di Gabriele Santoro
Bucarest era in stato di decomposizione, dal comunismo al salto nel vuoto del libero mercato degli anni Novanta. E quel soffitto ne restituiva l’immagine: tutto crollava e nessuno sapeva come rattoppare. Dentro a quell’appartamento Ó Ceallaigh forse si è salvato la vita. Come i vicini di casa, prostitute che profumavano l’ascensore, giovani che più dei pensionati assomigliavano a relitti alla deriva, cercava la via di fuga all’assenza di senso: «Mi sembrava che perlomeno metà degli inquilini stesse impazzendo, confinati dalla povertà nelle loro stanze mentre il mondo di fuori collassava – ha scritto – . Ero il migliore scrittore irlandese non ancora pubblicato e delle volte, da ubriaco, mi gloriavo di questa follia sbracato nel buio da qualche parte».
Appunti da un bordello turco (Racconti, 343 pagine, 16 euro) – Notes from a Turkish Whorehouse, Penguin – è stato l’esordio di Ó Ceallaigh e ha celebrato il decimo compleanno con la traduzione in italiano a cura di Stefano Friani. Quando si decanta la scomparsa del lavoro, tacendo l’incapacità di raccontarlo, lo scrittore riesce a illuminare il sommerso, i pessimi lavori del working class hero contemporaneo. Nella penna asciutta di Ó Ceallaigh c’è amore per la periferia, per i diseredati che sanno a loro modo affrontare l’isolamento e lo sradicamento. I narratori, spesso uno scrittore vagabondo, sanno quel che pretendono di rappresentare.
Ó Ceallaigh, irlandese classe 1968, usa in modo fluente sei lingue. Ha vissuto in Spagna, Russia, Kosovo, Stati Uniti, Georgia ed Egitto reinventandosi in mille mestieri per mantenersi. Nel 2006 con Appunti da un bordello turco ha vinto il Rooney Prize. Ora ha appena finito un libro, che è un saggio, di prossima uscita per Penguin, sulla persecuzione degli ebrei nell’est europeo, l’olocausto e il comunismo esaminando i temi attraverso le vite e gli scritti di diversi scrittori ebrei dell’area – Isaac Babel, Vasily Grossman e Mihail Sebastian.
Il titolo della raccolta non tragga in inganno: la maggior parte delle storie contenute nei diciannove racconti è ambientata in Romania: «Scrivevo della vita nel mio palazzo da dieci piani, che era la stessa vita degli altri palazzi da dieci piani, la stessa vita di gran parte della città. Scrivevo della esilarante assenza di speranza di tutte queste vite, ammassate assieme, ognuna di loro alla ricerca di un senso».
Ó Ceallaigh, le succede di riguardare Appunti da un bordello turco?
«Non l’ho riletto recentemente. Negli ultimi cinque anni non ho scritto molta fiction, è come se fossi uscito da quella zona. Quel che più ricordo è la stagione della vita nella quale l’ho scritto, le giornate, le nottate e le persone. Rammento la stanza dove ero seduto e il vissuto da cui provengono le storie. La mia memoria riguarda soprattutto il sentimento durante la scrittura, col mio stato d’animo d’oggi non saprei cosa ne sarebbe di queste storie. Le traduzioni consentono di incontrare nuovi lettori. Discutiamo e comincio a ricordare, mi riavvicino alle storie come l’ultimo estraneo. Dovrei rileggerle e potrebbe sembrarmi strano, potrei sentirmi come Donald Trump, sfidato su quello che disse o combinò. Potrei difendermi assicurando che in dieci anni sono cambiato, che in fondo il libro è uno scherzo da stanzetta. Perdonatemi».
Che cosa è cambiato dopo la pubblicazione?
«Sono diventato uno scrittore, nel senso che tutti potevano chiamarmi così. Non ha fatto la differenza sul modo di scrivere, ma sul livello di confidenza nel dire alle persone che cosa fossi. Fino a quel momento assomigliava a un segreto sporco. Ho speso tutto il mio tempo portando avanti questa attività, che è invisibile al resto del mondo e quasi pretende il porgere le scuse per il fatto di riversare tutto il tempo e le energie in qualcosa da cui le persone non possono trarre nessun guadagno immediato. Col trascorrere degli anni è una condizione psicologica scomoda. Devi sempre confrontarti con i giudizi delle persone. Si vive in un mondo per individui, che pratica l’arte del giudizio sul successo. Lo devi ignorare. Un giorno velocemente e inaspettatamente sei trasformato in qualcosa che la gente vede come un successo. Scrivono che ti ammirano, chiedono come si fa. Tutto ciò ti rende sufficientemente cinico sul fatto che la gente si accontenta della superficie di quello che si definisce successo».
Lei come reagisce?
«Riconosco la situazione. Non arrivi a scrivere qualcosa che ti impegna per cinque o sei anni senza acquisire un certo grado di indifferenza ai giudizi. Lo scrivere mi è sempre sembrato l’unica compensazione per tutta la merda che ho affrontato».
Un irlandese giramondo come lei, in che modo è finito al decimo piano di un appartamento diroccato alla periferia di Bucarest?
