissenso. Come è accaduto negli otto anni della guerra con l’Iraq, quando il regime ha giustiziato 14mila dissidenti politici. Prospettive? Nell’attuale sistema governativo e legislativo anche se alle elezioni dovesse vincere un riformista, come è avvenuto in passato con Khatami, avrebbe le mani legate. Le manifestazioni pubbliche sono state arginate con la violenza, ma la lotta non si è spenta. L’Iran è come un vulcano silente che potrebbe eruttare».
Il premio Nobel le ha creato più problemi o vantaggi? «Mi ha dato la possibilità di far circolare la mia voce a livello internazionale e raccontare ciò che accade nel mio paese. In Iran non mi ha aiutato, perché il regime crede che sia stata insignita di questo premio per rovesciarlo. Ma io non sono un leader politico, non coltivo tali ambizioni: sono solo un difensore dei diritti umani».
Come convive con la paura? «L’importante è credere sempre nella strada intrapresa e la fede religiosa mi sostiene. L’esperienza mi ha insegnato a governare la paura. Dopo l’estate del 2009 il regime ha reso la mia vita sempre più difficile, ma nulla ha scalfito le mie convinzioni. Ai miei familiari hanno ripetuto più volte che mi avrebbero trovata anche all’estero e ammazzata. Ho risposto che a tutti noi un giorno aspetta la morte, quindi è inutile aver paura di qualcosa che non possiamo controllare».
La giornalista e volontaria del Telefono Rosa Marisa Paolucci nel prezioso libro-intervista Tre donne una sfida (Emisferi, pp 137, euro 11) attraverso le storie di Shirin Ebadi, della giovane Malalai Joya, che ha affrontato senza paura i Signori della guerra afgani, e della sudanese Fatima Ahmed Ibrahim ha dato voce al cambiamento in movimento.
«Il libro è stato un’avventura condivisa con il Telefono Rosa - dice Marisa Paolucci - e un’esperienza entusiasmante che mi ha permesso di catturare uno sguardo soggettivo e diretto di persone che vivono sulla propria pelle le conseguenze di una scelta di coraggio. È un tentativo di uscire dagli stereotipi negativi con cui viene rappresentata la donna nel mondo islamico: sono tre donne che vanno controcorrente e il loro esempio ha una forza dirompente».
Che cosa le accomuna? «Mi ha colpito il fatto che il denominatore comune delle loro esistenze sia la figura paterna. Il padre le ha sempre trattate allo stesso modo dei fratelli maschi e garantito loro un’istruzione. Inoltre non si sentono vittime della religione, ma di un’interpretazione prettamente maschilista, e credono che l'Islam sia compatibile con i sistemi democratici. Un modo per testimoniare che essere donne libere anche in Iran, Sudan e Afghanistan è difficile, ma non impossibile».
L’elegante, risoluta e coraggiosa avvocatessa, premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi è da due giorni a Roma per partecipare ad alcuni eventi organizzati dal Telefono Rosa in occasione dell'odierna Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. «Negli ultimi anni ho seguito il lavoro di questa associazione, che è cresciuto ed è un supporto importante per le donne che subiscono soprusi e maltrattamenti».
L’impegno instancabile, le denunce e la lotta per il rispetto dei diritti umani l’hanno resa una persona sgradita e sovversiva agli occhi del governo di Teheran, che l’obbliga dal 2009 all’esilio a Londra. Shirin Ebadi è la donna delle prime volte. La prima giudice nel proprio paese, la prima persona iraniana e musulmana a ricevere il Nobel nel dicembre del 2003. L’avvocatessa si spende per dare voce nel mondo all’opposizione interna affievolita dalla repressione ed è un simbolo rivoluzionario per le donne che cercano un ruolo nuovo nelle società islamiche.
Ha vissuto l’euforia e la rapida disillusione seguita alla Rivoluzione islamica del ’79: «Alla fine del ’79 il Comitato rivoluzionario mi comunicò che ero destituita dalla mia carica di giudice ed ero retrocessa a segretaria del tribunale del quale ero presidente per il solo fatto di essere donna». Nel 2000 la sessantaquattrenne originaria di Hamadan ha affrontato il «silenzio devastante» dell’isolamento nel carcere di Evin e l’interdizione di cinque anni a svolgere il proprio lavoro «per aver difeso la famiglia di uno studente ucciso dai paramilitari autorizzati dallo Stato», come spiega nel libro Tre donne, una sfida di Marisa Paolucci.
Mentre racconta la propria vita da esule stringe tra le mani un foglio di carta spiegazzato, si commuove e il volto si riga di lacrime di rabbia. «Il regime iraniano mi ha costretta a scegliere tra l’amore per la mia famiglia e quello per la giustizia. Nei tanti incontri con gli studenti in giro per il mondo spesso mi viene chiesto se ne valga la pena e se non senta la mancanza dei miei affetti più cari. Un ragazzino mi ha suggerito un rimedio: fai un origami, scrivici i nomi delle persone a cui tieni e depositalo in mare. Ti sentirai meno sola e il tuo pensiero li raggiungerà».
Che cosa ne pensa della cosiddetta “primavera” araba? Avrà delle ripercussioni positive per la condizione delle donne nei paesi coinvolti dalle rivolte?«È una definizione che non mi convince, non basta destituire un dittatore per fare la rivoluzione. La primavera arriverà solo il giorno in cui avremo sistemi democratici, che assicurino anche pari diritti a uomini e donne. La visione predominante dell’universo femminile nei paesi di religione musulmana è miope. Si pensa che siano tutte chiuse in casa e accettino incondizionatamente questa situazione. In Iran, dopo le presidenziali del 2009, c’erano moltissime donne in prima fila per strada a protestare. Oggi in Egitto a piazza Tahrir è lo stesso e i militari hanno arrestato molte di loro sottoponendole a vessazioni. In Yemen una delle persone che ha combattuto con più energia il regime ha vinto l’ultimo premio Nobel per la pace (la giovane giornalista e attivista yemenita Tawakkul Karman, ndr)».
Sull’Iran tirano venti di guerra. Qual è la situazione all’interno del paese? «Il regime non ha la minima di intenzione di ascoltare la voce del popolo che chiede il cambiamento. Ma credo che un intervento di forze militari straniere sia controproducente e non compreso dagli iraniani. Alimenterebbe il sentimento nazionalistico, facendo passare in secondo piano le ragioni della protesta interna e aumenterebbe la repressione sul dissenso. Come è accaduto negli otto anni della guerra con l’Iraq, quando il regime ha giustiziato 14mila dissidenti politici. Prospettive? Nell’attuale sistema governativo e legislativo anche se alle elezioni dovesse vincere un riformista, come è avvenuto in passato con Khatami, avrebbe le mani legate. Le manifestazioni pubbliche sono state arginate con la violenza, ma la lotta non si è spenta. L’Iran è come un vulcano silente che potrebbe eruttare».
Il premio Nobel le ha creato più problemi o vantaggi? «Mi ha dato la possibilità di far circolare la mia voce a livello internazionale e raccontare ciò che accade nel mio paese. In Iran non mi ha aiutato, perché il regime crede che sia stata insignita di questo premio per rovesciarlo. Ma io non sono un leader politico, non coltivo tali ambizioni: sono solo un difensore dei diritti umani».
Come convive con la paura? «L’importante è credere sempre nella strada intrapresa e la fede religiosa mi sostiene. L’esperienza mi ha insegnato a governare la paura. Dopo l’estate del 2009 il regime ha reso la mia vita sempre più difficile, ma nulla ha scalfito le mie convinzioni. Ai miei familiari hanno ripetuto più volte che mi avrebbero trovata anche all’estero e ammazzata. Ho risposto che a tutti noi un giorno aspetta la morte, quindi è inutile aver paura di qualcosa che non possiamo controllare».
La giornalista e volontaria del Telefono Rosa Marisa Paolucci nel prezioso libro-intervista Tre donne una sfida (Emisferi, pp 137, euro 11) attraverso le storie di Shirin Ebadi, della giovane Malalai Joya, che ha affrontato senza paura i Signori della guerra afgani, e della sudanese Fatima Ahmed Ibrahim ha dato voce al cambiamento in movimento.
«Il libro è stato un’avventura condivisa con il Telefono Rosa - dice Marisa Paolucci - e un’esperienza entusiasmante che mi ha permesso di catturare uno sguardo soggettivo e diretto di persone che vivono sulla propria pelle le conseguenze di una scelta di coraggio. È un tentativo di uscire dagli stereotipi negativi con cui viene rappresentata la donna nel mondo islamico: sono tre donne che vanno controcorrente e il loro esempio ha una forza dirompente».
Che cosa le accomuna? «Mi ha colpito il fatto che il denominatore comune delle loro esistenze sia la figura paterna. Il padre le ha sempre trattate allo stesso modo dei fratelli maschi e garantito loro un’istruzione. Inoltre non si sentono vittime della religione, ma di un’interpretazione prettamente maschilista, e credono che l'Islam sia compatibile con i sistemi democratici. Un modo per testimoniare che essere donne libere anche in Iran, Sudan e Afghanistan è difficile, ma non impossibile».
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