sabato 12 ottobre 2013

Mala vita, racconti dal carcere e il premio letterario Goliarda Sapienza

di Gabriele Santoro

ROMA – Paola Francesca Iozzi appare a disagio sul palco; gli occhi inseguono il suo altrove distante dai meccanismi di riproduzione della quotidianità. «Anche essere qui è un’esperienza dolorosa», dice. Si è messa in gioco, scrivendo. Come altri quattrocento detenuti nei penitenziari italiani ha concorso al Premio Goliarda Sapienza, dal quale è nata la raccolta Mala vita Racconti dal carcere (Rai Eri, 443 pagine, 11 euro), curata da Antonella Bolelli Ferrera. Un universo di storie: quella della luminosa Nezha Er-Raouy che con il proprio figlio a Sollicciano ha riscoperto la passione smarrita; le memorie indelebili del bambino soldato Richard Goodman; la qualità letteraria di Giovanni Arcuri, già protagonista nella pellicola Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

La giuria presieduta da Elio Pecora ha classificato Iozzi al secondo posto, e il suo pensiero si rivolge subito alla sezione femminile di Rebibbia dove è stata reclusa. «Mi auguro che qui entrino i libri, come altre attività culturali». Associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, attraverso la formazione e le azioni della Federazione Anarchica Informale, è l'accusa e la ragione dell'arresto della poco più che trentenne insegnante marchigiana. «Ci sono finita mentre cercavo la primavera, e qui ho trovato i fiori più duri e aspri che l’inverno da cui fuggivo abbia prodotto», si legge nel racconto breve. Alla ricerca del vento è la narrazione degli esiti nefasti di scelte definitive e totali. Dopo la “disperazione appassionata dell’assalto al cielo”, ora sogna un’altra frontiera da varcare. Quel calore estivo, meraviglioso, che restituiscono i piedi nella sabbia. «In carcere s’impara a trarre la verità delle cose, importa solo l’essenza. Continueremo ancora a pagare quando usciremo. Ho conosciuto più dolore che colpa qua dentro», conclude.

La platea del teatro di Rebibbia accoglie i finalisti del premio
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giornalisti, politici, magistrati. E in seconda fila i detenuti astanti che si sciolgono parlando di calcio con il presentatore di giornata Pino Insegno. Giancarlo De Cataldo è uno dei tanti amici di penna, che hanno accompagnato gli autori reclusi nell’elaborazione dei testi. Un legame che promette di mantenersi anche dopo l’evento. «Io, che in molti casi ho contribuito a imprigionarli, voglio che il carcere diventi qualcosa di diverso: un centro di recupero attivo delle persone anche mediante la scrittura. Far accettare alla società ciò che afferma la Costituzione rappresenta una sfida culturale non più eludibile», sottolinea il magistrato.

Il cielo in una stanza. In prima fila siede Gino Paoli, presidente della Siae principale promotrice dell’iniziativa. E il vincitore Giuseppe Rampello non se lo lascia sfuggire: «Quando scrivo, penso alla sua canzone, che ho sempre amato e la mia cella non ha più pareti, e il soffitto nero miseria, no, non esiste più. Vedo il cielo e mi risveglio dall’anestesia che mi tiene vivo insieme a mia figlia». La prossima istanza difensiva sarebbe la richiesta d’ergastolo: «E mo che ho vinto chi si muove diretto’! Morire qua è meno spaventoso del rifiuto che mi aspetta fuori». Professionista sessantaquattrenne benestante, sta scontando a Regina Coeli una condanna a oltre quattordici anni per l’omicidio della moglie. «Era gravemente malata. La uccisi perché non volevo vederla soffrire», ripete ancora oggi. 

Con il cronista Pino Corrias è nato Pure in carcere ha da passà ‘a nuttata. In una lingua gaddiana illumina con ironia i Miserabili di Victor Hugo suoi nuovi compagni di strada, che nell’esito delle carte smazzate in cella prefigurano il destino, o più semplicemente un cambio di letto. Persone che entrano ed escono come una massaia dal supermercato di fiducia: «(…) Poi ‘e guardie me conoscono più de Belen Rodriguez e così ‘gni vorta manco me movo che già m’aritrovo ar gabbio! Ahò te dico solo, fèrmate!» Si disegnano le gerarchie nello spazio asfittico di una cella. Si ascoltano le preghiere der talibano mescolate alle imprecazioni. «Qua ho conosciuto la povertà indicibile - dice Rampello -. Vedo sempre gli stessi volti. Ora faccio l’avvocato dei poveri: scrivo loro le istanze, le lettere a casa: mi rendo utile. Sono immerso in un’astronave che ho deciso di raccontare con leggerezza. In queste condizioni la tragedia del carcere non serve a nulla. Così non si rimedia agli errori. Il lavoro dovrebbe essere la parola d’ordine, piuttosto che misure di clemenza».

Gugli è il suo nome d’arte, e ha vinto nella sezione minori. Lo sguardo limpido stavolta mostra un sorriso franco al fianco di Fiamma Satta. Si sta riappropriando del tempo sospeso di una perduta giovinezza. Stringe forte il pc sul quale potrà continuare a scrivere come in una promessa di futuro. Come in un romanzo che si rispetti La seconda volta tiene appeso il lettore. Il riscatto sociale dello scugnizzo non consiste nel Rolex da rapinare, bensì nella passione da coltivare per il teatro. «Non conoscevo i miei sentimenti, la mia onestà, il mio essere gentile, la mia capacità di adattamento a situazioni costruttive, dove realmente ci si mette in discussione. Ora sento l’immenso bene di cui sono capace, e sento l’amore nel mio piccolo cuore innamorato della vita. La seconda volta che sono stato arrestato è stata e sarà anche l’ultima».

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