«La mia vita è stata cambiare lavoro e città ogni sei mesi, non avendo alcuna stabilità e confrontandomi costantemente con nuove situazioni di insicurezza materiale. Mi sentivo un disadattato come tutte le persone della mia età che non possono accettare di trovare alcun senso in una carriera o in quella che è considerata una vita normale. E la scrittura rispondeva a ciò. Era un tentativo di trovare un centro, un sentiero, in fondo un’attività che avesse un valore per me. Le parole sono state la mia gravità perché null’altro funzionava. Disperdevo molta energia vivendo in quella maniera, spostandomi in modo incessante. Per scrivere ho avvertito il bisogno di stabilirmi, e l’ho fatto. Ero un fallimento che viveva in quartiere e in un paese a loro volta fallimentari. Intenso, a suo modo. Tutto ciò che potevo fare era scrivere».
L’operazione è riuscita, ma soprattutto ha trovato una definizione di periferia.
«Sì, credo di aver risposto nel libro: “Se ti vuoi fare un’idea di come se la passa una città, pensò, devi andare a vedere i suoi margini. Il centro ti dirà che va tutto bene. La periferia ti dirà il resto”».
Quante ore al giorno dedica alla scrittura?
«Il minor tempo possibile, ma non è una questione temporale. Si tratta dell’esperienza di essere assorbiti. Il tempo che mi serve per entrare dentro alla scrittura è variabile. Trascorro anche quattro ore davanti al computer senza fare nulla prima di cominciare. Una volta entrato proseguo fino a quando c’è il battito. Quando lo sento il resto della giornata è spensierato, felice».
E la lettura?
«Negli ultimi cinque anni ho letto soprattutto non fiction con una matita in mano per le ricerche destinate al libro appena consegnato al mio editore, Penguin. In questi periodi viene meno il gusto puro della lettura, il piacere di perdersi. Vorrei mettere un punto a questa fase e riprendere a leggere come ero abituato, una forma di esplorazione».
È stato difficile trovare una casa editrice che pubblicasse i racconti?
«L’ho cercata per alcuni anni. Spesso mi dicevano di non essere interessati alla short story. Poi vivevo in un paese non mio ed era difficile che qualcuno leggesse. Questo ebbe un aspetto positivo: mi emancipai dalle attese fino a quando non mi ha trovato un’agente. Lesse alcune storie che avevo scritto e mi chiese se ne avessi altre. Ho risposto offrendo direttamente il libro già pronto. E tutto poi è proceduto in modo spedito».
Perché il racconto?
«È accaduto, non è stata una scelta. Non ho alcuna motivazione personale per scrivere quel che i lettori vogliono di più, i romanzi. Probabilmente perché non mi riescono. Troppo spesso il romanzo è una convenzione editoriale che deforma le storie. Se fosse data più attenzione alla forma, alla struttura si pubblicherebbero meno romanzi e storie migliori».
Come ha celebrato la prima pubblicazione?
«Un giornale pubblicò per la prima volta una mia storia, poi per due anni niente e allora ho fermato quel momento. Successivamente ho vinto un premio per giovani scrittori. Lo ricordo bene, perché era sponsorizzato dal Brandy».
Le chiedo qualcosa sul testo che dà il titolo alla raccolta. Scrivere vuol dire lottare?
«Be’ sì, quel racconto si avvicina allo sforzo, alla lotta per scrivere in circostanze difficili. C’è un cameriere che lavora nel bordello, la sua figura si ispira a un ragazzo conosciuto realmente in Turchia proprio in quell’ambiente. Lui mi si avvicina, iniziamo a parlare, mi dice che è uno scrittore, osservava l’ambiente in cui lavorava, le ragazze e ne scriveva. Non ho mai letto quello che ha scritto, il suo inglese era limitato, ma ricordo di avergli detto: “Questa è la maniera di scrivere, proprio il cosa e come puoi farlo”. La mia situazione tutt’altro che confortevole era simile, lottavo sempre materialmente. Sono andato a vivere in un paese molto povero, quando appariva disintegrato, e l’ho scelto come terra della scrittura. So che è quasi una prospettiva anti letteraria. Molta letteratura si scrive in comfort zone ed è una cosa differente. Non quello che vivevo all’epoca e il libro lo riflette».
In che modo è riuscito a raccontare così bene la storia di un amore che finisce?
«Qualcuno pensa che sia abbastanza realistico. Come percepiamo i segnali che descrivono quel che sembra accadere quando un amore sparisce? Retrospettivamente cerchi di analizzare le esperienze, di rintracciare le ragioni per le quali le cose avvengono e alla fine trovi una giustificazione. Per le creature che siamo cerchiamo sempre di spiegare, ma veramente per le esperienze fondamentali non c’è spiegazione. Davvero non possediamo spiegazioni. Forse è la cosa più difficile con la quale fare i conti. Il fatto di non comprendere poiché il dolore per le cose successe è spesso un’apparenza. L’odore, la puzza è il segnale divertente che ho intercettato per la fine di un amore. Sembra avere contemporaneamente una componente fisica e una emozionale. Non possiamo mantenere alcun controllo nella reazione di piacere o meno all’odore dell’altro. È il segno peculiare».
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