Il Messaggero, sezione Macro pag. 19,
2 aprile 2013
di Gabriele Santoro
2 aprile 2013
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
Raulito calcia forte e con precisione la palla ovale. Un
drop che non mira ai pali, cerca il cielo. La partita è finita. La dittatura
militare ha strappato uno a uno i fiori di campo, ribelli, della squadra di
rugby La Plata. I torturatori si sono accaniti con ferocia vana sui corpi e i
cuori resistenti dei campioni. Ma i bravi ragazzi del burbero sciancato Hugo
Passarella alla fine hanno vinto, scrivendo il riscatto dell’Argentina. Dal
campionato non si sono ritirati; non sono scappati: per ogni titolare ucciso
entrava una promessa del vivaio fino alla sconfitta del regime.
A Raul Barandarian è toccato il destino di chi sopravvive. L’esistenza stravolta, il senso di solitudine e il dovere di raccontare la storia. Claudio Fava in Mar del Plata (Add editore, 127 pagine, euro 13) esplora con passione una vicenda emersa, dopo un quarto di secolo d’oblio, con gli articoli firmati nel 2004 dal cronista di Pagina 12 Gustavo Veiga. «È la storia di una ribellione giovanile straordinaria - dice l’autore - Lo sport diventa un momento di testimonianza civile altissimo. Avevano vent’anni, erano studenti o semplici operai con gli stessi sogni in tasca. E amavano il rugby come la libertà».
Una resistenza apparentemente passiva, perpetuata con atti simbolici. Che cosa temevano gli ufficiali dell’Esma da un gruppo di giovani che giocava a rugby?
«Sì, prima del fischio d’inizio della gara sbattono gli scarpini sul prato verde come in una marcia muta sul posto. I minuti di silenzio per ricordare il primo dei tanti amici ammazzati si dilatano con una forza rivoluzionaria dentro a uno stadio stracolmo e attonito. Una ferita insopportabile inferta all’immagine del regime. Danno il segno della vita che non si piega; sorridono con coraggio. Sono parte integrante di una comunità sportiva, che non si estrania dalla realtà. Rifiutano la fuga all’estero e sfidano la Giunta».
Dai pugni neri alle Olimpiadi di Messico 1968 alla maglietta rossa di Panatta durante la Coppa Davis cilena del ’76. Lo sport è inevitabilmente intrecciato alla politica?
«Nel 1978 l’Argentina visse entrambi i volti. Da una parte il Mundialito, una grande messinscena architettata dal dittatore Videla con la complicità di chi volse lo sguardo altrove. Dall’altra quello stadio pieno e silenzioso che non abbandonava i rugbisti di La Plata. Lo sport all’essenza più pura. Andrebbe inteso così: una competizione pulita e leale».
Con le presidenze dei coniugi Kirchner l’Argentina ha intrapreso un percorso di verità e giustizia. La ricerca però non si è esaurita, come la lotta delle nonne di Plaza de Mayo rinvigorita dai nipoti ritrovati.
«Un popolo senza memoria non ha anima. L’identità collettiva si costruisce anche sulla narrazione di questa stagione molto dolorosa, a lungo rimossa con la legge del Punto Finale. La testimonianza, se non è liturgia pigra, getta semi fertili. I percorsi della memoria sono spesso tortuosi, ma la verità prima o poi tracima. Venticinque anni dopo alcuni responsabili della mattanza della squadra sono stati giudicati da un tribunale».
A Raul Barandarian è toccato il destino di chi sopravvive. L’esistenza stravolta, il senso di solitudine e il dovere di raccontare la storia. Claudio Fava in Mar del Plata (Add editore, 127 pagine, euro 13) esplora con passione una vicenda emersa, dopo un quarto di secolo d’oblio, con gli articoli firmati nel 2004 dal cronista di Pagina 12 Gustavo Veiga. «È la storia di una ribellione giovanile straordinaria - dice l’autore - Lo sport diventa un momento di testimonianza civile altissimo. Avevano vent’anni, erano studenti o semplici operai con gli stessi sogni in tasca. E amavano il rugby come la libertà».
Una resistenza apparentemente passiva, perpetuata con atti simbolici. Che cosa temevano gli ufficiali dell’Esma da un gruppo di giovani che giocava a rugby?
«Sì, prima del fischio d’inizio della gara sbattono gli scarpini sul prato verde come in una marcia muta sul posto. I minuti di silenzio per ricordare il primo dei tanti amici ammazzati si dilatano con una forza rivoluzionaria dentro a uno stadio stracolmo e attonito. Una ferita insopportabile inferta all’immagine del regime. Danno il segno della vita che non si piega; sorridono con coraggio. Sono parte integrante di una comunità sportiva, che non si estrania dalla realtà. Rifiutano la fuga all’estero e sfidano la Giunta».
Dai pugni neri alle Olimpiadi di Messico 1968 alla maglietta rossa di Panatta durante la Coppa Davis cilena del ’76. Lo sport è inevitabilmente intrecciato alla politica?
«Nel 1978 l’Argentina visse entrambi i volti. Da una parte il Mundialito, una grande messinscena architettata dal dittatore Videla con la complicità di chi volse lo sguardo altrove. Dall’altra quello stadio pieno e silenzioso che non abbandonava i rugbisti di La Plata. Lo sport all’essenza più pura. Andrebbe inteso così: una competizione pulita e leale».
Con le presidenze dei coniugi Kirchner l’Argentina ha intrapreso un percorso di verità e giustizia. La ricerca però non si è esaurita, come la lotta delle nonne di Plaza de Mayo rinvigorita dai nipoti ritrovati.
«Un popolo senza memoria non ha anima. L’identità collettiva si costruisce anche sulla narrazione di questa stagione molto dolorosa, a lungo rimossa con la legge del Punto Finale. La testimonianza, se non è liturgia pigra, getta semi fertili. I percorsi della memoria sono spesso tortuosi, ma la verità prima o poi tracima. Venticinque anni dopo alcuni responsabili della mattanza della squadra sono stati giudicati da un tribunale».
Nel compiere un
viaggio in questo dolore è stato mosso anche da ragioni personali?
«In Italia un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri si sono portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre. Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile. A Buenos Aires come a Catania. In fondo Peppino Impastato era un ragazzo come loro: vent’anni non è l’età della rassegnazione».
«In Italia un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri si sono portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre. Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile. A Buenos Aires come a Catania. In fondo Peppino Impastato era un ragazzo come loro: vent’anni non è l’età della rassegnazione».
4 commenti:
Commovente!
Sì, è una storia dolorosa e allo stesso tempo meravigliosa per il coraggio di una generazione che non si è arresa alla banalità del male della dittatura.
È una delle tante storie che non conoscevamo e ci piace che il Rugby sia stato il collante della Resistenza all' oppressione. Grazie .
Grazie per l'apprezzamento. È un libro prezioso, da leggere e diffondere.
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