lunedì 16 settembre 2013

Tullio De Mauro: «I migliori sistemi scolastici si preoccupano di coinvolgere gli ultimi della classe»

Il Messaggero, sezione Macro pag. 15, 
16 settembre 2013

di Gabriele Santoro
 

di Gabriele Santoro

Professore Tullio De Mauro, il recupero degli ultimi della classe è un modo per valutare la qualità del nostro sistema scolastico?
«Dopo trent’anni di indagini comparative internazionali sul funzionamento e i risultati dei sistemi scolastici del mondo abbiamo guadagnato qualche certezza. I sistemi scolastici da cui escono gli allievi meglio preparati sono quelli di paesi come la Finlandia, la Corea del Sud, il Giappone, anche lontani tra loro per tanti aspetti, che hanno scelto e seguito la via del “non uno di meno”, del “nessuno resti indietro”. Sono sistemi scolastici che concentrano i  loro sforzi nel portare al termine dei cicli di studio tutte e tutti i ragazzi e le ragazze. Tutta la classe funziona bene se anche quello dell’ultimo banco è guadagnato al lavoro comune. Lo spiegavano Mario Lodi e don Lorenzo Milani, questo con un vigore che, a quanto qua e là leggo, continua a fare scandalo. Ora ce lo dicono statistiche e confronti accurati come produce ormai annualmente l’Ocse. Ma vorrei ricordare quel che tanti anni fa ho sentito dire da un anziano insegnante: “Quando boccio un alunno, so di bocciare me stesso: so di non avere fatto una parte del mio lavoro”».

Questa strategia produce anche un valore economico?
«Era una tesi diffusa, ma anche discussa, che un aumento della scolarità di una popolazione portasse a un aumento di produttività e redditi. Ora ne siamo certi. Due economisti, Robert Barro, americano, e Jong Wha-Lee, coreano, hanno studiato l’andamento di scolarità e redditi in 140 paesi del mondo dal 1950 al 2010. La correlazione ora è sicura: al crescere dell’indice di scolarità di una popolazione (il numero di anni di scuola superati in media dagli  individui) crescono i redditi, cresce il Pil di un paese. Non è l’unico motivo per far funzionare bene un sistema scolastico, ma governi così spasmodicamente attenti a spread, spending review, farebbero bene a guardare questi dati e a scoprire che spendere per la scuola significa investire con un buon ritorno perfino a medio termine».

Qual è la situazione in Italia?
«Non stiamo messi bene. Dai primi anni novanta in poi una preoccupazione costante dei governi è stata cercare di contrarre e ridurre le spese per l’istruzione, che già erano modeste. Questo sta avendo effetti disastrosi e purtroppo tangibili sulle parti più delicate del sistema, ricerca e università, che sono letteralmente moribonde. Scuole di base e superiori sono invece un grosso corpaccione: soffrono, ma ci vogliono parecchi ministri inetti per azzerarle e potrebbero ancora riprendersi. Con la scuola di massa siamo usciti dal sottosviluppo scolastico. Ma, diversamente dagli altri paesi, la scuola ha lavorato da sola: con insegnanti mal reclutati e non sempre adeguatamente formati alla didattica e in ambienti sociali poveri di offerte culturali. Gli stessi insegnanti a volte non se ne rendono conto: ma quel che la scuola ha fatto e fa per questo paese è un vero miracolo, anche se ancora troppi restano indietro».

A che punto siamo, invece, con l’integrazione tra la didattica tradizionale e la tecnologia informatica?

«Noi siamo vicini allo zero. Abbiamo abbastanza esperienze per dire che, se gli insegnanti non hanno una preparazione specifica e se non c'è il collegamento a banda larga con la rete, i sussidi informatici servono a poco e anzi, si è visto in qualche caso in America Latina, sono dispersivi e dannosi. Con la guida di  insegnanti preparati la rete apre potenzialità enormi all'apprendimento».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

Nessun commento: